
In che modo essa rappresenta una vera e propria ideologia, una «quasi-religione», come Lei la definisce?
Il titolo del libro è appunto quello di L’ultima ideologia e forse conviene spiegare il perché di questi termini, per certi versi molto forti. Partendo da ideologia, sostengo che la rivoluzione digitale offra una determinata «visione del mondo» che riesce a spiegare tutti i fenomeni a tutti (o la maggior parte degli) esseri umani. In questo senso, è utile a imporre un’egemonia culturale e ad «orientare» i comportamenti: non ci si può contrapporsi alla rivoluzione digitale, ma soprattutto essa è in grado di strutturare e costruire sogni, aspettative, mitologie contemporanee. Naturalmente, specie dopo i totalitarismi del Novecento, il termine ideologia ha mutato i propri significati ed è spesso utilizzato in accezione negativa come pensiero falso o distorto. La rivoluzione digitale è una menzogna? No, dal mio punto di vista non lo è, ma interessa di più che sia una narrazione oltretutto a carattere globale perché accettata e introiettata a diverse latitudini e per diverse culture.
L’aggettivo ‘ultima’ va anche spiegato. Si può sostenere che la rivoluzione digitale sia l’ultima ideologia in ordine di tempo, ovvero l’ultima erede delle grandi rivoluzioni del passato (come le rivoluzioni del fuoco, del libro, francese, industriale, russa, ecc.). Ma la rivoluzione digitale è spesso descritta anche come la causa ultima dei cambiamenti sociali contemporanei e delle grandi rivoluzioni del presente, basti pensare al legame strettissimo tra il cambiamento climatico e la trasformazione digitale (uno dei nuovi modi di chiamare la rivoluzione digitale). Le due sembrano intrecciate indissolubilmente e il digitale, ovviamente, viene presentato come una delle soluzioni per la crisi climatica. Infine, si potrebbe equivocare sul fatto che la rivoluzione digitale sia l’ultima ideologia possibile in un’epoca che ci pare, o ci pareva fino a poco fa, come in crisi di ideologie. Non era questo il senso che volevo attribuire, ma sicuramente credo che oggi non si intravveda un’ideologia più forte e globale di quella digitale.
Questo carattere ideologico è anche intrecciato con quello religioso, come cerco di mettere in luce nel capitolo 4. In fondo una forma di religione è ideologica perché impone o suggerisce di credere in qualcosa: chi ripone fiducia, crede appunto, non si interroga tanto sulla veridicità o falsità di certi costrutti, ma li abbraccia, li fa propri e regola la sua esistenza in base a questi. La rivoluzione digitale in questo senso è quasi-religiosa perché propone anche regole e comandamenti da seguire, propone una sorta di religione da seguire facilmente, senza grossi sforzi.
Chi ne sono miti e profeti?
La dimensione religiosa della rivoluzione digitale propone figure e oggetti che spiccano sugli altri. Santi patroni che l’hanno fondata, mecche e santuari dove celebrarla come la Silicon Valley o un Apple store, reliquie digitali che acquistiamo e incorporiamo nelle nostre vite continuamente, addirittura eretici che contrastano le direzioni nefaste verso cui sta andando la digitalizzazione ma non mettono quasi mai in forse il fatto che sia una rivoluzione.
Le figure forse più importanti sono forse i profeti o meglio quelli che nel libro chiamo profeti, evangelisti, messia e guru. La religione della rivoluzione digitale è infatti strettamente multi-confessionale anche perché si pone l’obiettivo di essere globale e non urtare alcuna sensibilità culturale. Si tratta di politici, giornalisti, accademici e soprattutto imprenditori del digitale che ogni giorno, instancabilmente, evangelizzano platee di adepti (tutti noi). Lo fanno dalle pagine dei giornali, attraverso conferenze, nelle aule parlamentari, in cattedra e ci dicono sempre le stesse cose da decenni: siamo immersi in un cambiamento epocale, dovete sentirvi parte di questo cambiamento, vi proponiamo reliquie abbastanza costose per entrare nel regno dei cieli digitali, tenete duro perché domani (sempre domani) il digitale vi salverà. Sono divulgatori infaticabili, venerati dalle società contemporanee che li ha arricchiti anche e soprattutto durante la pandemia o che li ha incoronati come dei, eroi e miti contemporanei sulle copertine dei giornali, come persone dell’anno (Elon Musk nel 2021 ha vinto questo premio speciale sia per il Time che per il Financial Times) o dedicando addirittura erigendo statue come quella di Steve Jobs a Budapest.
Il genere preferito dai profeti è naturalmente la profezia, la previsione sul futuro sempre in salute della rivoluzione digitale. Ma per realizzare nuove profezie occorre anche creare alcuni miti. E la rivoluzione digitale è accompagnata da vari miti come ad esempio: la società digitale è univoca, il digitale globalizza le abitudini, oppure la digitalizzazione è infallibile, o ancora la società digitale è una società naturalmente democratica, equa, la digitalizzazione è a disposizione di tutti. Tutti questi miti positivi si sono dimostrati infondati nel corso del tempo e hanno lasciato spazio a visioni più apocalittiche, a mio avviso altrettanto “mitiche”. Ma mito non significa qualcosa di sbagliato: il mito vuole spiegare e creare un universo di riconoscimento. Ecco allora che, accanto agli evangelisti, la rivoluzione digitale ha trovato i propri miti negli oggetti che vende: da orologi a CDROM negli anni ’70 e ’80, a Internet o il telefono mobile negli anni ’90, allo smartphone e tutti i dispositivi che ci mettiamo in casa e in tasca oggi. Pensiamo poi ai luoghi “mitici” in cui credo che la Silicon Valley rappresenti un prototipo eccezionale, ispirazionale e di lungo periodo.
A chi serve in realtà e perché prosegue la rivoluzione digitale?
Nella conclusione del libro, sostengo che la rivoluzione digitale sia utile a politica, imprenditoria, consumatori globali per “giustificarsi”. I politici giustificano tutti gli stanziamenti fatti in nome della rivoluzione digitale, se questa è il futuro obbligato che non si può contrastare. Essendoci questa sicurezza sul futuro, non serve interrogarsi troppo ed erogare fondi. Gli imprenditori digitali hanno tutto l’interesse a sostenere questo grande racconto per un ovvio tornaconto economico, ma anche per auto-narrarsi come le principali protagoniste di questo cambiamento epocale. Infine, ed è forse la cosa più interessante, tutti noi consumatori dobbiamo in qualche modo giustificare le ore spese con e attraverso i dispositivi digitali. Se questa è una rivoluzione o una trasformazione e se è così importante per l’umanità, in fondo voler essere sempre immersi nell’universo digitale è ovvio. Chi si vorrebbe perdere la rivoluzione?
Sul perché persista ci possono essere molte ipotesi, ma nel libro sostengo che una questione strategica è stata la capacità della rivoluzione digitale di cambiare pelle in superficie ma di rimanere sostanzialmente invariata in termini di ideologie più profonde. In fondo anche solo il nome spiega facilmente questo processo: quella che negli anni ’70 e ’80 era la rivoluzione dell’informazione, che diventa la rivoluzione digitale dagli anni ’90 e poi trasformazione digitale nell’ultimo decennio o poco più è un esempio di come un processo muti nome per rimanere appealing e sexy. Ma anche, di fatto, che tutti questi nomi presuppongano idee e visioni del mondo, ideologie, appunto, simili.