“L’Italia e la missione di pace in Libano 1982-1984. Alla ricerca di una nuova centralità nel Mediterraneo” di Silvio Labbate

Prof. Silvio Labbate, Lei è autore del libro L’Italia e la missione di pace in Libano 1982-1984. Alla ricerca di una nuova centralità nel Mediterraneo, edito da FrancoAngeli. La partecipazione alla missione di pace in Libano fu la prima vera e propria operazione delle forze armate italiane all’estero dopo il secondo conflitto mondiale: innanzitutto, cosa rappresentò, per il nostro Paese, tale impegno?
L'Italia e la missione di pace in Libano 1982-1984. Alla ricerca di una nuova centralità nel Mediterraneo, Silvio LabbateSi trattò di un evento molto speciale che andò a intrecciarsi con svariate situazioni. Come sempre avviene, esistono tante storie nella storia e diverse sfaccettature di una stessa questione. Basti pensare che la missione in Libano vista con gli occhi americani, francesi o inglesi assume un significato completamente diverso da quello italiano. Bisogna quindi interrogarsi dapprima su cosa fosse l’Italia in quel periodo, su che percezione esisteva all’estero del nostro paese a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta. Per questo il libro inizia con l’analizzare l’evoluzione della politica estera italiana e la centralità che il Mediterraneo ha sempre rappresentato in questo quadro. Senza spiegare questo non si può comprendere come nasca l’idea americana di coinvolgerci in uno degli scenari più complessi dell’area. Si trattò di un percorso molto lungo, in cui anche le forze armate giocarono un ruolo importante. Questa crescente attenzione per il bacino mediterraneo accese le attenzioni delle diplomazie straniere, specie di quella inglese, i cui interessi regionali erano notevoli. Emerse sempre più quello che in Gran Bretagna definivano, anche con una certa preoccupazione, un Mediterranean role dell’Italia. Una contingenza che attribuisce ancora maggior peso alla decisione di chiamarci in causa nelle dispute mediorientali del periodo, prima con la partecipazione quasi simbolica proprio in Libano nell’UNIFIL (United Nations Interim Force in Lebanon) – intervento che continua ancora oggi sempre con la partecipazione di militari italiani – e nella MFO (Multinational Forces and Observers) in Sinai e nel Mar Rosso – per garantire gli accordi di pace fra Israele ed Egitto stipulati a Camp David –, poi con la missione di pace al centro di questa ricerca. Il fatto, infine, che l’intervento in Libano avvenisse al di fuori dell’egida delle Nazioni Unite, così come apparve abbastanza chiaro fin dalle prime battute, chiarisce ulteriormente la sensazione che Roma fosse divenuta in quel frangente un partner affidabile su cui poter contare. Dunque, malgrado l’esito della missione, per gli italiani e per le forze armate rappresentò un qualcosa di diverso. Fu forse una prova di affidabilità superata a pieni voti. Non a caso, da quel momento i poi il nostro paese è stato chiamato a partecipare in molti altri interventi di pace all’estero. Si parlò addirittura di una “Special Italian Way”, malgrado all’inizio la stampa italiana e internazionale fosse molto scettica a riguardo.

In quale contesto storico e politico maturò la decisione di prendere parte alla missione?
Come dicevo, fu un percorso molto lungo in cui si verificò una crescente maturazione di una classe politica che, seppure molto criticata in patria, in politica estera fu in grado di agire spesso per il bene dell’Italia. Quando parlo di classe politica mi riferisco anche all’opposizione comunista che, fino all’emergere delle notevoli difficoltà sul campo, non contrastò la missione. In realtà tutti i partiti, per motivazioni differenti, furono concordi nell’andare ad aiutare un paese come il Libano, martoriato dalla guerra civile e al centro delle complesse vicende mediorientali. Il contesto storico-politico fu quello della presidenza Pertini e, soprattutto, quello della formazione del governo Spadolini I (28 giugno 1981) – per la prima volta nella storia della Repubblica guidato da un primo ministro non democristiano, il repubblicano Giovanni Spadolini – e del Pentapartito: da questo momento in poi l’approccio italiano verso la regione mediterranea cominciò davvero ad assumere forme nuove. Ma segnali in questo senso vi furono anche in precedenza, per esempio con l’assunzione dell’Italia della Presidenza del Consiglio della Comunità europea a inizio 1980: ci fu infatti l’importante Consiglio europeo di Venezia (12-13 giugno 1980), considerato una pietra miliare della posizione comunitaria nei confronti del conflitto arabo-israeliano. Roma, dunque, svolse un ruolo importante e da protagonista nella questione. A ciò va aggiunto che nel frattempo si era provveduto a modernizzare la forza militare, dotando la marina di sistemi di armamenti sufficientemente equipaggiati sia per compiti offensivi che per quelli difensivi: l’Italia si era quindi attrezzata per poter davvero svolgere un ruolo maggiore nel Mediterraneo. Diversi i politici che parteciparono attivamente a questa evoluzione, solo per citarne alcuni: lo stesso Spadolini, Andreotti, Colombo, Cossiga, Fanfani, Craxi. Ma l’aspetto che vorrei sottolineare maggiormente fra quelli che hanno spinto di più verso l’intervento in Libano è quello umanitario: tutto il paese avvertiva il desiderio di aiutare i fratelli libanesi in difficoltà. Lo si evince bene dalla documentazione e dalla consultazione dei giornali del tempo.

Come si svolse la missione della Multinational Force in Lebanon e che esiti ebbe?
La missione fu molto complessa. Come forse alcuni ricorderanno, in realtà gli interventi furono due: il primo iniziò nell’agosto 1982 e durò meno di un mese con l’evacuazione pacifica dei guerriglieri palestinesi concentrati nel Libano; il secondo cominciò subito dopo a seguito dei tragici eventi di Sabra e Chatila. Questo massacro colpì l’opinione pubblica mondiale e fu quasi naturale per l’Italia e gli altri paesi tornare sul posto. Tuttavia, il contesto di questa seconda missione si presentava decisamente differente dalla prima, mostrando insidie che emersero ulteriormente con il passare del tempo. Le forze di pace americane, francesi e italiane – a cui si aggiunsero, seppur quasi simbolicamente, quelle inglesi – non furono in grado di dirimere le ataviche divisioni interne, sul cui sfondo agivano contemporaneamente dispute regionali e dinamiche proprie della guerra fredda. L’acuirsi della crisi, con gli attentati sanguinari ai danni dei contingenti stranieri – fra cui quello che costò la vita, per le conseguenze delle ferite subite, al marò Filippo Montesi – resero il dramma libanese una vera e propria trappola dalla quale fu inevitabile andare via nel 1984. Eppure furono tanti i tentativi diplomatici esperiti per stabilizzare la situazione; fra questi quelli offerti dall’Italia, sempre al centro delle varie negoziazioni e chiamata in causa per la sua imparzialità. Come disse il premier israeliano Yitzhak Shamir al ministro degli Esteri italiano, Andreotti, nel dicembre 1983, l’Italia era «tra i pochi Paesi che [poteva] parlare sia con gli arabi, sia con gli [israeliani], sicuri di essere ascoltati, perché non [era] mossa da interessi particolari ma dalla volontà di aiutare la pace e la convivenza tra i popoli». Nel libro tutto viene analizzato molto dettagliatamente, grazie all’ausilio di fonti recentemente rese disponibili dagli archivi italiani e stranieri. Solo per citarne alcuni, sono risultati fondamentali per la ricerca le carte di Pertini dell’Archivio Storico della Presidenza della Repubblica, quelle di Andreotti dell’Istituto Luigi Sturzo, i documenti dell’Archives du Ministère des Affaires Étrangères di Parigi, dei The National Archives di Londra e del Margaret Thatcher Foundation Archive.

Per la Sua analisi, Lei si è avvalso anche della preziosa testimonianza diretta del generale Franco Angioni, comandante del contingente italiano in Libano durante la seconda missione di pace: quali difficoltà incontrarono i nostri soldati sul campo e quale fu l’accoglienza riservata loro dalla popolazione libanese?
Prima di rispondere a questa domanda mi permetta di ringraziare pubblicamente il generale Franco Angioni. Un uomo d’altri tempi, amato e stimato da tutti i militari italiani che parteciparono alla missione di pace in Libano. La sua esperienza e l’impegno profuso hanno sicuramente permesso all’Italia di svolgere nel migliore dei modi possibili il difficile compito assegnatole dalla diplomazia. Si deve certamente al generale Angioni la “Special Italian Way” a cui accennavo prima: un’attenzione elevata per gli aspetti umanitari, una presenza costante e diffusa nell’area assegnata, vicina ai bisogni della popolazione e attenta ai problemi concreti. Se americani, francesi e poi gli inglesi rimasero spesso rinchiusi nelle loro postazioni – specie nei momenti più complessi – gli italiani furono particolarmente attivi e presenti, integrandosi perfettamente nel difficile contesto locale. Geniale la scelta, sempre di Angioni, di distribuire libri sulla storia del paese mediorientale direttamente ai soldati, permettendo loro di conoscere meglio la cultura e le divisioni interne. E poi ci fu la creazione di un ospedale da campo che offriva assistenza sanitaria a tutti, senza distinzioni etniche o religiose. L’Italia presidiava il settore abitato in maggioranza da sciiti, ovvero la comunità musulmana più povera. La decisione di aprire il presidio ospedaliero anche alla popolazione locale – cosa che non fecero americani e francesi – rappresentò sicuramente una carta vincente e con ogni probabilità incise pure sul numero minore di attacchi subiti rispetto agli altri contingenti. In definitiva, i buoni ricordi delle truppe italiane in Libano tra il 1982 e il 1984 sono rimasti non solo tra le popolazioni dei campi profughi, ma anche nella coscienza generale di tutti i libanesi. Chi leggerà il libro forse scoprirà un’Italia molto diversa da quella degli ultimi anni, ben inserita nello scacchiere internazionale del tempo.

Silvio Labbate è ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Umane e Sociali dell’Università del Salento; ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia delle relazioni internazionali presso “La Sapienza”. È autore di vari volumi fra cui: Il governo dell’energia. L’Italia dal petrolio al nucleare (1945-1975); Illusioni mediterranee: il dialogo euro-arabo; Al governo del cambiamento. L’Italia di Craxi tra rinnovamento e obiettivi mancati (curatela); ha scritto saggi per diverse riviste internazionali: «Ventunesimo Secolo», «Nuova Rivista Storica», «Italia Contemporanea», «European Review of History», «Journal of European Integration History», «Middle Eastern Studies», «The International History Review», «Meridiana» e «Rivista italiana di storia internazionale».

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