
Riemerge costantemente l’interrogativo che non si può eludere: quando, come e perché è caduto l’Impero romano?
L’evento decisivo, secondo la tradizionale, consolidata, tradizione storiografica si colloca nel 476 d.C., con la destituzione del piccolo Romolo Augustolo. Tuttavia è davvero sicuro che i fatti del 476 d.C. segnarono un trauma epocale per il mondo antico? È possibile cioè scorgere nelle vicende di quell’anno i presupposti della fine traumatica dell’impero d’Occidente?
Va considerato in ogni caso che di un simile trauma non restò sostanzialmente traccia nella coscienza dell’Occidente, già profondamente turbata. Si cita spesso la brillante considerazione di Momigliano che risale al 1959: «Possiamo cominciare con una buona notizia: in quest’anno di grazia 1959 è ancora possibile considerare verità storica il fatto che l’Impero romano declinò e cadde». Quando dunque? Con Odoacre o con Teoderico? O già con Onorio? E se ciò avvenne con Teoderico, sono ravvisabili gli elementi della rottura o di un processo diverso in cui invece sono leggibili marcate linee di continuità? Il punto è proprio una ricerca equilibrata che, d’accordo con Francesco De Martino e Paolo Grossi, scansi un pericolo distorcente nella ricostruzione storico-giuridica, abbandonando la questione della continuità fra antichità e medioevo, ridottasi più che altro a un fardello, perché mal posta come sopravvivenza di questa o quella istituzione, come un problema di involucri vuoti, di assonanze formali, e non di contenuti storicamente vivi al centro di una civiltà; ma che al tempo stesso non cada nell’opposto schematismo di cesure radicali magari perdendo di vista più lenti processi evolutivi o, se preferiamo, involutivi.
Quale ruolo ebbe la questione barbarica per la crisi dell’Impero romano d’Occidente?
La questione barbarica ha indubbiamente un rilievo decisivo nella crisi dell’Impero. Si deve tener presente come il secondo e il terzo secolo d.C. non solo abbiano conosciuto una forte crescita della densità di popolazione e di occupazione di territori precedentemente disabitati nell’Europa centrale e orientale, ma anche un progresso generale nell’economia delle tribù che vi abitavano.
I contatti tra i Goti e i Romani avevano avuto dunque un lungo periodo di gestazione ed è lecito ritenere che l’instaurarsi di tali rapporti risalisse ad almeno due secoli prima dello stanziamento di quel popolo all’interno dell’Impero: già nel I secolo, stoffe, utensili, armi e monili romani affluivano infatti nelle regioni del Baltico da loro occupate.
Una lunga serie di studi sul rapporto tra Romani e barbari ha, nel corso del tempo, ridimensionato la presunta alterità civile degli uni rispetto agli altri. Si è riconosciuto, infatti, che un processo di acculturazione delle stirpi germaniche che vivevano al di là del Reno e del Danubio era cominciato già prima del IV secolo. Si è accertato, in particolare, come al momento della grande ondata di invasioni di fine IV e di inizio V secolo, i contatti, le relazioni tra i vari popoli con i Romani erano già consolidati anche in considerazione della relativa permeabilità delle frontiere. Soprattutto è stata oggetto di riconsiderazione la presunta identità distintiva che i barbari avrebbero portato con sé una volta entrati all’interno dell’Impero. Al contrario, essi risultano aver dato prova di un alto grado di ricettività delle istituzioni e dello stile di vita romano.
Cosa significò la disfatta di Adrianopoli per la crisi finale dell’Occidente?
La battaglia di Adrianopoli del 378 fu l’evento più importante del regno di Valente e cambiò il volto dell’Impero: tra l’altro la morte di tanti veterani, in un periodo in cui era difficile reintegrare le perdite, costringerà Teodosio, pochi anni dopo, ad accogliere i Goti nell’esercito, dando una forte spinta alla sua barbarizzazione; la sconfitta della fanteria avvierà un mutamento nell’arte della guerra romana che, complice l’immissione massiccia di barbari, vedrà il prevalere della cavalleria sui fanti che a poco a poco diverranno marginali; inoltre l’Impero perderà il controllo della zona danubiana. I Goti diverranno una presenza costante all’interno del territorio romano e le loro pretese aumenteranno nel tempo. Negli anni successivi alla sconfitta di Adrianopoli, con l’imperversare dei Goti nell’Illirico, una violentissima pestilenza che decimava le forze barbariche, dilagò per tutti i Balcani. Si determinò una terribile epizoozia s’accompagnò quindi alla peste, sterminando le mandrie e le greggi della Tracia, della Pannonia e della Macedonia. Le città e le campagne balcaniche, saccheggiate dai barbari, furono devastate dalla carestia che si propagò in seguito anche nell’Italia settentrionale e, in particolare, nella Venetia et Histria. Qui la zona più colpita fu senza dubbio la parte orientale della provincia: alcune bande di incursori goti valicarono infatti le Alpi Giulie e razziarono le borgate rurali dell’Istria e dell’area montana compresa tra Aquileia ed Emona (Ljubljana).
Quale rilevanza ebbe, per i contemporanei, il sacco di Roma da parte di Alarico?
Ci si deve porre il problema se sia storiograficamente accettabile non sottolineare quanta differenza corre nella percezione della sensibilità dei contemporanei rispetto alla grande invasione dei popoli germanici in Gallia nel 406 e alle devastazioni del sacco di Roma perpetrato dai Visigoti di Alarico nel 410, evento senza paralleli nella millenaria storia di Roma e davvero avvertito come un grave e profondo trauma, tanto da essere ispirazione anche per La Città di Dio di Sant’Agostino. Tre giorni durò lo strazio di Roma. In questo tempo, e specialmente dopo la prima notte di cieca violenza, i Goti si dedicarono a un saccheggio confuso, ma estremamente fruttuoso, anche se non fu così sistematico come lo sarà quello dei Vandali guidati da Genserico quarantacinque anni dopo.
Le vicende che portarono al sacco di Roma da parte di Alarico si spiegano anche con le crescenti tensioni all’interno della famiglia imperiale. Negli ultimi anni del loro matrimonio (e della loro vita) le difficoltà d’intesa fra Serena e Stilicone si moltiplicarono, di pari passo col crescere dell’insofferenza di Serena per la politica accomodante del marito verso i Goti.
Quali vicende segnarono la lunga agonia della pars Occidentis?
Come districarsi in oltre un secolo e mezzo di tumultuose crisi, sanguinose congiure, repentine destituzioni, effimere usurpazioni (basti pensare a quelle su base provinciale di Costantino III, Giovino, Geronzio), nella ricerca del principio di legittimità che era divenuto un vero e proprio rebus? Ricordiamo le ultime convulse vicende: nel 465 d.C. viene eliminato Libio Severo, imperatore non riconosciuto da Costantinopoli; nel 472 d.C. Ricimero depone Antemio e viene proclamato Anicio Olibrio; nel 473 d.C. Gundebado, patricius e magister militum, favorisce la proclamazione di Glicerio; nel 474 d.C. Giulio Nepote, magister militum in Dalmazia destituisce Glicerio e viene proclamato imperatore; nel 475 d.C. Oreste depone Giulio Nepote e insedia il piccolo figlio Romolo Augustolo a sua volta, appena un anno dopo, destituito da Odoacre. Perché in questa interminabile catena di caotiche e illegali successioni il trauma si sarebbe consumato attraverso la destituzione di un piccolo e insignificante imperatore collocato sul trono come una sorta di segnaposto? Il 476 appare in buona sostanza un evento-spartiacque scelto per convenzione a prescindere dalla sua portata effettiva.
Arnaldo Marcone insegna Storia romana nell’Università degli Studi «Roma Tre»