“«L’unanimità più uno». Plebisciti e potere, una storia europea (secoli XVIII-XX)” di Enzo Fimiani

Prof. Enzo Fimiani, Lei è autore del libro «L’unanimità più uno». Plebisciti e potere, una storia europea (secoli XVIII-XX), pubblicato da Le Monnier, che rappresenta un ambizioso progetto scientifico: ricostruire la storia del rapporto plebiscitario tra potere politico e adesione di massa nell’Europa contemporanea.
L’unanimità più uno. Plebisciti e potere, una storia europea (secoli XVIII-XX) Enzo FimianiVi ringrazio per avermi dato, qui, un’ulteriore possibilità di allargare la riflessione pubblica intorno a un tema che considero cruciale, non soltanto per gli studiosi ma anche e soprattutto per i cittadini di questo inizio di secolo XXI. Tra le pagine del volume, infatti, si parla in realtà della democrazia stessa. Di conseguenza, la vicenda ci riguarda piuttosto da vicino. Osservata sotto la specifica angolatura del plebiscito come fenomeno storico, ecco dunque che della democrazia contemporanea ci appaiono le luci ma anche le ombre, le derive antidemocratiche, l’eterna lotta per il potere, le relazioni con il consenso popolare. Nella varietà dei regimi che si sono succeduti in Europa dalla Rivoluzione francese ad oggi, è del popolo come soggetto giuridico che si cerca di parlare in questo libro, con intorno la capacità di mobilitarlo intorno a un obiettivo politico e in forme plebiscitarie, la ritualità collettiva, la forza dei simboli nello spazio pubblico della politica moderna.
La monografia che è uscita nel maggio scorso rappresenta in effetti il primo tentativo, non solo a livello italiano ma anche in ambito europeo, di raccogliere in un unico volume l’intera esperienza plebiscitaria contemporanea, così come si è evoluta a partire dalla seconda metà del Settecento fino alla fine del secolo XX. Finora, si disponeva di volumi e saggi su singoli plebisciti oppure su periodi connotati da usi ripetuti di un tale strumento di consultazione popolare da parte del potere. Non avevamo invece un approccio monografico che provasse a seguire il fil rouge plebiscitario lungo due secoli.
Non sta all’autore dire se un tentativo del genere, forse troppo ambizioso o velleitario, sia riuscito. Quel che appare certo è che si sentiva la necessità di illuminare meglio una questione storica che ha segnato di sé – e in una misura non trascurabile – l’intera vicenda della democrazia in Europa, fin dalle sue origini rivoluzionarie in Francia.
Il libro ha cercato di darsi un’impostazione “classica”, per così dire, ormai non troppo frequente nella storiografia italiana. Ciò si rileva in due sensi. Il primo riguarda la scelta di arrischiarsi in una cosiddetta “grande narrazione”, cioè in un affresco che tematizza il proprio argomento di studio seguendolo non entro un ristretto numero di anni, bensì attraverso il tempo lungo della storia, per di più non scegliendo un solo caso nazionale ma una pluralità di spazi geografici e statuali (l’utilizzo dei voti popolari di stampo plebiscitario “per Sì o per No” si è avuto in una ventina di aree nazionali europee, dalle principali come Francia, Italia, Germania, Spagna, Portogallo e persino nello stesso caso, pur isolato, dell’ex Unione sovietica, fino a quelle storicamente meno incidenti, almeno in età contemporanea, come Grecia, Bulgaria, Olanda, Belgio, Austria, Danimarca e così via). La seconda impostazione “classica” deriva dalla divisione in tre parti assunta dal volume, secondo un metodo caro ad alcuni dei principali teorici della metodologia storiografica europea del ‘900: a una parte iniziale nella quale si evidenzia una serie di premesse introduttive e si affrontano i principali nodi di metodo che emergono da uno studio del genere, segue una seconda parte che intende essere una vera e propria “narrazione”, nel cui corso il lettore potrà sentire raccontare una lunga e complessa storia – affascinante e al contempo, in molti passaggi, anche tragica – delle origini e poi delle evoluzioni del plebiscito come mezzo per conquistare, accrescere, gestire il potere. Alla terza parte, invece, viene affidato il compito di fornire le interpretazioni, ipotesi e spiegazioni storiche dell’autore. Alla fine del volume, vi è una sezione di strumenti utili a chi legge, dalle quasi mille e duecento note a una cronologia che consente di districarsi all’interno delle molte decine di voti plebiscitari di cui si parla, per chiudere con l’indice dei quasi mille e quattrocento nomi citati, tra autori e personaggi storici (alcuni di assoluta rilevanza, da Robespierre a Danton, dai due Napoleone a Cavour, da D’Annunzio a Mussolini, da Hitler a Salazar, da Franco a De Gaulle, da De Gasperi a Gorbachev).

La Sua indagine parte dalla Francia rivoluzionaria e napoleonica: la pratica plebiscitaria origina lì?
Sì, senza dubbio. E, se volessimo semplificare (ma fino a un certo punto), potremmo dire che nasce – appunto – con la democrazia medesima, o almeno assieme al filone della democrazia europea che dall’area francese avrebbe poi trovato maggiore diffusione fino ai giorni nostri.
L’idea che il popolo potesse essere chiamato a esprimersi su passaggi rilevanti della vita di uno Stato cominciò a circolare già nella seconda metà del ‘700, nel contesto della vivacità intellettuale derivata dalle varie articolazioni del movimento europeo dei “Lumi”. Gli eventi rivoluzionari avviatisi in Francia dalla fatidica estate del 1789 non fecero che accelerare e in certo modo “codificare” un simile percorso. Tutta la progressiva transizione della sovranità verso una nuova forma di legittimazione del potere basata sul popolo, richiese di costruire intorno a quest’ultimo concetto una cornice giuridica. Se la componente popolare si poneva quale base fondativa delle entità statuali intese in senso “moderno”, il popolo non era più soltanto un semplice dato sociale, bensì un soggetto giuridico. Esso, in determinate condizioni, poteva e doveva far “sentire la sua voce”, espressione assai diffusa nel discorso pubblico dell’epoca (e quando diciamo “popolo” non dimentichiamo, ovviamente, che stiamo parlando di una quota-parte della sua sola componente maschile).
Dopo la fine della monarchia francese e l’avvio della prima esperienza repubblicana nel settembre del 1792, si aprì la strada all’utilizzo concreto del mezzo plebiscitario (che pure allora, come per vari decenni successivi, prese altri nomi, come quello di “appello al popolo”). Nell’estate del 1793 i francesi vennero convocati al voto per pronunciarsi, attraverso la scelta secca tra le due opzioni favorevole o contraria, sulla nuova Costituzione repubblicana dell’anno I. Da quei giorni in poi, si istituì un legame indissolubile tra redazione di una nuova carta costituzionale e approvazione popolare. Nei due secoli successivi, sia in Francia sia in svariate altre aree nazionali d’Europa, molte volte sarebbero stati proprio dei plebisciti a sanzionare le “regole del gioco” costituzionali.
Di lì a poco, l’irrompere sulla scena – con il colpo di Stato del 18 brumaio 1799 – di un piccolo militare francese, di origine còrsa e mezzo italiano, avrebbe conferito all’istituto del plebiscito una veste nuova. Napoleone Bonaparte utilizzò appelli diretti al voto popolare per ben quattro volte durante la sua parabola di potere fino al 1815, a testimoniare l’importanza ormai raggiunta da un escamotage del genere. Lo fece in occasione dei più importanti tornanti della vicenda emblematica che lo vide protagonista. La novità di quelle votazioni, tenutesi peraltro senza grandi garanzie di segretezza, fu che ci si pronunciava non soltanto sui quesiti in sé (le nuove costituzioni del 1799 e 1815 o il consolato a vita nel 1802 o ancora il ripristino dell’autorità monarchica attraverso l’Impero nel 1804), quanto piuttosto su un “Uomo”, sul leader che chiedeva alla base popolare una legittimazione ulteriore, sul “Capo carismatico” che si collocava, forte di una simile base, al di là e al di sopra dei corpi intermedi istituzionali di tipo assembleare.
Questa duplice caratteristica plebiscitaria – ratifica di un regime e di un leader personale – avrebbe accompagnato di fatto, pur tra i chiaroscuri della storia, tutti i seguenti due secoli europei della vicenda complicata e controversa dei plebisciti.

Come si estende all’Italia il plebiscitarismo?
Attraverso la Francia, seguendo in modo quasi naturale l’onda lunga della storia più generale. Tra i due paesi confinanti c’erano da sempre relazioni particolarmente intense e così accadde anche per la nostra vicenda. Lo sbarco nella penisola di Napoleone e la sua armata, nell’estate del 1796, fu certo un’operazione geopolitica di conquista finalizzata a rafforzare la Francia che andava ormai uscendo dalla fase più delicata, dopo essere stata a lungo accerchiata dalle maggiori potenze europee che intendevano estirpare il virus rivoluzionario. Essa, però, agli occhi delle classi colte italiane, condusse con sé anche il riferimento alle idee nuove dell’Ottantanove e alla possibilità di replicarle nei vari stati italiani dell’epoca, che via via passavano sotto il controllo francese. Tra queste idee, un posto non secondario venne assunto dalla spinta a far pronunciare il popolo in forme dirette. Così, anche in quell’Italia che allora viveva l’inizio del “lungo Risorgimento” di cui ormai parlano gli storici, si ebbero varie manifestazioni di voto che assunsero carattere plebiscitario. Tra 1797 e 1805 molte popolazioni della penisola vennero chiamate a esprimersi su questioni di rilevante importanza, specie sull’approvazione di nuove carte costituzionali, redatte sul modello francese.
Tali esempi di plebisciti “ante-litteram” furono gli antesignani dei veri e più compiuti voti plebiscitari che avrebbero segnato di sé, in modo decisivo, l’Ottocento italiano e tutto il percorso finale di unificazione nazionale. Tra il 1848 e il 1870 furono una quindicina i plebisciti in area italiana, tutti di grande importanza. Se i voti del Quarantotto aprirono la via del consenso popolare a una nuova Italia, indipendente dal dominio straniero e avviatasi verso l’Unità, quelli del 1860 condussero a compimento – attraverso i milioni di “Sì” delle popolazioni interpellate – la nascita del nuovo Regno d’Italia, di proposito fondato sulla doppia legittimazione dinastica e popolare. I plebisciti del 1866 nel Veneto e in aree lombarde già austriaci, e 1870 a Roma e nei territori laziali ex-pontifici, sanzionarono invece i principali allargamenti territoriali della nuova compagine statuale.
Questa vena plebiscitaria italiana trovò dunque una propria peculiarità, pur dipanandosi dal ceppo originario di Francia: alle caratteristiche dei plebisciti francesi di cui dicevo (approvazioni di costituzioni, legittimazione di regimi, acclamazione di un leader personale), quelli in Italia tra 1848 e 1870 aggiunsero l’elemento cruciale della scelta della nazionalità e quindi dell’edificazione di nuovi stati, in una miscela inestricabile di più pulsioni, tipica dello strumento plebiscitario nella storia europea.

Quale rapporto intercorre tra plebisciti e dittature?
Una relazione stretta benché particolare, che si sviluppa soprattutto nel Novecento ma trova l’antecedente – anzi direi quasi una sorta di “archetipo” – nel pieno secolo XIX.
Fu l’esperienza di Luigi Napoleone Bonaparte, infatti, a far sentire i suoi effetti profondi. Lo fece di certo nel suo tempo storico, dal 1848 (quando il nipote di Napoleone il grande venne eletto, a suffragio universale maschile, presidente della II Repubblica di Francia dopo gli eventi rivoluzionari) al 1851-1852 (quando egli, dopo un colpo di Stato, divenne prima presidente a vita e poi imperatore del II Impero), fino alla conclusione della sua parabola, nel 1870, con la sconfitta militare a Sedan durante la fatidica guerra franco-prussiana. Napoleone III fece ricorso per tre volte a plebisciti, al fine di far ratificare dai francesi le principali svolte del suo potere e le forzature della legalità. In tal modo, pose una precisa ipoteca sull’istituto plebiscitario. Esso si rivelava non solo un portato della democrazia così come si era formata negli eventi rivoluzionari di fine ‘700, ma pure un mezzo utile – lo aveva già dimostrato il primo Bonaparte dopo il 1799 – per supportare regimi che deviavano dai canoni democratici, trasformandosi in sistemi di potere più o meno autoritari.
Questa specie di ipoteca bonapartista sul plebiscito riverberò i suoi effetti anche nel secolo successivo. Condusse a dibattiti teorici infiniti ma anche a ricadute precise sulla prassi. Se Luigi Bonaparte aveva dimostrato come fosse possibile appoggiarsi al popolo, sedurlo, mobilitarlo, i principali regimi dittatoriali, e persino totalitari, dell’Europa tra le due guerre mondiali del ‘900 affinarono questa prospettiva, in chiave di modernità e di politica di massa dopo la Grande guerra. Essi furono esperimenti di potere “moderni”, poiché coniugarono due dimensioni all’apparenza inconciliabili: da un lato, posero coercizione e violenza, fisiche e ideologiche; dall’altra, però, diedero prova di saper mobilitare le masse, sfruttare i moderni mezzi di propaganda e la tecnologia, utilizzare le forme stesse della democrazia a scopi del tutto antitetici, fino a millantare la realizzazione (lo disse Hitler in persona) della “specie di democrazia più bella che esista”.
Quindi i plebisciti nei regimi dittatoriali del secolo XX furono una delle cartine di tornasole di questo intreccio: anche il potere più anti-democratico, non poteva fare a meno di riferirsi agli stilemi e alle ritualità della democrazia per affermarsi e legittimarsi. I “Sì” ai quesiti posti alla base popolare non solo sanzionarono le scelte politiche di tali regimi, ma diedero loro anche la leva per proclamare il consenso di cui avrebbero goduto. Così, a decine si tennero plebisciti tra anni Venti e Quaranta del ‘900, in quasi tutti i regimi dittatoriali di destra, dal fascismo italiano al nazismo in Germania, dal Portogallo di Salazar alla Spagna di Franco, dalla Grecia di Metaxas alla Romania di Antonescu.

A quali forme plebiscitarie contemporanee assistiamo?
Nel corso dei due secoli della propria vicenda, il pronunciamento popolare che definiamo “plebiscito” ha naturalmente mutato alcuni dei suoi caratteri principali. Lo ha fatto assieme alla medesima evoluzione della storia europea. Da un lato si è sempre più affermato, affiancandosi ad esso e poi soppiantandolo, l’istituto del referendum. Esso, pur condividendo con le manifestazioni plebiscitarie la forma del voto – cioè il “Sì/No” – se ne differenzia per una serie di ragioni che ora sarebbe lungo analizzare, ma soprattutto per il fatto di essere codificato all’interno di precisi percorsi normativi, costituzionali e di leggi ordinarie, che ne definiscono tempi, modi e oggetti. Il plebiscito, viceversa, ha trovato proprio nella sua malleabilità e nel non essere mai stato davvero inscatolato entro norme stringenti, a monte, la sua utilità per il potere che se ne è servito. La possibilità di indire pronunciamenti plebiscitari potendo scegliere il quando, il come e il cosa, è stata la vera forza politica che ha permesso al plebiscitarismo di durare nel tempo lungo della storia europea, sotto plurimi sistemi di potere. Dall’altro lato, se non è più il tempo delle esperienze “classiche” del plebiscitarismo, da quelle originarie di stampo rivoluzionario-democratico alle torsioni dittatoriali novecentesche passando per il bonapartismo, è altrettanto vero che la politica tra fine XX e inizio XXI secolo presenta molti tratti di stampo plebiscitario. L’estrema personalizzazione della dialettica politica e il ruolo dei leader, l’eterno scontro tra potere esecutivo e legislativo, la ricorrente tentazione di scavalcare i parlamenti per istituire un circuito diretto tra leader e popolo, la tendenza a trasformare ogni consultazione elettorale in una sorta di continuo “plebiscito” pro o contro il capo politico di turno, la natura delle stesse consultazioni referendarie che spesso vanno assai oltre la lettera del quesito per cui sono convocate, rivelando una posta un gioco che in realtà è “altra”, sono tutti fattori che ci indicano come il plebiscitarismo, seppur mutato nel tempo, sia in qualche modo “connaturato” alla politica contemporanea.

Quale bilancio storico e politico si può tracciare dell’epoca dei plebisciti?
L’evocazione della componente popolare al fine di legittimare, consolidare o gestire il potere è figlia della nascita stessa dell’idea moderna di democrazia formatasi intorno alle teorie del 1789/1792. Pertanto, la vicenda dei plebisciti – che, storicamente, hanno rappresentato una delle espressioni dirette di questa componente popolare – ci appartiene. Nel suo specchio antico, possiamo ancora intravvedere apprendistati, slanci, illusioni, disfatte delle nostre democrazie e, forse, imparare. Le suggestioni di un’adesione dalla natura plebiscitaria, le tentazioni verso estreme personalizzazioni della dialettica politica, le irrisolte contraddizioni della democrazia insite nella cosiddetta “onnipotenza della maggioranza”, lo scivolamento verso forme attuali di “democrazia recitativa” che cambiano il rapporto tra potere politico e consenso di massa, la semplificazione di questioni istituzionali complesse, storicamente spingono a sostituire le grigie e “macchinose” pratiche di democrazia parlamentare con la più fascinosa, sbrigativa e per molti versi comoda acclamazione plebiscitaria, finendo per trasformare le libere espressioni di voto in plebisciti personali o di regime.

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