
Le scene coniugali costituiscono la base del quotidiano sopra cui s’innesta la riflessione dello scrittore, che col suo cannocchiale rovesciato, come quello di Paulo Post, sente le vertigini scrutando le profondità della coscienza degli uomini anziché l’altezza degli astri. Pirandello scoprì l’abisso al di sotto del tetto coniugale, e, come accade in Flaubert, abolì la distanza tra la dimensione privata e quella intima. La serietà tragica attribuita al rito nuziale indubbiamente trae nutrimento dall’esperienza drammatica che ebbe della vita di coppia. Non a caso Nardelli (il biografo-ombra), riprendendo le parole impiegate da Pirandello in una lettera ad Ojetti, definisce «inferno» il clima di casa. Dal dramma personale, mai dimenticato, che affiora anche durante il lavoro creativo e ne esaspera l’acrimonia, scaturisce la concezione del matrimonio quale anticamera della morte. Sainte-Beuve dice che la letteratura è il riflesso nello specchio dell’autore. Ciò è particolarmente vero nel caso dell’umorista, che, come aveva intuito Hegel, si nutre dell’esperienza soggettiva.
C’è un’altra ragione che non poteva sfuggire allo sguardo critico di Pirandello. Una ragione di ordine storico-sociale faceva dello statuto matrimoniale un legame tragico: l’assenza del divorzio in Italia. Per questo l’istituto matrimoniale, sia nei fatti sia nell’immaginario collettivo, si staglia come un vincolo indissolubile. Il matrimonio, dunque, colto nei momenti di maggiore tensione, quando la bolla d’aria sta per scoppiare, funge da lente d’ingrandimento per analizzare la condizione umana, dimidiata tra la volontà d’evasione, sotto la spinta dei flussi vitali, e le sbarre di una prigione che non ammette via d’uscita. Esso, nella propensione pirandelliana alla condensazione dell’esistenza moderna in termini conflittuali, incarna lo scontro più terribile, quello tra individuo e società.
In che modo la visione pirandelliana emerge dalle Novelle per un anno?
In nessuno dei suoi saggi, tranne qualche rapidissimo passaggio, Pirandello affrontò apertamente il tema matrimoniale, né ebbe l’ardimento di scrivere un trattato, come fecero Balzac e Bourget. È pur vero che scrisse un interessante poemetto sul matrimonio nel mondo moderno, intitolato Belfagor, rifacimento del celebre racconto machiavelliano, ma decise, per ragioni mai troppo chiare, di salvare della prima stesura solo dodici quartine. Scottato dall’esperienza coniugale in prima persona, evitando d’intervenire direttamente su una ferita ancora aperta, delega ogni responsabilità ai mariti straziati o alle mogli infelici che popolano i suoi testi. In quest’ottica le Novelle per un anno costituiscono il territorio privilegiato in chiave polifonica. Del matrimonio ciascun personaggio parlerà ad esperienza fatta e in relazione alla sua situazione particolare. Ogni storia, nella sua unicità, sebbene simile ad un’altra, arricchisce di nuove sfumature quella precedente e costituisce un tassello unico nel grande affresco dell’eterogeneità. Pirandello sa che, nella somiglianza infinita dei casi della vita, la risposta agli stimoli esterni cambia da soggetto a soggetto. La medesima circostanza produce, allora, una molteplicità di combinazioni, e lo scrittore intenzionato a cogliere l’intera gamma delle possibilità esistenziali deve ritrarre tutte quelle che rivelano l’interezza di un’anima e di un’esistenza.
Solo la novella può fornire gli idonei strumenti espressivi per questo proposito. Come precisato nell’articolo Novelle e novellieri, «una buona novella» non solo può dare «più squisita e più intensa soddisfazione anche d’un bel romanzo», ma è il genere che «risponde meglio alle necessità della vita nostra così affrettata e premuta da tante cure». Tuttavia il difetto intrinseco di questo genere è dato dalla sua specificità. Ogni novella è un quadro unico, che si esaurisce entro i limiti della tela. Per superare questi vincoli strutturali, Pirandello aveva provveduto all’organizzazione di singole raccolte, che, in numero vario, raccogliessero testi diversi. Ma non era sufficiente. Era necessario imprimere una svolta netta nel segno della contiguità e legare quanto fino ad allora aveva prodotto. Nasce così, assai tardi, in un uomo ultracinquantenne, il progetto delle Novelle per un anno. Qui, come ha osservato Gesualdo Bufalino, Pirandello depositò la chiave d’accesso al suo labirintico spirito. E già Sciascia aveva intuito che «il cammino vero dello scrittore bisogna appunto seguirlo nelle novelle».
A complicare ulteriormente i fili dell’intreccio contribuisce la totale apertura di forme e generi diversi resi intercomunicabili, come tanti recipienti ove fluisce lo stesso liquido. Nei territori senza confini dell’opera pirandelliana, le novelle si pongono in un continuo gioco di riscontri, di autocitazioni, di riprese di motivi e personaggi, come in un articolato sistema di specchi, con i saggi, i romanzi, il teatro. Allora, nelle Novelle per un anno, il lettore dovrà distinguere le costanti, che segnano legami non solo per contiguità ma anche per differenze, dalle costanti interne ad ogni raccolta, in un corpus narrativo che aspira all’organicità pur garantendo autonomia alle singole parti. Ciò non esclude lo sperimentalismo e l’intercambiabilità, ma al di sotto dell’apparente caos si possono individuare sistemi planetari ben definiti. Proprio la famiglia, sancita dal matrimonio, tesse stretti rapporti tra i vari racconti del variopinto percorso novellistico e diviene il filo rosso per attraversare l’intero corpus.
Le Novelle per un anno intendono fornire un quadro realistico ed in movimento dell’esistenza nei tempi moderni. Quest’opera, più di qualsiasi romanzo o pièce teatrale, è la summa dell’umorismo pirandelliano. Il disegno di un corpus novellistico unico può nascere, come la nottola di Minerva, solo al crepuscolo di una vita e di una poetica, quando la visione umoristica del mondo si era già stabilizzata. Ma, come un tortuoso sentiero intrapreso dopo un già lungo tragitto, quando le forze residue non sono sufficienti allo sforzo richiesto, il proposito è destinato a non arrivare al traguardo. L’incompiutezza delle Novelle per un anno, però, è anche simbolica e funge da concreta dimostrazione dell’inesauribilità dell’argomento e dell’infinità dei casi umani.
Quali sono i racconti più rappresentativi di tale visione?
Partirei dal principio, dal racconto d’apertura dell’intero corpus. In Scialle nero il matrimonio condanna per sempre all’infelicità e alla morte. Non è un caso che Pirandello abbia difeso con tenacia, nonostante i diversi suggerimenti provenienti dall’editore, Enrico Bemporad, la posizione incipitaria occupata dalla novella. Il primo tassello delle Novelle per un anno ritrae la mestizia della sposa durante il giorno delle nozze. La cerimonia assume l’aspetto di un funerale. Infatti nella prima redazione della novella l’abito di Eleonora, che ne risalta il pallore del volto, è scuro come il mantello di Scaramuccia. La tristezza sopravanza e cancella completamente ogni traccia di festività. L’antinomia finale tra i volti gaudenti degli invitati e l’abbattimento della sposa intensifica la potenza drammatica. La rappresentazione ha un andamento incalzante: l’amarezza, l’infelicità aumentano, fino alla fuga alla vista del letto nuziale. La narrazione procede attraverso un evidente carattere mimetico e l’aggiunta di particolari minuti, che consentono il progressivo svelamento di sensazioni nuove. Lo scrittore si ispirò a un evento di cronaca, uno dei tanti che ascoltava dal suo amico, il cavaliere De Gubernatis, quando faceva ritorno alla città natale. Da lui verosimilmente apprese e tradusse in racconto il caso particolare di un avvocato agrigentino, il signor Gallo, e della sua vicenda matrimoniale; azione che costò quasi un duello all’autore. Perché porre come tassello iniziale del complesso mosaico delle Novelle per un anno una storia vera? Perché subito intrattenersi sul carattere cronistico della scrittura? Come in Verga, l’arte nasce dalla vita. Si tratta della facoltà mimetica propria dei meridionali di cui parlò Corrado Alvaro. Tutta la forza espressiva della scrittura pirandelliana consiste nell’analisi minuta di storie vere, di ciò che accade o che potrebbe toccare in sorte a qualsiasi uomo in un momento fuggevole. Come un esperto tesoriere che non dissipa neanche un piccolo frammento della sua ricchezza, Pirandello è capace di mettere a frutto tutto ciò di cui viene a conoscenza. I suoi personaggi sono ritratti mentre si dibattono, per utilizzare un’espressione proferita da Anna Veronica in Esclusa 1901, tra le «spine della vita». Porre come primo tassello di questo grande mosaico un naufragio matrimoniale significa fare della vita coniugale l’osservatorio privilegiato per comprendere le storie vere e le verità delle storie.
Nella prima novella compare un termine, «catena», che poi ricorre in altri racconti della prima raccolta, come un motivo sotterraneo intento ad unire i vari testi. L’immagine della «catena» indica lo stato di prostrazione dell’individuo dentro il matrimonio. L’unico momento di tregua nell’inferno coniugale è offerto dalla natura, quando, all’ombra di un ulivo centenario, Eleonora «beveva con gli occhi la mesta dolcezza della sera imminente». Il verbo «bere» indica la piena affermazione dei flussi vitali ed è impiegato, in una estrema condizione di isolamento, nella novella «Leonora, addio!», nella raccolta Il viaggio. Quest’ultima, dal titolo antifrastico, contiene storie di clausura. Le carcerate sono sempre le donne, costrette a scontare infelici scelte matrimoniali. Al punto di partenza del racconto, in Il viaggio o in «Leonora, addio!», la casa è già la loro prigione, ma altre volte è la fuga dal tetto domestico a condurre la reclusa nella sua cella di tortura, come in Il lume dell’altra casa. L’immagine della casa-prigione è l’esteriorizzazione e la materializzazione del matrimonio quale istituzione che sopprime ogni istinto. Il matrimonio è una carcerazione, sembra dire lo scrittore, e per chiarire la sua idea narra la storia di una clausura coatta. Nella novella «Leonora, addio!» il topos del personaggio sequestrato è coniugato nella forma estrema. La casa nuziale è convertita in carcere, la stanza in una cella di massima sicurezza. Il marito, Rico Verri, è l’unico ad avere libero accesso. Il secondino entra più volte al giorno non per controllare lo stato di salute del galeotto ma per assicurarsi che ogni lucchetto sia al suo posto, senza segni di forzatura. A Mommina e alle due figlie è lasciata solo una piccola finestra da cui «bere un po’ d’aria» e osservare il mondo. Lo sguardo delle tre donne non è lo stesso: le due bambine osservano un orizzonte totalmente ignoto e misterioso, che si configura nella loro fervida immaginazione come un luogo incantato di felicità e bellezza; Mommina lo scruta alla luce della sua condizione d’impotenza. Nella visione notturna del medesimo scenario anche gli oggetti dello sguardo sono mutati. La donna è nella stessa posizione, eppure il quadro è radicalmente diverso. Alla luce solare si è sostituito il lontano luccichio delle stelle e il bagliore dei lampioni del paese, che s’intravedono tra le tegole. La notte traccia un più netto divario perché le figlie sono scomparse dalla scena. Mommina è sola, al centro del dipinto. Ha deposto la maschera di madre, che quasi la obbligava a sintonizzare la propria linea visiva con quella delle figlie. Avverte il mare e la campagna, luoghi incantati nello sguardo ingenuo delle due fanciulle, già oltre le colonne d’Ercole. L’ombra amena degli ulivi saraceni o il rumore placido delle onde che s’infrangono sulle rocce non sono più per lei. Sa che da quel carcere non ha scampo e non ne uscirà viva. Si interessa solo a ciò che è prossimo alla sua vita spezzata. Sono percezioni di morte e di sconfitta: il suono dei passi di qualche altro carceriere, la voce femminile di qualche altra vittima, l’abbaiare di un cane che, come per il giovane ’Ntoni, non riconosce più il suo padrone. I rintocchi della campana, segnale della vita associata, confermano la vanità del «tutto» e segnano il punto apicale dell’«angoscia».
L’estrema dimostrazione della possibilità di rintracciare percorsi armonici all’interno di ogni raccolta si riscontra nella totale indefinitezza che invade il volume Una giornata, apparso postumo nel 1937. La novella iniziale e quella conclusiva chiudono in una sorta di morsa onirica l’intera raccolta. L’ultima fatica novellistica si pone all’alba di una nuova stagione narrativa. Secondo Macchia, «alla fine dei suoi giorni», Pirandello «si ritrovava scrittore nuovo. E i nuovi prodotti del narratore non erano affidati al romanzo, da lui da tempo abbandonato, ma al racconto». La svolta trova conferma nella nuova immagine del velo nuziale, nella ripresa di vecchi topoi rinnovati e ridisegnati con sfumature nuove, come in La signora Frola e il signor Ponza, suo genero, nel sorriso benevolo di approvazione verso terre lontane, come in La tartaruga, e, infine, nell’indefinitezza onirica di Effetto d’un sogno interrotto e Una giornata, ove fidanzamento e matrimonio sfumano nel «mistero dei sogni». Nell’estrema fase novellistica realtà e sogno sono sovrapposti, incollati e inscindibili, come i libri sacri e quelli licenziosi della biblioteca di Miragno. Le novelle, dunque, grande stanza di compensazione per gli affanni e i dolori, costituiscono il punto di arrivo nella ricerca di una possibile via di fuga da quello che Sciascia definisce «l’occhio del mondo»; quell’occhio onnivoro, senza palpebre, che tutto osserva e tutto ribalta e scompone, che si è nutrito della vita dell’autore e dei suoi personaggi.
Marcello Sabbatino è assegnista di ricerca all’Università di Firenze. Per Mondadori ha curato l’edizione critica di Pirandello, «L’esclusa» e le edizioni delle raccolte «L’uomo solo» (2021) e «Il vecchio Dio» (2022).