
In che modo il positivismo giuridico è servito alla legittimazione dei regimi giuridici illiberali italo-tedeschi e all’attuazione dei loro obiettivi totalitari?
Il positivismo giuridico antivaloriale di matrice nichilista afferma che il diritto è valido in quanto approvato secondo le norme disciplinanti l’iter di produzione della legislazione. Tramite questa concezione formalista del diritto (si tratta di una forma che prevarica sulla sostanza e sulla natura delle cose), viene riconosciuta all’autorità politica una potestà legislativa discrezionale e pressoché illimitata e illimitabile. In altre parole, il giusformalismo declama che il diritto sia valido in quanto deliberato dagli organi legislativi ad astrarre da ogni valutazione contenutistica. Il giurista, quindi, è tenuto ad applicare la legge senza sindacarne il contenuto. Da detto modo di ragionare si dischiusero le porte alla legislazione razziale, una legislazione che – come osservammo poco fa – pose la discendenza etnica a elemento che consentì di disconoscere i diritti naturali della persona a chi persona, secondo la legge amorale dello Stato-dispotico, non era siccome di sangue non ariano. Chiusa l’esperienza del Partito unico, grazie all’edificazione di un sistema democratico basato su di una Costituzione rigida e fortificato dal garantistico controllo di legalità demandato alla Corte costituzionale, il rischio del diritto antivaloriale nei termini sopra descritti è stato annientato. Sarebbe nondimeno illusorio ipotizzare che le pur essenziali guarentigie costituzionali possano di per sé bastare ad assicurare tanto la perenne primazia della ragione valutante e riflettente, quanto l’indisponibilità assoluta dei diritti universali dell’uomo. È appena il caso di osservare che è bastata una crisi pandemica per mettere in discussione la tenuta di alcuni diritti fondamentali. Serve allora rinnovare alla memoria, specie a quella dei giovani, che il potere politico non è emancipabile dalla sacralità dei diritti esistenziali dell’essere umano, indipendentemente da ogni rilievo di stampo entico, religioso, sessuale, ecc. Solo avendo chiara tale intoccabilità è realisticamente possibile evitare che il male, che s’insidia di soppiatto nel disordine e nell’allarme generato dagli accadimenti inattesi, ridiventi autorità eletta a norma generale e astratta.
Dove trasse, la legislazione nazifascista, razzista e antiebraica, la propria scaturigine ideale?
Sul fronte tedesco, il razzismo e l’antiebraismo trovarono terreno fertile nell’antimodernismo romantico, xenofobo e sedotto dai miti del medioevo cristiano-germanico. I pericoli legati da un lato alla giudaizzazione dell’economia e della cultura, dall’altro dallo spauracchio della congiura ebraica pianificata a livello mondiale – pericoli alimentati ad arte tramite la diffusione dei falsi Protocolli di Sion – facilitarono il radicamento dell’odio verso gli ebrei. L’irrazionale timore che la presa di potere da parte di una minoranza coesa e ben organizzata potesse condurre all’estinzione della stirpe ariana, fomentò l’anzidetta ostilità. Da tali pregiudizi grossolani si ramificò l’idea di reputare il cittadino giudeo quale mero ospite della nazione germanica, un ospite sgradito ai cittadini ariani, ai quali spettava il compito divino di cooperare fattivamente al fine di risolvere una volta per tutte la “questione ebraica”, in nome dell’asserita supremazia biologica e spirituale del sangue teutonico. Per quanto riguarda l’Italia, la deriva razzista ebbe formalmente inizio nel 1937, con l’approvazione della legge contro il c.d. madamato, la quale puniva con la reclusione il cittadino italiano che avesse intrattenuto relazioni d’indole coniugale con i nativi delle colonie africane. Fu per giunta negato lo status di cittadino al meticcio. Grazie a tale disciplina l’Italia era avviata a divenire nelle colonie la capofila di un sistema di segregazione razziale, che ebbe scarso successo per le ampie trasgressioni al medesimo e per la breve durata dell’impero. Non va però sottaciuto che furono gli eredi della Magna Charta a primeggiare nella tratta degli schiavi e uno Stato fondato su una Carta costituzionale democratica a perpetrare il genocidio delle tribù indigene. La legislazione italiana di matrice antiebraica, invece, ha un’origine – come si è detto – politica anziché filosofica o endemica: serviva infatti a dimostrare la lealtà dell’alleato italico verso il Führer dei tedeschi. Fu Salò che fece dell’antiebraismo la propria ragion d’essere. La distruzione della minoranza divenne pertanto una delle missioni dello Stato liberticida protetto dalle mitragliatrici del terzo Reich. In definitiva, come Salò divenne drammaticamente un tassello dell’universo concentrazionario nazista, così la compartecipazione al genocidio degli uomini fedeli a Mussolini fu piena, spietata, convinta e totale.
Roberto Calvo è professore ordinario di Diritto privato nell’Università della Valle d’Aosta. Fa parte del collegio scientifico dell’International School of Legal and Social Sciences dell’Università di Camerino. È stato anche professore nell’Università di Torino. Autore di svariati saggi e monografie, nonché di un Trattato di Diritto civile per l’editore Zanichelli, si è anche occupato di scienza ed etica della legislazione. In quest’ordine d’idee ha tradotto e commentato Domat, Portalis e Zachariae. Rientra in detto filone di ricerca il recente libro Scienza e valori della legislazione civile. Diritti della persona, positivismo giuridico e antiebraismo (Esi, Napoli, 2021).