
Ebbene, ricorrendo a un certo schematismo, per ovvie ragioni di sintesi, potremmo riassumere le tappe di sviluppo della cooperazione internazionale per il controllo delle malattie infettive secondo tre macro periodizzazioni. Una prima fase corrisponde all’epoca delle convenzioni sanitarie internazionali, inaugurata dalla Conferenza sanitaria internazionale convocata a Parigi, nel 1851, allo scopo di armonizzare le politiche nazionali in materia di profilassi contro colera, peste e febbre gialla. L’iniziativa si è conclusa con un nulla di fatto, ma il processo di regolazione era ormai avviato: da questo momento la sanità pubblica cessa di rappresentare una questione di puro dominio riservato di ciascuno Stato. Di lì a poco, infatti, è stata sottoscritta con successo la prima Convenzione sanitaria internazionale (Venezia, 1892), con l’obiettivo di scongiurare il rischio, aggravatosi dopo l’apertura del Canale di Suez nel 1869, che il colera potesse diffondersi in Europa via mare.
Con il passaggio al XX secolo, l’esigenza di avere delle autorità tecniche permanenti che vigilassero sulla sicurezza sanitaria internazionale ha condotto alla progressiva verticalizzazione della cooperazione sanitaria. Un processo di istituzionalizzazione, infatti, ha segnato la seconda tappa dello sviluppo del settore in esame. Pur non mancando precedenti iniziative in tal senso, il momento forse più rappresentativo di questa nuova tendenza può essere rintracciato nella fondazione a Parigi, nel 1907, dell’Office international d’hygien publique. A seguito della mancata adesione degli Stati Uniti di Wilson alla neo-costituenda Società delle Nazioni (SdN), l’impossibilità di fare dell’Office la sua agenzia specializzata ha portato alla costituzione di un nuovo ente – l’Organizzazione della sanità della SdN –, che, tuttavia, ha avuto vita breve, travolto dallo scoppio della Seconda guerra mondiale. A conflitto concluso, nel nuovo assetto costituzionale delle relazioni internazionali, definito dalla nascita delle Nazioni Unite, la spinta istituzionalistica ha trovato compimento, nella primavera del 1946, con la fondazione dell’OMS quale agenzia specializzata competente in materia di salute.
L’ultima fase è inevitabilmente connessa al ruolo guida di questo nuovo attore non statale nel contesto della cooperazione sanitaria internazionale. Infatti, dopo l’entrata in funzione dell’Organizzazione, nel 1948, l’esigenza di adeguare le convenzioni esistenti all’incessante evoluzione del progresso scientifico e quella di armonizzare in una disciplina unitaria un quadro normativo altrimenti frammentato in una pluralità di accordi hanno condotto l’OMS a esercitare i particolari poteri normativi che le conferisce il trattato istitutivo e così ad adottare, nel 1951, una prima versione del Regolamento sanitario internazionale (RSI). Quest’ultimo, tuttavia, presentava profili d’innovazione formali e procedurali, che senz’altro ne facilitano l’aggiornamento nel tempo, ma sotto il profilo materiale si limitava a ribadire le due obbligazioni che hanno costituito i pilasti del «regime classico», come definito dalle convenzioni sanitarie internazionali: l’obbligo di notificare l’insorgere di focolai di contagio di peste, colera e febbre gialla (la “triade classica”) e quello di minimizzare l’impatto delle misure quarantenarie sui traffici internazionali.
Quali forme assume oggi la cooperazione internazionale in materia sanitaria e quali sono i suoi punti di forza e i limiti?
Provo a rispondere alla sua domanda nella maniera più sintetica possibile, e restringendo lo sguardo alla governance delle emergenze sanitarie internazionali. Cominciamo con il dire che attualmente due fonti giuridiche vincolanti definiscono, sul piano internazionale, il quadro normativo volto a prevenire e rispondere in modo coordinato a minacce sanitarie potenzialmente transfrontaliere: mi riferisco alla Costituzione dell’OMS e, in particolare, al RSI. Nella versione frutto della revisione del 2005, il Regolamento presenta diversi elementi di novità. Esso delinea un sistema collettivo di sorveglianza, che mette in comunicazione l’Organizzazione con le sue terminazioni periferiche all’interno di ciascuno Stato parte. Da tale strumento derivano essenzialmente obblighi di preparazione e risposta a eventi sanitari avversi – indipendentemente dall’eziologia (all risks approach) –, di cui bisogna tempestivamente notificare l’insorgenza all’Organizzazione. Quest’ultima, poi, in persona del Direttore generale, che si avvale del parere di un comitato tecnico, valuta autonomamente se dichiarare lo stato di emergenza sanitaria di rilevanza internazionale, nel qual caso adotta raccomandazioni temporanee volte a coordinare la risposta alla minaccia comune.
Così tratteggiato nei suoi caratteri essenziali, l’articolato sistema di governance delle emergenze sanitarie internazionali rappresenta oggi uno straordinario strumento di difesa comune. A chi ancora nutrisse dubbi, la recente pandemia si è incaricata di mostrare che rispetto a fenomeni complessi l’unica risposta efficace può essere adeguatamente organizzata solo a livello multilaterale. Possiamo solo immaginare cosa sarebbe successo nell’ultimo biennio, se la politica sanitaria fosse dipesa unicamente dai decisori nazionali, indeboliti dalla crisi della rappresentanza e alla ricerca costante di un consenso, o se a ciniche forme di disinformazione e negazionismo l’OMS non avesse contrapposto la propria autorità scientifica.
Ciò nonostante, non mancano profili di criticità, di cui è possibile fare alcuni esempi. In questa sede possiamo lasciare da parte problematiche che investono l’OMS in quanto tale, come il sistema di finanziamento e la scarsa apertura alla società civile internazionale, per richiamare quelle più strettamente connesse alla governance delle minacce sanitarie. In primo luogo, come si è detto, il meccanismo di allerta culmina nella dichiarazione di emergenza, la quale, tuttavia, è capace di leggere la realtà delle crisi internazionali esclusivamente attraverso una logica binaria – emergenza sì, emergenza no –, che mal si presta alla gradazione dello stato di rischio e alla differenziazione dell’azione di risposta. In secondo luogo, l’efficacia dell’intero sistema si fonda sullo sviluppo di core capacities da parte degli Stati membri del RSI, in particolare per quanto attiene all’organizzazione e alla preparazione dei sistemi sanitari nazionali, i quali, però, presentano ancora notevoli carenze e ampie differenze, che anche i Paesi a economia più avanzata faticano a livellare. Inoltre, i rimedi arbitrali disponibili così come i procedimenti di esecuzione sono piuttosto deboli e, pertanto, non riescono a garantire piena effettività al sistema, che resta ampiamente dipendente dalla buona volontà, e soprattutto dalle capacità, di ciascuno Stato parte.
Inoltre, pur non mancando nel RSI una clausola generale di rinvio ai diritti umani, di cui, pertanto, deve essere garantito il rispetto nell’esecuzione degli obblighi derivanti da tale strumento, non sono ancora del tutto chiari i contorni dell’interazione tra i due sistemi. In tal senso, si è visto come le iniziative di risposta si siano fortemente differenziate rispetto al grado di severità nella compressione di diritti fondamentali.
Da ultimo, non si può non ricordare che, allo stato, il quadro normativo non sancisce veri e propri obblighi di due diligence e prevenzione dei rischi sanitari. Piuttosto, esso è ancorato a un’idea ormai antica, che vede nel sorgere di malattie infettive un evento naturale ciclico e ineluttabile, rispetto al quale ci si può soltanto far trovare preparati, per rispondere nel modo più efficace, mentre la moderna epidemiologia ha oramai da tempo chiarito come si possa agire su quei determinanti sociali e ambientali cui, in genere, è correlata la comparsa di nuove infezioni virali.
Che ruolo ha svolto l’Organizzazione mondiale della sanità durante la pandemia di COVID-19?
Nel corso della pandemia l’OMS è stata impegnata in un’azione su più fronti, che vanno dalla raccolta delle informazioni alla loro analisi secondo principi epidemiologici riconosciuti, dal contrasto all’infodemia al coordinamento dell’azione di risposta al nuovo virus. Il minimo comun denominatore di tali attività è rappresentato dall’autorità epistemica che un’organizzazione tecnica come l’OMS esercita. Non vi è dubbio, infatti, che, in ultima istanza, l’efficacia dell’intero sistema di sicurezza collettiva poggi su di una complessa dinamica che viene a instaurarsi nei rapporti tra gli Stati parte del RSI e in quelli tra essi e la stessa OMS. Occorre infatti considerare che il contesto in cui sorgono eventi sanitari avversi è spesso caratterizzato da una particolare incertezza, dovuta alla mancanza d’informazione circa gli eventi in corso, al disaccordo in merito alla loro interpretazione e, più in generale, alla parzialità delle conoscenze scientifiche disponibili. In un simile scenario, gli Stati sistematicamente tendono a comportamenti scarsamente cooperativi e a guardare con sospetto a ogni forma d’ingerenza nel proprio dominio riservato, considerate le gravi ricadute economiche di cui rischiano di divenire oggetto, qualora eventuali contromisure dovessero impattare sui traffici internazionali di persone e merci. Fondamentale, dunque, si palesa l’esistenza di un organismo terzo e imparziale, autorevole in ragione del proprio ethos eminentemente tecnico, che sia capace di raccogliere l’informazione, interpretarla, condividerla e coordinare l’azione di risposta, in modo che essa sia proporzionata al rischio.
In tal senso, la revisione del RSI nel 2005, particolarmente nella parte in cui rompe il monopolio statale dell’informazione e autorizza l’OMS a considerare fonti provenienti da attori non statali, è stata accolta da parte della dottrina internazionalistica come un momento di svolta. A suo avviso, tale evento avrebbe segnato la transizione da un sistema di relazione vestfaliano classico, in cui, cioè, gli Stati si rapportano su di un piano puramente orizzontale, a uno post-vestfaliano, dove, invece, esiste un attore non statale che agisce con poteri autonomi e inconsueti, potendo, all’occorrenza, decidere in autonomia, senza dover raccogliere il preventivo consenso degli Stati interessati. Tale opinione coglie certamente una parte di verità, ma il dato normativo da solo non è sufficiente a produrre un cambiamento e, in più occasioni nel contesto della pandemia di COVID-19, l’Organizzazione ha dovuto farsi interprete di un complesso equilibrio tra chi le rimproverava cautela e deferenza e chi un eccesso di attivismo.
Quali questioni solleva il tema dell’accesso ai vaccini?
Direi che qui ci addentriamo in un vicolo cieco, quanto meno allo stato attuale. Lo scenario che abbiamo di fronte ci costringe a prendere atto del fatto che, a distanza di più di un anno e mezzo dall’avvio della campagna vaccinale, l’accesso all’immunizzazione da parte della popolazione mondiale registra estreme diseguaglianze nella distribuzione a livello geografico, le quali puntualmente riflettono le diverse capacità degli Stati sul piano reddituale, industriale e organizzativo.
Gli Stati con le economie più avanzate hanno preferito relazionarsi con le aziende farmaceutiche su di un piano bilaterale, attraverso contratti di acquisto preventivo, mentre le sedi multilaterali non sono riuscite nell’intento di correggere gli esiti profondamente iniqui prodotti dal mercato. Tale situazione non soltanto rappresenta una criticità nella governance di questa emergenza, ma evidenzia, più in generale, un elemento di fragilità strutturale nell’architettura della cooperazione internazionale. Sotto il primo aspetto, il fatto che intere popolazioni del Sud del mondo restino fuori dall’immunizzazione, oltre a sollevare evidenti questioni etiche, rischia di minare l’efficacia degli sforzi di controllo dell’infezione fatti sin qui, considerati i rapporti di stretta interdipendenza che, in un mondo globalizzato, legano inesorabilmente le sorti dei vari Paesi. Quanto al secondo profilo, appare chiaro che la cooperazione internazionale non possa più limitarsi a instituire un sistema di sorveglianza, senza preoccuparsi della sostenibilità delle misure di risposta, incluso il ricorso all’immunizzazione.
In questo quadro, le clausole di flessibilità previste dal diritto del commercio internazionale per evitare che i diritti di proprietà intellettuale diventino un ostacolo all’accesso a farmaci essenziali hanno mostrato tutti i propri limiti, non essendo state congegnate per situazioni di generale emergenza. Allo stesso modo, non si è riusciti a raggiungere un consenso sulla proposta di moratoria sui brevetti più volte discussa, e respinta, in seno all’Organizzazione mondiale del commercio. Sorge, allora, con rara crudezza il problema di coordinare regimi normativi frammentati, come il diritto internazionale dei diritti umani, da un lato, e, dall’altro, il diritto del commercio internazionale, il quale tutela i brevetti farmaceutici. In tal senso, ho cercato, nel Capitolo IV del libro, di evidenziare come, sul piano interpretativo, il diritto umano alla salute si proietti sui diritti di proprietà intellettuale e, sul piano materiale, vieti agli Stati condotte che di fatto possano impedire a terzi un pieno godimento del diritto alla salute, inibendo loro l’accesso a risorse necessarie a garantirne la tutela.
Quali prospettive per la governance internazionale delle pandemie?
Nel diritto internazionale possiamo dire che la crisi costituisca un elemento fisiologico, dinamico, che ne scandisce la naturale evoluzione. La pandemia in questo senso non fa eccezione: essa ha fortemente valorizzato il ruolo dell’OMS, aprendo prospettive di riforma inimmaginabili prima del suo inizio.
Per rispondere alle numerose istanze di cambiamento, si è optato, sul piano formale, per la negoziazione di un nuovo trattato sulla prevenzione, preparazione e risposta alle pandemie. Ironia della sorte ha voluto che un’articolata proposta di emendamento del RSI, diretta a rafforzare la funzione guida dell’OMS, sia stata presentata alla 75° Assemblea mondiale della sanità da quegli stessi Stati Uniti che, due anni prima, avevano avviato la procedura per recedere dall’Organizzazione. La bozza sarà oggetto di attenzione da parte dell’Assemblea nel prosieguo dei lavori.
Tornando al trattato sulle pandemie, sul piano materiale, mi limito a richiamare tre aspetti, tenuto conto del fatto che ad oggi non è ancora disponibile una bozza completa ma solo uno schema. In primo luogo, si intende favorire una risposta multisettoriale a problemi sanitari complessi, conforme al principio della one-health, delineando un quadro istituzionale unitario entro cui possano collaborare organizzazioni internazionali attive in materia di ambiente e salute umana, animale e vegetale, anche in ragione della natura zoonotica dei rischi sanitari più ricorrenti. Inoltre, si vuole intervenire sullo sviluppo di core capacities a livello nazionale ben oltre la mera sorveglianza e risposta. Infine, le difficoltà di approvvigionamento di dispositivi di protezione individuale, vaccini e altri prodotti sanitari hanno evidenziato la necessità di garantire trasferimenti tecnologici e di know-how, per lo sviluppo di capacità industriali a livello nazionale o quanto meno regionale.
Donato Greco è assegnista di ricerca in Diritto internazionale presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Napoli Federico II. Presso il medesimo Ateneo ha conseguito il dottorato di ricerca, discutendo una tesi su Il valore del soft law nell’ordinamento internazionale. Negli anni ha perfezionato gli studi all’estero presso le Università di Amsterdam e Friburgo in Brisgovia, e frequentando i corsi dell’Accademia di diritto internazionale dell’Aia. Ha trascorso un periodo di ricerca presso il Lauterpacht Centre for International Law (University of Cambridge). È autore di diverse pubblicazioni in opere collettanee e riviste specialistiche, italiane e straniere. Le tematiche su cui maggiormente si incentrano le sue ricerche riguardano, tra l’altro, le fonti giuridiche e la loro interpretazione, il rapporto tra diritto interno e diritto internazionale, la tutela dei diritti fondamentali, e la cooperazione in materia di sanità pubblica e commercio.