“«L’osservate stelle». Costellazioni letterarie tra tardo Umanesimo e nuova scienza” di Giordano Rodda

Dott. Giordano Rodda, Lei è autore del libro «L’osservate stelle». Costellazioni letterarie tra tardo Umanesimo e nuova scienza pubblicato dalle Edizioni dell’Orso: quale rapporto intercorse tra lo studio del cielo e la letteratura in volgare dalla fine del Quattrocento ai primi anni del Seicento?
«L'osservate stelle». Costellazioni letterarie tra tardo Umanesimo e nuova scienza, Giordano RoddaCredo sia difficile immaginare un oggetto poetico più immediatamente affascinante del cielo, verso cui fin dall’antichità più remota si posano gli sguardi dei filosofi, degli scienziati, degli artisti, nonché di chiunque sia convinto che lassù si trovi la sede di ciò che è riconducibile al divino. È per questo che se da un lato abbiamo le riflessioni di carattere tecnico di Ipparco, Aristotele o Tolomeo, dall’altro troviamo le grandi narrazioni di Arato di Soli, Igino, Manilio. Concentrandosi sulla volta stellata, letteratura e scienza si compenetrano già dalle origini. Tale ibridazione non fa che favorire a sua volta il continuo intrecciarsi dell’astronomia e di ciò che oggi chiameremmo astrologia, dove viene analizzato l’influsso dei corpi celesti sull’uomo e sulle sue vicende, prendendo spunto dal valore simbolico assegnato attraverso l’identificazione mitologica a un pianeta, a una singola stella, a una costellazione. La riscoperta umanistica dei testi antichi, favorita dal diffondersi dello studio del greco, insieme alla circolazione capillare dei testi astronomici di area mediorientale, è alla base di un rinnovato interesse verso lo studio del cielo, in particolare a Firenze e a Ferrara, ma in varia misura in tutti i maggiori centri che ospiteranno i protagonisti del Rinascimento. Va da sé che si tratta di un tema molto studiato, soprattutto per quanto riguarda la filosofia e storia dell’arte (si pensi a Warburg, Panofsky, Saxl, Cassirer, fino ad Adorno, e in Italia al fondamentale magistero di Garin e Vasoli). Un po’ meno, se preso nella sua organicità, dal punto di vista strettamente letterario, per quanto al di là di adesioni e scetticismi l’elemento celeste continui a essere al centro del poetabile, sovente caricato di nuovi significati. Si tratta di contesti complessi, come, per limitarsi a un esempio, il neoplatonismo fiorentino e il dibattito tra le tesi di Marsilio Ficino e quelle di Giovanni Pico della Mirandola; o ancora le previsioni negli almanacchi di future catastrofi, interpretabili in vari modi da parte dei polemisti cattolici o da chi si faceva tentare dall’idea di una Chiesa più vicina al modello evangelico, fino alla Riforma; o infine l’idea dell’eroe che fonda una casata (come gli Este) e ha il suo destino già scritto nelle stelle. Un tema classico dell’encomio, ma che a ben vedere può porre anche qualche problema di ortodossia.

In che modo il legame con gli astri rappresenta un livello di lettura che finisce col coinvolgere quasi ogni opera del periodo?
La pervasività del tema celeste in questi anni arriva al punto che è raro imbattersi in un testo dove, in qualche modo, non si faccia riferimento al cielo o alle stelle, sia questo un mero contrappunto pittorico all’interno di una stilizzazione classicista o la puntigliosa riproduzione dei complicati calcoli dell’astrologia iudiciaria. Il Cinquecento, com’è noto – con i suoi prodromi e le sue conseguenze più tarde – è un secolo cruciale per la ricalibratura delle proporzioni tra l’uomo e il cosmo, quella machina mundi che informa, a cascata, tutto il Creato; parlare dell’universo è parlare di sé stessi, e viceversa. I confini si ampliano: i grandi viaggi portano sì alla definizione di una nuova ecumene terrestre, ma anche alla riscoperta, e a volte alla scoperta, di costellazioni ignote. Vale la pena di ricordare che del 1543 è il De revolutionibus orbium coelestium di Copernico, testo che, grazie alla prudente prefazione di Osiander, viene per lungo tempo considerato una semplice ipotesi di scuola, fino a quando Bruno e Galileo non ne rivalutano la sua nuova idea di universo – grazie a testi che sono non solo letterari, ma figurano a pieno titolo tra i massimi esempi della prosa del periodo, come la Cena de le ceneri e il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo – e la trasformano in un concreto tema di discussione, con le difficoltà e gli eventi a volte tragici che ben conosciamo. Ma questa storia letteraria mostra anche episodi gustosi e quasi inspiegabili. A esempio il dialogo tra Carafulla e Ghetto Pazzi nei Marmi di Anton Francesco Doni, che meno di dieci anni dopo la pubblicazione dell’opera di Copernico – che, come si è visto, non fu certo di ampia diffusione presso il grande pubblico, e anzi viene descritta da Arthur Koestler come «il libro che nessuno ha letto» – dibattono in tono burlesco dell’ipotesi eliocentrica. Il tutto senza mai dimenticare che questi secoli eccezionali vantano alcuni degli episodi celebri della nostra letteratura, come il viaggio di Astolfo sul carro di Elia fino a una Luna incredibilmente somigliante alla Terra, così come verrà descritta nel Sidereus nuncius, ma anche il conflitto tra cielo e inferno della Gerusalemme Liberata o il viaggio conoscitivo nell’Adone di Marino dove si celebrano Colombo e Galileo.

Nel libro, Lei conduce cinque indagini incentrate su specifici personaggi letterari: quale, a Suo avviso, risulta più rappresentativo dello stretto rapporto tra astrologia e letteratura in volgare?
Il rapporto tra cielo e letteratura tra Quattrocento e Seicento è così complesso che sarebbe pura utopia pensare di esaurirlo nello spazio di un singolo libro, anche se ci si limitasse a un’ottica strettamente antologica. Così, mi è sembrato preferibile proporre cinque scandagli, credo ugualmente rappresentativi, che illustrino questa varietà straordinaria e al tempo stesso non nascondano e anzi evidenzino gli inevitabili legami interni. Che si parli di commedia, trattatistica, epica, poesia macaronica od odeporica, il cielo c’è sempre. Iachelino, il protagonista del Negromante di Ariosto, è una bella figura di negromante-astronomo con cui dialogheranno Della Porta o lo stesso Bruno, e il suo realismo si coglie paragonandolo a una figura realmente esistita all’epoca come Domenico Bianchelli; Ruggiero, il capostipite estense dall’Orlando innamorato all’Orlando Furioso, viene continuamente spinto fuori (dai “cattivi” come Atlante) e dentro (dai “buoni” come Melissa e Merlino) il suo percorso già stabilito dalle stelle; Cingar nel Baldus è uno straordinario “poeta nel poema”, che propone una personalissima e beffarda cosmografia dove si mostrano i cieli traboccanti di vizio degli dei della classicità; Colombo e Vespucci viaggiano con il conforto della Croce del Sud, ma mentre ampliano i confini del mondo contemporaneamente rimpiccioliscono lo spazio dell’ignoto; infine Momo, il dio rivoluzionario, appare con insospettabile frequenza nei testi che pensano a sostituire un cielo classico e ormai datato con quello della nuova scienza, fino allo Spaccio della bestia trionfante di Giordano Bruno. Sono percorsi paralleli e complementari, anche quando sembrano in aperto conflitto tra di loro.

In che modo, nelle opere esaminate, rivivono gli echi e i riflessi letterari del percorso che condusse dall’astrologia iudiciaria alla nuova scienza?
È bene precisare che sarebbe alquanto riduttivo pensare a un percorso lineare, di progressivo superamento della superstizione e dell’ipse dixit, nel lentissimo abbandono del cosmo aristotelico o dell’astrologia (che peraltro sembra godere di buona salute ancora oggi, anche se in una forma assai più povera dal punto di vista culturale) e nel corrispondente affermarsi dell’ipotesi copernicana. Si tratta al contrario di una storia di continui ripensamenti e marce indietro, salti in avanti e precipitose ritrattazioni, tanto che ancora Galileo si diletta a tracciare temi natali e Newton si dimostrerà tutt’altro che contrario a simili passatempi. All’epoca infatti astrologia e astronomia avevano confini assai ambigui, e a praticare l’astrologia non significava essere irrazionali e creduloni; anzi, spesso i più grandi filosofi naturali trovavano proprio nello studio delle influenze celesti le conferme della loro dotta attività speculativa. In questo senso, è sintomatico lo scarto presente in molti autori tra la pratica privata e le posizioni pubbliche; man mano le bolle papali tuonano contro l’astrologia che mette in dubbio il libero arbitrio (ma quasi nessun papa fa a meno del proprio astrologo personale, che spesso li porta a gesti sconsiderati perché “fatti con il favore delle stelle”, come nel caso di Giulio II), si fa a gara a mettere in ridicolo i ciarlatani che cianciano di geniture e grandi congiunzioni, salvo interpellarli per varie questioni personali. Per limitarsi ancora a qualche esempio, per la pubblicazione della Secchia rapita Alessandro Tassoni, che scrive già nei primi decenni del Seicento, cerca in ogni modo di evitare che venga scelto un giorno infausto; e se Francesco Guicciardini sembra mostrare tutto il suo disprezzo verso gli astrologi nei Ricordi, suo fratello Luigi è un grande appassionato di scienze occulte, e Ramberto Malatesta finisce con lo scrivere l’oroscopo per entrambi. Allo stesso modo cresce e viene messo a tacere, per poi rispuntare in un continuo e vivace dialogo, il sospetto verso un cosmo che appare sempre più innaturale, tutt’altro che intuitivo, separato in modo netto tra corruzione e purezza, tradito nei suoi moti ipotizzati dai nuovi e più precisi calcoli, per cui si cerca – come fa Fracastoro – di moltiplicare eccentrici, epiclicli e deferenti per cercare di tenere insieme una costruzione fragilissima. Può essere perfino un monaco benedettino come Folengo a tuonare contro l’inganno dell’universo diviso in sfere. È, in ultima analisi, una vicenda molto umana, che si presta poco a quell’ansia di identificare un modello, per poi magari sfidarlo, così caratteristica nel sedicesimo secolo, e che molta critica contemporanea oggi cerca di rintracciare anche dove non c’è. Come in ogni vicenda umana, non ci si può aspettare di trovare troppa coerenza; ma è proprio quest’eterogeneità a dirci molto di più.

Giordano Rodda (1978) svolge attività di ricerca presso la Scuola di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Genova. Si è occupato di letteratura del Cinquecento (in particolare Teofilo Folengo) e del Seicento, di teatro settecentesco, dei rapporti tra letteratura e scienza. Ha curato l’edizione dell’Ormisda di Apostolo Zeno (2017) e, insieme a Franco Paolo Olivieri, del Carteggio consolare con la Repubblica di Genova di Carlo Goldoni (2021).

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER
Non perderti le novità!
Mi iscrivo
Niente spam, promesso! Potrai comunque cancellarti in qualsiasi momento.
close-link