
In quale contesto storico e politico maturò la decisione di prendere parte alla missione?
Come dicevo, fu un percorso molto lungo in cui si verificò una crescente maturazione di una classe politica che, seppure molto criticata in patria, in politica estera fu in grado di agire spesso per il bene dell’Italia. Quando parlo di classe politica mi riferisco anche all’opposizione comunista che, fino all’emergere delle notevoli difficoltà sul campo, non contrastò la missione. In realtà tutti i partiti, per motivazioni differenti, furono concordi nell’andare ad aiutare un paese come il Libano, martoriato dalla guerra civile e al centro delle complesse vicende mediorientali. Il contesto storico-politico fu quello della presidenza Pertini e, soprattutto, quello della formazione del governo Spadolini I (28 giugno 1981) – per la prima volta nella storia della Repubblica guidato da un primo ministro non democristiano, il repubblicano Giovanni Spadolini – e del Pentapartito: da questo momento in poi l’approccio italiano verso la regione mediterranea cominciò davvero ad assumere forme nuove. Ma segnali in questo senso vi furono anche in precedenza, per esempio con l’assunzione dell’Italia della Presidenza del Consiglio della Comunità europea a inizio 1980: ci fu infatti l’importante Consiglio europeo di Venezia (12-13 giugno 1980), considerato una pietra miliare della posizione comunitaria nei confronti del conflitto arabo-israeliano. Roma, dunque, svolse un ruolo importante e da protagonista nella questione. A ciò va aggiunto che nel frattempo si era provveduto a modernizzare la forza militare, dotando la marina di sistemi di armamenti sufficientemente equipaggiati sia per compiti offensivi che per quelli difensivi: l’Italia si era quindi attrezzata per poter davvero svolgere un ruolo maggiore nel Mediterraneo. Diversi i politici che parteciparono attivamente a questa evoluzione, solo per citarne alcuni: lo stesso Spadolini, Andreotti, Colombo, Cossiga, Fanfani, Craxi. Ma l’aspetto che vorrei sottolineare maggiormente fra quelli che hanno spinto di più verso l’intervento in Libano è quello umanitario: tutto il paese avvertiva il desiderio di aiutare i fratelli libanesi in difficoltà. Lo si evince bene dalla documentazione e dalla consultazione dei giornali del tempo.
Come si svolse la missione della Multinational Force in Lebanon e che esiti ebbe?
La missione fu molto complessa. Come forse alcuni ricorderanno, in realtà gli interventi furono due: il primo iniziò nell’agosto 1982 e durò meno di un mese con l’evacuazione pacifica dei guerriglieri palestinesi concentrati nel Libano; il secondo cominciò subito dopo a seguito dei tragici eventi di Sabra e Chatila. Questo massacro colpì l’opinione pubblica mondiale e fu quasi naturale per l’Italia e gli altri paesi tornare sul posto. Tuttavia, il contesto di questa seconda missione si presentava decisamente differente dalla prima, mostrando insidie che emersero ulteriormente con il passare del tempo. Le forze di pace americane, francesi e italiane – a cui si aggiunsero, seppur quasi simbolicamente, quelle inglesi – non furono in grado di dirimere le ataviche divisioni interne, sul cui sfondo agivano contemporaneamente dispute regionali e dinamiche proprie della guerra fredda. L’acuirsi della crisi, con gli attentati sanguinari ai danni dei contingenti stranieri – fra cui quello che costò la vita, per le conseguenze delle ferite subite, al marò Filippo Montesi – resero il dramma libanese una vera e propria trappola dalla quale fu inevitabile andare via nel 1984. Eppure furono tanti i tentativi diplomatici esperiti per stabilizzare la situazione; fra questi quelli offerti dall’Italia, sempre al centro delle varie negoziazioni e chiamata in causa per la sua imparzialità. Come disse il premier israeliano Yitzhak Shamir al ministro degli Esteri italiano, Andreotti, nel dicembre 1983, l’Italia era «tra i pochi Paesi che [poteva] parlare sia con gli arabi, sia con gli [israeliani], sicuri di essere ascoltati, perché non [era] mossa da interessi particolari ma dalla volontà di aiutare la pace e la convivenza tra i popoli». Nel libro tutto viene analizzato molto dettagliatamente, grazie all’ausilio di fonti recentemente rese disponibili dagli archivi italiani e stranieri. Solo per citarne alcuni, sono risultati fondamentali per la ricerca le carte di Pertini dell’Archivio Storico della Presidenza della Repubblica, quelle di Andreotti dell’Istituto Luigi Sturzo, i documenti dell’Archives du Ministère des Affaires Étrangères di Parigi, dei The National Archives di Londra e del Margaret Thatcher Foundation Archive.
Per la Sua analisi, Lei si è avvalso anche della preziosa testimonianza diretta del generale Franco Angioni, comandante del contingente italiano in Libano durante la seconda missione di pace: quali difficoltà incontrarono i nostri soldati sul campo e quale fu l’accoglienza riservata loro dalla popolazione libanese?
Prima di rispondere a questa domanda mi permetta di ringraziare pubblicamente il generale Franco Angioni. Un uomo d’altri tempi, amato e stimato da tutti i militari italiani che parteciparono alla missione di pace in Libano. La sua esperienza e l’impegno profuso hanno sicuramente permesso all’Italia di svolgere nel migliore dei modi possibili il difficile compito assegnatole dalla diplomazia. Si deve certamente al generale Angioni la “Special Italian Way” a cui accennavo prima: un’attenzione elevata per gli aspetti umanitari, una presenza costante e diffusa nell’area assegnata, vicina ai bisogni della popolazione e attenta ai problemi concreti. Se americani, francesi e poi gli inglesi rimasero spesso rinchiusi nelle loro postazioni – specie nei momenti più complessi – gli italiani furono particolarmente attivi e presenti, integrandosi perfettamente nel difficile contesto locale. Geniale la scelta, sempre di Angioni, di distribuire libri sulla storia del paese mediorientale direttamente ai soldati, permettendo loro di conoscere meglio la cultura e le divisioni interne. E poi ci fu la creazione di un ospedale da campo che offriva assistenza sanitaria a tutti, senza distinzioni etniche o religiose. L’Italia presidiava il settore abitato in maggioranza da sciiti, ovvero la comunità musulmana più povera. La decisione di aprire il presidio ospedaliero anche alla popolazione locale – cosa che non fecero americani e francesi – rappresentò sicuramente una carta vincente e con ogni probabilità incise pure sul numero minore di attacchi subiti rispetto agli altri contingenti. In definitiva, i buoni ricordi delle truppe italiane in Libano tra il 1982 e il 1984 sono rimasti non solo tra le popolazioni dei campi profughi, ma anche nella coscienza generale di tutti i libanesi. Chi leggerà il libro forse scoprirà un’Italia molto diversa da quella degli ultimi anni, ben inserita nello scacchiere internazionale del tempo.
Silvio Labbate è ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Umane e Sociali dell’Università del Salento; ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia delle relazioni internazionali presso “La Sapienza”. È autore di vari volumi fra cui: Il governo dell’energia. L’Italia dal petrolio al nucleare (1945-1975); Illusioni mediterranee: il dialogo euro-arabo; Al governo del cambiamento. L’Italia di Craxi tra rinnovamento e obiettivi mancati (curatela); ha scritto saggi per diverse riviste internazionali: «Ventunesimo Secolo», «Nuova Rivista Storica», «Italia Contemporanea», «European Review of History», «Journal of European Integration History», «Middle Eastern Studies», «The International History Review», «Meridiana» e «Rivista italiana di storia internazionale».