
Affermare la propria identità implica il riconoscimento di un’alterità: come e da chi origina questo processo?
Occorre essere più precisi: l’affermazione della propria identità implica, ben prima del riconoscimento, l’istituzione dell’alterità. L’alterità esiste in quanto viene istituita, posta in essere, dall’identità. Soltanto se si ritiene che l’identità sia un principio di cui non si possa fare a meno, un valore unico, assoluto, indiscutibile, l’alterità ci appare non come qualcosa di costruito, ma di dato, altrettanto indiscutibile dell’identità. Se un soggetto afferma o reclama la propria identità, necessariamente fa esistere gli altri in quanto altri, ossia tutti coloro che non sono il soggetto e che automaticamente vengono collocati nella categoria opposta a quella di identità, cioè appunto l’alterità. Per esprimerci con le formule della logica classica, mediante l’affermazione della propria identità il soggetto “A” crea il “non-A”. Infatti, l’alterità è in primo luogo connotata negativamente: in prima istanza è un “non”. In seguito, l’ideologia identitaria può procedere ad articolare la categoria generica dell’alterità, selezionando un qualche “altro”, a cui dall’esterno si attribuisce un’identità. Di solito le ideologie identitarie scelgono un proprio “altro”, inteso come “nemico” e come rappresentante di un’umanità inferiore alla propria. Il riconoscimento dell’alterità assume quindi due aspetti: l’altro è genericamente un “non-noi”; l’altro può anche essere un “meno-che-noi”. (È ben difficile che in una prospettiva identitaria l’altro sia un “più-che-noi”). Ma gli altri possono essere trattati in modo diverso, anziché essere collocati in una categoria di alterità generica o di alterità particolarizzata? La risposta è sì. Gli altri non sono semplicemente e soltanto “altri”: sono diversi, ma sono anche “simili”. La somiglianza (o per meglio dire, il misto di somiglianza e differenza) è la rappresentazione alternativa all’identità. La critica radicale al concetto di identità parte dal presupposto che vi siano rappresentazioni differenti e più congruenti rispetto alla realtà delle cose e in particolare rispetto alla condizione umana. La rappresentazione alternativa all’identità è esattamente quella che induce a vedere negli altri non alterità, bensì un misto di somiglianza e differenza. Non si tratta di un mero scambio o gioco di parole tra identità e somiglianza: si tratta di visioni, prospettive, rappresentazioni che partono da presupposti differenti e con implicazioni divergenti, pressoché opposte.
Quali sono le principali critiche al concetto di identità?
Direi che la prima critica è di tipo ontologico: al concetto di identità – come già diceva Hegel – non corrisponde nulla di reale nel mondo. L’identità quindi – parola senza dubbio bella e seducente (ben più che somiglianza) – rischia di essere un mito, e nella misura in cui diventa un mito che non lascia spazi ad alternative, un mito assai pericoloso. I soggetti che vengono posseduti dal mito dell’identità corrono per sé e fanno correre agli altri molti rischi. Se si tratta di una persona, basti pensare alla seguente situazione: o la persona dispone di una identità e allora tutto il suo lavoro psicologico, tutto il suo impegno, non consisterà in altro che difendere, conservare, fare riconoscere dagli altri la propria identità (l’identità diviene così una sorta di corazza); oppure, se l’identità è null’altro che un’aspirazione indefinita, un qualcosa di mai raggiunto e acquisito, la frustrazione più totale sarà il destino di quella persona. Molte aporie riguardano l’identità sia di tipo singolo sia di tipo collettivo. Affermare l’identità di un “noi”, come di un “io”, significa tutto sommato volgere lo sguardo verso il passato: l’identità acquisita è inevitabilmente un passato che vogliamo estendere al presente e al futuro. Significa dunque privarsi di un’attrezzatura mentale adeguata ai mutamenti, al fronteggiamento del presente e alla progettazione del futuro: significa chiudersi entro i recinti di ciò che si suppone essere la nostra sostanza (biologica, culturale o bio-culturale). Significa chiudersi nello stesso tempo al futuro e agli altri, entrambi concepiti come fonte di “alterazione”. Significa che gli altri, istituiti nella loro alterità, si configurano inevitabilmente come un indizio, come un fattore, come una minaccia di alterazione, di corruzione e di messa in crisi della nostra identità. Nulla di più facile che in tale contesto l’identità si allei all’idea di purezza: l’identità non può che essere pura; la contaminazione è ciò che proviene dall’esterno. Occorre dunque attrezzarsi per fare in modo che l’alterità non si insinui subdolamente in noi: occorre prendere le misure sociali e politiche affinché l’alterità rimanga del tutto separata, ovvero a giusta distanza, dall’identità, da ciò che il noi “è” o ritiene di “essere”, ossia dalla propria “essenza”. Se la distanza di sicurezza non viene rispettata, è quasi inevitabile che il noi agisca per ripristinare tale distanza ed è pure probabile che, sempre per motivi di sicurezza, allontani e respinga l’alterità in un qualche “altrove”, in un “fuori” rispetto al territorio (fisico, sociale, mentale) del noi. In italiano abbiamo un’espressione molto appropriata per descrivere ciò che succede in tali frangenti. L’espressione “fare fuori” può infatti significare tanto lo sbarazzarsi di qualcuno o di qualcosa, quanto la sua eliminazione, il suo annientamento. Il respingimento è uno sbarazzarsi: i vari episodi di “pulizia etnica” a cui abbiamo assistito nel Novecento ne sono la dimostrazione storica concreta. Nella sua ambivalenza, l’espressione “fare fuori” ci fa però capire che il noi può transitare con una certa facilità dalla fase dell’allontanamento e del respingimento (eliminazione delle relazioni con gli altri) alla fase dello sterminio e dell’annientamento (eliminazione degli altri). Ci fa capire che, a partire dall’idea di identità, la quale istituisce automaticamente un “fuori” (il mondo dell’alterità, rispetto al “dentro” del noi), si può via via scivolare dal riconoscimento e persino dal rispetto nei confronti degli altri, all’avvertimento della loro minaccia, e quindi al loro respingimento in un “fuori” più lontano e sicuro, per finire in ciò che per il noi identitario è il massimo della sicurezza, ossia l’eliminazione fisica dell’altro: cacciare gli altri in un fuori assoluto, nel nulla da cui non si torna più indietro.
Nel Suo testo, Lei affianca affermazione dell’identità e impoverimento culturale: in che modo i due fenomeni sono collegati?
Mi pare di poter rispondere in questa maniera: l’identità è una concezione intrinsecamente molto povera, per cui se da un lato è espressione di un pensiero povero, dall’altro è a sua volta generatrice di povertà di pensiero. Si potrebbe anche dire però che l’identità è segno o prodotto di un pensiero ridotto all’osso, all’essenziale, nel senso che l’identità indica e riproduce l’essenza o la sostanza di una cosa. In fondo, chi predica l’identità adotta un pensiero essenzialista: le cose, ma soprattutto – nel nostro caso – i soggetti singoli o collettivi vengono concepiti come aventi una sostanza permanente, che è la base della loro identità. In questo caso, non di povertà si tratterebbe, ma appunto di essenzialità. Per chi invece prende un’altra strada, per chi adotta un’altra prospettiva, ossia non quella delle essenze, bensì quella delle funzioni e delle relazioni, e soprattutto delle relazioni di somiglianza e differenza, l’identità inevitabilmente si presenta non come essenziale, ma come povera e impoverente. Se pensiamo alla realtà delle cose (umane o naturali che siano) come un intrico di somiglianze e differenze, se cioè vediamo il mondo con gli occhi delle teorie della complessità, immediatamente l’identità ci appare non come un tentativo di “riduzione” della complessità, bensì come un tentativo accecato e accecante di “negazione” della complessità. Dire complessità significa sempre ammettere che per orientarci nel mondo (sia esso il mondo della natura, sia esso il mondo della società) dobbiamo provvedere a de-complessificarlo in una qualche misura, adottare cioè misure ed espedienti di riduzione della complessità. Una qualunque cultura umana provvede sempre a de-complessificare il mondo secondo criteri di selezione più o meno chiari e coerenti sotto il profilo logico e comunque socialmente condivisi. Per come si presenta, l’identità non rientra affatto nel novero degli espedienti di de-complessificazione: essa non si pone l’obiettivo di ridurre la complessità; in maniera più netta e radicale non la ammette, non la nomina nemmeno, non ne tiene conto; agisce come se la complessità non ci fosse. Una qualsiasi concezione identitaria vede il mondo non come un groviglio di relazioni, ma come fatto da due semplici e sole categorie in opposizione tra loro: identità (A) e alterità (non-A). In questo schema sta la povertà e l’effetto di impoverimento dell’identità. Per chi comprende che la realtà è un groviglio di somiglianze e di differenze, un intrico di relazioni, da dipanare in qualche modo, la concezione dicotomica che dà luogo alle categorie di identità e alterità appare senza dubbio come del tutto inappropriata. Agli occhi di coloro che amano cogliere gli intrecci delle somiglianze e delle differenze la dicotomia risulta essere fonte di impoverimento non soltanto perché istituisce due sole categorie (di cui una, l’alterità, in rapporto di totale dipendenza dall’identità), ma anche perché prevede un’unica, semplice ed elementare operazione, mentale prima ancora che fisica: quella del taglio in due. Al contrario, la prospettiva della complessità, ovvero delle somiglianze e delle differenze, prevede certamente tagli di sfrondamento e di selezione, in vista però di un’operazione arricchente, che è quella dell’intrecciare fili in una molteplicità di direzioni. Per chi abbandona l’ideologia dell’identitarismo l’obiettivo che ci si propone è duplice: rendersi conto dell’intrico delle relazioni e cercare di trasformare – con tagli per un verso e con collegamenti per un altro – l’intrico in un intreccio, il groviglio in una rete: la quale, ovviamente, tiene fin che tiene, pronta a essere qua e là rammendata e rifatta.
L’identitarismo emergente porterà ad uno scontro di civiltà?
È da decenni che l’identitarismo si è imposto come mito del nostro tempo. E forse mai come ora – dopo le catastrofi di cui l’Europa del Novecento è stata protagonista – avvertiamo il rischio di una ricaduta, sullo stesso suolo europeo, negli eccidi che ne hanno segnato la storia recente. I muri che vengono eretti, i respingimenti che vengono attuati, accompagnati dal rigetto degli “altri” in una qualche categoria di “alterità” e di “meno-che-umanità”, suscitano apprensioni più che giustificate. È stato Samuel Huntington a evocare linee di faglia che si verrebbero a determinare lungo i confini delle civiltà e quindi la possibilità di scontri conflittuali tra grandi configurazioni culturali. Huntington è stato molto criticato, specialmente da parte degli antropologi. La critica riguarda soprattutto il fondamento di tutta la sua visione e previsione, vale a dire l’idea del carattere essenziale e dunque irrinunciabile dell’identità: per Huntington ogni noi non può fare a meno di rivendicare la propria identità e tutto ciò in opposizione agli altri. Merito di Huntington è stato però quello di sottolineare l’inevitabilità del processo che conduce dall’affermazione dell’identità alla fase del conflitto e dello scontro. Come dargli torto? Il punto riguarda però la premessa: davvero ogni noi non può fare a meno di definirsi in termini di identità e quindi di “opposizione” nei confronti degli altri? Oppure i noi possono definirsi in “relazione” agli altri, facendone emergere non solo le differenze, ma anche le somiglianze, e quindi tentando di proporre e instaurare regimi di convivenza? Di questi tempi, tutto ciò è tremendamente difficile: rasenta l’utopia. Ma sapere che è possibile – come è dimostrato dalle varie forme di convivenza tra società diverse che gli antropologi hanno studiato in molti angoli del mondo – è lo spiraglio della speranza che rimane. È certamente poco probabile, ma rinunciare alla possibilità (ancorché minima) sarebbe un ulteriore delitto.