
Ecco perché, fatta l’Italia, bisognava, per così dire, “fare l’italiano” e trovare una lingua comune, a partire dalla semplice necessità di contrastare tutte le difficoltà di comunicazione dovute alla presenza dei numerosissimi dialetti locali, che limitavano gli scambi tra zone anche vicine dell’Italia. Ed ecco perché il ministro Broglio nel 1868 incaricò l’ormai anziano Alessandro Manzoni di “ricercare e proporre tutti i provvedimenti e i modi, coi quali si possa aiutare e rendere più universale in tutti gli ordini del popolo la notizia della buona lingua e della buona pronunzia”: buona “pronunzia” d’una nuova lingua parlata, dunque, finalmente comune, che Manzoni finì per identificare nel fiorentino (e non semplicemente nel toscano), parlato dai ceti colti.
In che modo i processi socio–culturali del XX secolo hanno segnato il passaggio dalla dicotomia italiano–dialetti a quella italiano neutro–italiani regionali?
Dopo la difficile e travagliata operazione perseguita da Manzoni su incarico ministeriale di far nascere finalmente l’italiano parlato (l’italiano scritto, come già detto, c’era da secoli), molto restava, tuttavia, ancora da fare. Intanto perché il tentato intervento di politica linguistica rimase fortemente incompleto; il nuovo previsto Vocabolario della lingua parlata ebbe infatti scarsa diffusione, i maestri toscani incaricati di diffondere il “verbo” fiorentino erano pochi e non sempre preparati (venivano inviate in giro per l’Italia anche delle maestre, a volte purtroppo soggette a molestie e quindi persino costrette al suicidio, come nel caso emblematico della maestra Italia Donati) e inoltre, come criticava Graziadio Isaia Ascoli, una lingua non si poteva imporre dall’alto per decisione governativa.
Ecco perché furono poi i fenomeni sociali, culturali e persino economici del ‘900 a contribuire maggiormente al processo d’“italianizzazione” della lingua parlata e all’arretramento del dialetto. La circolazione sempre più libera delle persone e delle merci, resa possibile anche dai miglioramenti delle infrastrutture, persino il servizio militare che “spostava” spesso molto lontano i soldati da casa e, naturalmente, la nascita e la diffusione dei nuovi mass-media (Radio e poi Televisione) servirono, infatti, a consolidare questa nuova lingua parlata italiana, a scapito dei dialetti locali che ostacolavano scambi e comunicazioni. A questo punto, però, avviene un ulteriore passaggio nel processo di formazione della lingua sovra-dialettale, poiché si viene a definire una nuova polarità tra una lingua ormai italiana sempre più comune, ma regionale nei suoni e nella fonetica (e quindi nella pronuncia), e una lingua standardizzata e neutralizzata anche nella pronuncia, di cui si sente sempre più l’esigenza, la quale diventa la lingua dei “professionisti della voce” dei nuovi mass-media (attori, presentatori, doppiatori, speaker). Questo italiano parlato “formale” viene pertanto a definirsi anche come modello fonetico, contrapponendosi ai cosiddetti “italiani regionali”: nuove forme d’italiano parlato sovra-dialettale, nazionale negli aspetti sintattico-grammaticali e in parte lessicale, ma dialettale nei suoni.
Quale importanza riveste il modello manzoniano nella storia della questione linguistica italiana?
Un’importanza enorme, come già detto, ma purtroppo poco evidenziata. Noi conosciamo, infatti, e a volte persino detestiamo, quel Manzoni “scolastico” dei Promessi Sposi su cui abbiamo dovuto spendere il nostro faticoso studio, quando magari non eravamo ancora in grado d’apprezzarlo, il quale, con la sua “risciacquatura di panni in Arno” ha contribuito fortemente a modificare in senso fiorentino la lingua scritta del romanzo. Esiste tuttavia un Manzoni, noto in parte agli studiosi ma pressoché sconosciuto a scuola, che ha scritto per 50 anni carte su carte sulla questione della lingua, che ha accettato di presiedere ormai anziano una commissione per la ricerca d’una lingua parlata e che, pur non cogliendo, magari, in modo immediato il risultato del suo lavoro, ha dato un enorme contributo alla diffusione dell’italiano come lingua di comunicazione nazionale. Anche se noi identifichiamo, infatti, il Manzoni con il romanziere, lui stesso ci rivela che la poesia, intesa come ispirazione artistica, in lui era morta ben presto tanto che, a guardar bene, dalle prime edizioni di Fermo e Lucia e dei Promessi Sposi, in fondo non aveva mai fatto altro che lavorare linguisticamente allo stesso romanzo. Intanto scriveva, appunto, migliaia di pagine sulla questione linguistica, lasciandoci così in eredità una gran mole di scritti, editi e inediti, ma soprattutto si metteva in gioco accettando quel delicato incarico ministeriale di “politica linguistica” alla veneranda età di 83 anni, proprio lui così schivo dalle occasioni pubbliche (aveva infatti scansato la nomina al Parlamento subalpino di Arona), sofferente di problemi nervosi, e (ironia della sorte), persino balbuziente!
La Relazione che seguì al suo incarico scatenò un vero polverone e tutta una serie di reazioni tra manzoniani e anti-manzoniani (quest’ultimi capeggiati da Ascoli), che avrebbe acceso ancora una volta la questione linguistica per decenni; in realtà si trattava di far rinascere una nuova versione della sempiterna e “proteiforme” questione della lingua, come dice Marazzini, in grado, come la mitica fenice, d’incenerirsi e rinascere, adattandosi sempre al momento storico. Questione della lingua, il cui risveglio continuo appariva a Carducci noioso e stucchevole, ma che nasceva da lontano, dimostrando così di risorgere e di non aver intenzione di giungere mai a compimento, anche a causa della particolare “policentricità” della geografia culturale del nostro paese.
Quale dibattito ha animato l’era fascista in merito alla “normalizzazione” linguistica?
La questione linguistica, durante il fascismo, è importantissima e se si cerca di studiarla senza pregiudizi (naturalmente dettati dalla sostanza della terribile dittatura che fu il fascismo), se ne colgono aspetti assai rilevanti per la formazione della nostra lingua nazionale. Mussolini, come si sa, perseguì una battaglia veemente contro forestierismi e dialettismi, portando all’esasperazione la ricerca linguistica di tradurre parole straniere ormai entrate nella nostra lingua. Un esempio divertente tra i tanti è il cavalcante dannunziano che pretendeva di sostituire lo straniero bidet. La lista sarebbe infinita e molti sono i casi improponibili, giustamente abbandonati (uno tra tutti baro al posto di bar); tuttavia molte parole che usiamo oggi sono proprio frutto di questa “italianizzazione” e “normalizzazione” della lingua attuata dal fascismo: cito solo il diffusissimo tramezzino, assieme alle invenzioni di Bruno Migliorini di regista e autista. Tolti, dunque, gli eccessi censòri e retorici e tutta l’ideologia xenofoba che c’era dietro, molto interessante è inoltre ricordare quanto il “Radio corriere” (che era all’epoca una rivista culturale), sollecitasse pubblico e studiosi a inventare e proporre nuove parole, dando sicuramente un potente impulso alla diffusione dell’italiano. E non mi sento di tralasciare (checché ne pensino molti cinefili) l’importanza del doppiaggio, istituito dal fascismo per regio decreto, che inaugurò quello che a tutt’oggi, a mio parere, rappresenta una delle poche “sacche” di resistenza d’un buon italiano pronunciato.
Dato, però, il grande ruolo che nel frattempo aveva cominciato a svolgere la Radio (denominata prima Uri e poi Eiar e solo in seguito Rai), sia come propaganda ma anche come canale di diffusione della cultura e dell’italiano, il fascismo si pose anche la questione della corretta pronuncia di tale lingua nazionale. Qui si verificò un importante cambiamento, in quanto essa non fu più identificata nella sola pronuncia fiorentina, bensì nel cosiddetto “asse Roma-Firenze”, il quale evocava, linguisticamente, truci aspetti politici e soprattutto bellici. Roma non era, quindi, solo il mito che si traduceva in capitale dell’impero e della cultura, ma diventava anche una nuova fonte d’ispirazione per la corretta pronuncia italiana. I linguisti del regime, soprattutto Bertoni e Ugolini, produssero, pertanto, nuovi dizionari di “pronunzia” e indicarono nuove norme che, pur non essendo troppo rilevanti dal punto di vista quantitativo, introducevano varianti romane di pronuncia dell’italiano: un esempio tra tutti la sostituzione delle pronunce fiorentine di lèttera e colónna con léttera e colònna.
In che modo l’avvento del mezzo televisivo ha riacceso la questione della lingua?
Dopo la Radio, nata durante il fascismo, la nascita e la progressiva diffusione della Televisione sono state, sicuramente, il più efficace mezzo di formazione e divulgazione dell’italiano. Il ruolo della TV è stato, però, anche didattico e non c’è chi non ricordi il maestro Manzi con il suo “Non è mai troppo tardi”, che permetteva a tante persone ancora analfabete d’imparare a leggere a scrivere, conseguendo persino la licenza elementare.
I nuovi mass-media, e la Televisione in particolare, non si limitano, tuttavia, a diffondere l’“italiano”, poiché si tratta anche di trasmettere un “buon” italiano parlato, corretto grammaticalmente ma anche foneticamente. La questione della buona pronuncia televisiva, infatti, diventa prioritaria tra gli anni ’50 e ’60 del XX secolo e una nuova sensibilità al problema si manifesta persino nei programmi scolastici, specie delle scuole elementari. Si lavora perciò alacremente a definire questo “buon italiano”, questo italiano “standard” o “neutro” parlato, da divulgare soprattutto in televisione, ma anche al cinema, alla radio, a teatro: in tutte le occasioni, cioè, in cui la lingua s’esprimesse in un contesto artistico formalizzato e pubblico. Non si trattava più, infatti, solo di superare il livello localistico della miriade di dialetti per parlare una lingua nazionale: questa lingua unitaria, ormai sempre più diffusa, doveva ora trovare un modello unico anche nei suoni, rispettando certe regole precise di pronuncia nelle vocali e nelle consonanti (oltre, naturalmente, ad altri aspetti fondamentali e formali dell’eloquio come toni, pause, volumi…). La nuova questione diventa, pertanto, quale italiano far pronunciare ai “professionisti della voce” che parlavano specie in TV.
Dopo la “romanizzazione” fascista ritornò, allora, in auge il modello fiorentino e le dirigenze Rai obbligarono i presentatori a severi corsi di dizione e fonetica atti a formare “fini dicitori”, tanto da venir multati se non si rispettava la buona dizione. Celebre e divertente il famoso “dentone” di Alberto Sordi che risultava molto sgradevole con la sua dentatura, ma che aveva una pronuncia perfetta e riusciva a ripetere all’infinito gli scioglilingua. Fino all’avvento della TV commerciale, verso la metà degli anni ’70, la Rai impose dunque il suo modello d’italiano neutro, molto paludato e, a mio avviso, appesantito dalla pronuncia esclusivamente sorda delle “s” intervocaliche, come nel modello toscano, ma soprattutto centro-meridionale, di pronuncia. Va pertanto sottolineato come, fino a quella data, giornalista e speaker fossero due figure diverse con due competenze diverse, che garantivano, almeno, l’intelligibilità delle notizie; quello che successe in seguito fu l’inizio d’un progressivo smarrimento d’un modello linguistico specie nella pronuncia, preludio della caotica e cialtrona situazione contemporanea.
Come si articola il dibattito sulla lingua nazionale nel terzo millennio?
Nel terzo millennio una lingua nazionale anche parlata s’è ormai diffusa, a scapito dei dialetti locali, di cui ha provocato anche una forte italianizzazione; la loro diffusione, tendenzialmente “annacquata” dall’espansione dell’italiano s’è pertanto arroccata in alcune sacche di resistenza poco scolarizzate, specie al Sud, o in particolar modo nella zona circoscritta del Veneto, dove ha finito per intercettare desideri autonomistici di tipo ideologico. Da notare però che, mentre nell’Italia meridionale la dialettofonia dipende direttamente dal grado di cultura, eccezion fatta, ad esempio, per il napoletano, dove il dialetto ha una forte realizzazione artistica, specie nel teatro (e oggi potremmo dire anche per il siciliano, “complice” Camilleri), nel Veneto si tende a parlare dialetto a tutti i livelli, proprio come segno d’appartenenza a una comunità socio-politica.
La regressione dei dialetti ha quindi diffuso sempre più quegl’italiani regionali, fortemente connotati geograficamente soprattutto a livello fonetico, cui si contrappone quella lingua unitaria neutra, usata da attori e doppiatori, sinonimo per Ennio Flaiano d’una lingua sostanzialmente inesistente.
Ora questo dibattito sull’utilità o sulla stessa esistenza di questa fantomatica lingua, che in realtà non si parla da nessuna parte (dato che anche i toscani non sono esenti da aspetti vernacolari, specie nella pronuncia aspirata d’alcuni suoni consonantici), è destinato a continuare all’infinito senza soluzione, rischiando però, molto spesso, di far pendere il piatto della bilancia dalla parte di chi condanna a priori e senz’appello, anche tra linguisti e studiosi della lingua, la possibilità della standardizzazione dell’italiano parlato.
Quale nuovo modello di lingua parlata è, a Suo avviso, auspicabile?
Naturalmente io rientro, invece, tra coloro che sostengono le ragioni di questo italiano parlato neutro: ragioni che ho rintracciato nel mio lungo studio, e di cui sostengo la legittimità per la stessa ragione per cui non esiste ambito della vita umana, o della stessa dimensione artistica, in cui non ci siano regole e norme, da poter legittimamente trasgredire, dopo averle, tuttavia, conosciute.
Un doppiatore che parla un ottimo italiano, così come un attore (teatrale, perché al cinema, se italiano, è anzi opportuno mantenere la dimensione locale, purché “filologica”: se un film è ambientato a Bologna, ben venga un’inflessione emiliana e sarebbe ora che s’evitassero attori che non riescono mai a staccarsi dal loro “romanesco”…!), un presentatore o ancora un giornalista sono apprezzati da tutti, se in possesso d’una buona pronuncia italiana standard. Ne va, infatti, anzitutto, della comprensibilità di ciò che essi dicono, e quindi si tratta, prioritariamente, d’una questione di comunicazione; immaginiamoci d’andare al cinema e di sentire un film straniero doppiato con un italiano regionale, che porta magari a pronunciare le parole in modo molto “localizzato”: cosa capiremmo, alla fine?
Certo che tale italiano non deve diventare, però, una gabbia o un fossile, come nella TV degli anni ’60, una lingua paludata, retorica e inespressiva, irrigidita in regole ferree e nelle forche caudine del “si dice”. È questo il motivo per cui, nel mio percorso di formazione, mi sono imbattuta, e di conseguenza appassionata, al modello di fonetica italiana di Luciano Canepari, il quale ha saputo svecchiare la “dizione fiorentina”, che ha sostituito con la cosiddetta dizione “moderna”, introducendo alcune varianti di pronuncia, da poter scegliere a seconda anche dei contesti e dei registri linguistici. Canepari applica infatti le regole, ma a una lingua viva, e quindi in movimento, ed è per questo che io mi muovo, nel mio libro, tra “norma” e “uso”.
Tra i due eccessi di chi spregia la corretta pronuncia italiana (ritenuta, appunto, inutile e in fondo inesistente), e di chi sciacqua ancora i vecchi panni in Arno, esibendosi in pronunce per me ormai antiche, io ho scelto, pertanto, la famosa “terza via”, applicando dunque regole, ma anche eccezioni, ad una lingua d’uso che si modifica di continuo. Si tratta, a mio parere, di scegliere anche quale lingua usare, a seconda di contesti e situazioni, e conoscere anche questa lingua neutra è uno strumento in più per avere più opportunità. La parola dialettale o l’intonazione regionale vanno benissimo nel registro informale, portando con sé, oltretutto, una forte carica espressiva. Esistono, tuttavia, situazioni di comunicazione più formalizzata (oltre al già citato ambito artistico), e tra queste pongo anche l’insegnamento, in cui sarebbe più che mai opportuno avvicinarsi a questa lingua, standard ma moderna.
Anche attori e professionisti della voce, quelli dunque che la dizione la studiano, dovrebbero poi approfondire questo tipo di pronuncia, abbandonando le vecchie regole del fiorentino e del dizionario Dop, ormai superato, tra cui, ad esempio, cito le pronunce sorde di s e z.
La voglia di migliorare la propria pronuncia e la convinzione che un qualche italiano neutro pronunciato esista, lo posso infine testimoniare “sul campo”, con l’esperienza di ormai 30 anni di corsi di dizione, di cui non s’avverte mai il calo della domanda.
Barbara Giovannelli, laureata in filosofia e lettere e dottore di ricerca in scienze del linguaggio, è diplomata alla Scuola del Teatro Verdi di Padova e in doppiaggio all’Accademia del cinema di Bologna. Docente di storia e filosofia al liceo classico, tiene da anni corsi di dizione presso associazioni, scuole e università, aziende. È formatrice di operatori della voce e speaker televisivi e radiofonici anche nazionali. È co-autrice di Arie antiche (Guerra) e di La buona pronuncia italiana del terzo millennio (Aracne). Ha collaborato con GOODmood per testi di audio-libri ed e-book su Pascoli e Svevo.