“L’Italia sullo schermo. Come il cinema ha raccontato l’identità nazionale” di Gian Piero Brunetta

Prof. Gian Piero Brunetta, Lei è autore del libro L’Italia sullo schermo. Come il cinema ha raccontato l’identità nazionale edito da Carocci: quale ruolo ha avuto il cinema italiano per la memoria della storia nazionale?
L'Italia sullo schermo. Come il cinema ha raccontato l'identità nazionale, Gian Piero BrunettaTra tutte le cinematografie il cinema italiano, fin dal suo atto di nascita del 1905 e lungo tutta la sua evoluzione nel corso del Novecento, accoglie la Grande Storia, e ne fa un elemento costitutivo e identitario, assieme alla piccola storia quotidiana e a tutti quei i cromosomi letterari, teatrali, melodrammatici, che ne hanno subito composto il patrimonio genetico. Delle tante dimensioni che ne hanno definito la storia, in particolare quella legata alla rappresentazione e ricostruzione della storia più recente del paese, dalla creazione di uno stato unitario in poi, è stata in buona parte anche legata a intenzioni e funzioni d’un suo uso pubblico ed ha, sempre e comunque, respirato il clima del tempo in cui è stata realizzata.

Perché il Risorgimento ha costituito un luogo di memoria privilegiato del cinema italiano?
In effetti il Risorgimento, inteso come arco di tempo che va dai primi moti carbonari del 1820 alla Prima guerra mondiale, è stato proprio un luogo di memoria privilegiato attorno a cui il primo cinema italiano ha cercato di costruire la mitologia degli eventi e figure di fondazione dello stato nato da pochi decenni. Nel cinema muto si è costituito come una sorta di potente e capace serbatoio tematico a cui i padri fondatori del cinema italiano si sono rivolti facendosi portatori di ideali diversi, quasi sempre improntati a un’idea comune di sacrificio nel nome della Patria e per la realizzazione d’un sogno unitario individuale e collettivo. Il periodo si è prestato ad usi plurimi, interpretativi e spettacolari, dimostrando nel tempo una capacità di adattamento ai vari momenti della storia nazionale, dal periodo giolittiano, alla prima guerra mondiale, dal fascismo alla storia della Repubblica, e un’apertura a fisarmonica del senso. Nel dopoguerra l’interpretazione di Antonio Gramsci del Risorgimento è stata per decenni una sorta di stella polare per registi anche molto diversi dal punto di vista ideologico e drammaturgico.

Come è stata raccontata al cinema la Prima guerra mondiale?
Se «il secolo breve», secondo Hobsbawm, inizia nel 1914, il cinema diventa maggiorenne proprio con la prima guerra mondiale e alla fine del conflitto ha conquistato un ruolo di forza sociale in tutto il mondo. La produzione cinematografica degli anni di guerra è diventata un bene di prima necessità, un’arma e un valore aggiunto a sostegno del morale di milioni di spettatori, militari e civili, sparsi nei cinque continenti e un sistema d’allocuzione e invito diretto al reclutamento nei confronti di possibili volontari sparsi nelle platee. Da subito però gli operatori che partono volontari per il fronte sono sottoposti a tali vincoli e limitazioni che la guerra guerreggiata non è di fatto riproducibile né rappresentabile. Per questi vincoli l’operatore sarà costretto a un certo periodo d’attesa prima di essere ammesso sui luoghi delle operazioni militari ed eviterà comunque il più possibile – e per tutta la durata del conflitto – di offrirsi come testimone e mediatore rispetto alla possibilità di avere un rapporto diretto con l’orrore, la follia, le stragi. i massacri di milioni di persone. Il sangue scorrerà poco nei film patriottici e nei documentari di guerra e pochi morti reali si vedranno e, in ogni caso, in misura assai inferiore che nei melodrammi e nelle grandi storie d’amore e morte. E i registi dei film di finzione faranno fatica a capire e rappresentare le caratteristiche della guerra e le sue differenze rispetto alle guerre del Risorgimento.

Che rapporto è esistito tra cinema e totalitarismi?
Del cinema come arma e strumento di propaganda per influenzare le masse, sulla scorta della leggendaria indicazione di Lenin, si comincia a parlare in Unione Sovietica dalla metà degli anni venti. Dall’avvento del sonoro il cinema gioca un ruolo fondamentale sia nel processo di spettacolarizzazione della politica dl Mussolini e degli altri capi di stato e dittatori europei e nel conferire, in progressione, alla loro immagine, moltiplicata attraverso i canali più svariati, un potere e una fascinazione del tutto inediti e renderne ogni giorno alla portata di tutti la vita pubblica e privata. Il cinema è un’arte/arma e come tale verrà vista e utilizzata, in modo più o meno forte e consapevole. Mussolini definisce il cinema come «l’arma più forte» e, come lui, tutti i dittatori cercheranno di usarlo come mezzo per dimostrare la bontà delle scelte e intenzioni e per colpire il nemico in modo diretto o subliminale.

Come si è articolata la ricerca dell’identità nel cinema italiano del dopoguerra?
Si parte dalle macerie, come unità di misura del paese che vuole ricominciare a vivere. E Roma città aperta di Rossellini è il film che cerca di fissare alcuni caratteri dell’italiano nel momento in cui può liberamente effettuare delle scelte, morali, ideologiche, politiche. Il cinema del dopoguerra visto nel suo insieme si offre ancora oggi come una specie di grande diario collettivo che racconta tutte le trasformazioni superficiali e profonde degli italiani in un arco di tempo che passa attraverso gli anni della ricostruzione, della guerra fredda, del miracolo economico, della contestazione e del terrorismo, fino alla fine della prima repubblica e alla nascita dell’ Unione Europea. Grazie all’intensificarsi progressivo di piccoli e grandi spostamenti periodici l’Europa si avvicina per tutti i protagonisti del cinema italiano del dopoguerra, entra nella coscienza e nell’immaginario collettivo, conquistandosi uno spazio alternativo a quello occupato dall’America. L’Europa come orizzonte culturale e mondo virtuale nel quale possa rinascere o reincarnarsi lo spirito illuministico è uno scenario a cui si pensa fin dalla ricostruzione.

Quali sono le opere e i cantori più significativi della storia d’Italia del Novecento?
In effetti è un elenco molto lungo che si potrebbe far partire dal cinema sonoro e che unisce registi di varie generazioni e diverse caratteristiche dagli anni trenta fino ad oggi. Il patriarca e primo cantore della storia nazionale è senz’altro Alessandro Blasetti, che crede che il fascismo sia l’erede naturale del Risorgimento e tenta di fissarne le radici epiche. Poi Rossellini, De Sica, Visconti, negli anni del dopoguerra, sono riusciti a raccontare e interpretare attraverso piccole storie, la storia collettiva degli Italiani che dalle macerie iniziavano a costruire il futuro. Ma è dai primi anni sessanta grazie a Fellini, e alla commedia di Monicelli, e con la nascita di una “nouvelle vague“ registica da cui emergono i nomi di Pasolini, Olmi, Bertolucci, Rosi, Taviani, Ferreri, Zurlini, De Seta, Scola, Bellocchio, Wermüller, Cavani, Taviani, Loy, Montaldo, Vancini, Petri, Amelio… che lo sguardo inizia a muoversi e oscillare, con andamento pendolare, tra l’attualità e molti aspetti del passato prossimo, rimossi, per varie ragioni, nel decennio precedente. Proprio in questi anni, grazie alle nuove condizioni sociali, storiche e politiche, il cinema, accanto a quello d’osservatore e costruttore dell’epopea della piccola storia della vita quotidiana, torna ad assumere il ruolo di cantore della Grande Storia. In effetti lo sguardo nei primi anni sessanta si allarga in modo panoramico fino ad abbracciare tutta la storia dell’Italia unita, ponendosi spesso dal punto di vista di personaggi considerati vittime, di elementi del paesaggio umano, invisibili alla storia, mai finora promossi a protagonisti. Qualcosa di già visto e sperimentato col neorealismo, ma qui la materia è lievitata e continua ad influenzare il cinema del nuovo millennio.

Nell’ultimo capitolo ho cercato di mettere in rilievo solo alcune figure che hanno affrontato la storia italiana contemporanea con ottiche diverse e originali, in un paesaggio peraltro molto ricco e frastagliato, che continuamente regala nuove opere importanti, capaci di raggiungere regolarmente il pubblico internazionale.

Gian Piero Brunetta, professore emerito di Storia e critica del cinema dell’Università di Padova. Al centro dei suoi studi ha posto, fin dall’inizio, la storia del cinema italiano: la prima edizione della sua Storia del cinema italiano (Editori Riuniti) è del 1979-82. L’ultima, in cinque volumi, è del 2007-2008 (Laterza). Sul cinema italiano ha scritto: Cent’anni di cinema italiano, 1991 e Guida alla storia del cinema italiano, 2003, tradotto in varie lingue. Dagli anni Ottanta si è occupato di storia dello spettatore, del pre-cinema e della visione popolare (Buio in sala 1988 e Il viaggio dell’Icononauta (1997), Il ruggito del leone (2013) tutti editi da Marsilio. Per Einaudi ha diretto una Storia del cinema mondiale (1999-2002) ed un Dizionario dei registi del cinema mondiale (2005-2007). Nel 2017 ha vinto il Premio Feltrinelli dei Lincei per la Storia del cinema.

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