
Poi, e forse soprattutto, la grande diversità dei consumi va intesa come un riflesso della grande varietà delle identità culturali d’Italia, o anche della frammentazione culturale del paese, se si vuole. Mappare quello che gli italiani preferiscono vedere ci spinge così a riflettere sul potere delle immagini e dei racconti filmici e televisivi. Cioè porta a interrogarci su quali siano le ragioni che convincono le persone ad accendere il televisore, a guardare un programma per qualche minuto in più, o a uscire di casa e comprare il biglietto per vedere un certo film.
Uno studio basato sui dati come quello che propongo nel libro ha quindi due motivi principali d’interesse: uno riguarda la dimensione industriale ed economica della filiera audiovisiva, l’altro riguarda la dimensione socioculturale delle culture di gusto e delle differenti identità locali che corrispondono a consumi tanto diversi nel paese.
Quali specificità di consumo, anche geografiche, hanno, nel nostro Paese, cinema e televisione?
Parliamo di due media che implicano modalità di consumo molto differenti, al punto che è anche difficile trovare delle metriche che permettano di paragonare il successo sul grande e quello sul piccolo schermo. Quando per esempio diciamo che un certo film in televisione in prima serata è stato visto da quattro milioni di spettatori, intendiamo in realtà che per ogni minuto della sua trasmissione quattro milioni di spettatori si sono trovati davanti al teleschermo (ascolto medio) – ma virtualmente si potrebbe anche trattare di persone totalmente diverse da un minuto al successivo. Il gran traffico di spettatori in entrata e in uscita che caratterizza il consumo televisivo non riguarda, com’è ovvio, il consumo di cinema in sala, dove in linea di massima chi ha pagato il biglietto si guarda il film dall’inizio alla fine.
Ma anche al netto dei diversi comportamenti di visione e del diverso grado di accessibilità dei contenuti, è ben chiaro che cinema e televisione hanno volumi di pubblico ben diversi: i risultati d’ascolto televisivo sono meno “scalabili” da parte di una singola regione di quanto non lo siano i risultati al box office. Al cinema, come mostro, i grandi successi regionali nelle maggiori regioni d’Italia sono anche dei successi nazionali – cioè sono successi nazionali poiché sono grandi successi regionali. In televisione invece, dato che il successo si gioca su altre cifre, è difficile che una sola regione sia in grado di trainare gli ascolti totali così come avviene per il cinema in sala. Insomma, la televisione è un medium più nazionalpopolare del cinema, che diluisce un po’ meglio le visioni sull’intero territorio, in fin dei conti proprio perché è un medium più popolare.
Ma anche il consumo televisivo è territorialmente differenziato: a seconda delle caratteristiche di un certo contenuto (la trasmissione televisiva di un film, quella di una serie originale, ma anche quella di un programma di intrattenimento) si possono riscontrare puntualmente dei picchi di visione in singole regioni, anche se sono in genere meno pronunciati di quelli per i film in sala. A orientare geograficamente i consumi televisivi sono i medesimi fattori d’attrazione dai quali dipende lo sbilanciamento dei consumi theatrical: le ambientazioni, gli attori, i registi, ecc. Si aggiunga poi che per la televisione esiste una particolare inerzia geografica dei consumi a seconda delle reti d’emissione: ci sono reti che, anche indipendentemente da ciò che viene trasmesso, avranno un pubblico più settentrionale o più meridionale. Certi programmi inseriti in palinsesto si adeguano di più e altri di meno alle caratteristiche geografiche del pubblico più fedele, e questo è un tema che può avere un interesse strategico per i broadcaster e aiutare, per esempio, a disegnare o a ridisegnare delle linee editoriali. A rendere ancora più complicata un’analisi di questo tipo c’è il fatto che quest’inerzia geografica dei consumi delle varie reti cambia nel tempo, perché è capitato, per esempio, che certi canali con un pubblico di riferimento tradizionalmente più settentrionale abbiano subìto un processo di meridionalizzazione dei propri bacini di telespettatori.
Come si sono evolute le geografie del consumo audiovisivo in Italia nella seconda metà del Novecento?
La prima parte del volume è dedicata a una ricognizione storica delle geografie dei consumi audiovisivi dal secondo dopoguerra alla fine del secolo scorso, che mi è servita a mettere meglio in prospettiva le ricerche della seconda parte del volume, che sono invece dedicate allo scenario contemporaneo e ai primi due decenni del nuovo millennio. Il punto è che i pochi studi sistematici recenti che sono stati tentati, per la seconda metà del Novecento, hanno in pratica sostenuto la sostanziale irrilevanza del tema della varietà geografica delle visioni dei film in sala, specialmente nel caso dei titoli di maggior successo, che sarebbero stati visti più o meno allo stesso modo in tutta Italia. Ho provato a verificare la fondatezza di queste affermazioni, che per la verità mi sembrano spesso smentite dai dati concreti. D’altra parte, già nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta si discuteva l’esistenza di un «dissimile gusto del cinema» nelle varie aree del paese, la presenza di filoni regionali, o di generi di maggiore richiamo per il pubblico popolare e dunque provinciale più che cittadino, e così via. Uno studio più esteso è ancora da compiere, ma penso che si possa giungere a sostenere che anche quando il cinema in Italia è stato uno spettacolo di massa, cioè fino alla fine degli anni Settanta, non fosse propriamente uno spettacolo nazionale, e fosse in realtà visto – a seconda delle caratteristiche dei singoli film – in modo molto differente nel paese.
Per le visioni in sala di questo periodo possiamo contare sui dati degli Annuari statistici SIAE e su quelli pubblicati nella Borsa Film del Giornale dello Spettacolo dell’AGIS, che pur con qualche limite anche importante permettono di tracciare un quadro piuttosto preciso. Per i consumi televisivi dei primi decenni dopo l’inizio delle trasmissioni regolari, invece, ho fatto ricorso ai Quaderni del Servizio Opinioni della RAI, che mostrano, tra le altre cose, come le diverse abitudini di vita nelle varie parti del paese influissero sul successo, al Nord e al Sud, delle medesime trasmissioni. Il servizio pubblico si è sforzato allora di sincronizzare i tempi del paese su quelli dell’orologio comune del palinsesto. La TV ha mostrato una continua tensione tra generalismo (anche geografico) e localismo, nel corso dei decenni, e anche quando si pensava che quel medium avesse il compito di rendere più omogenea l’Italia, verosimilmente i consumi televisivi lo erano ben poco, e variavano anche di parecchio a seconda dei contenuti. Non abbiamo tanti dati con granularità sufficientemente affidabile: in questa parte del volume ho proposto solo pochi carotaggi dei dati Auditel di programmi scripted della fine del secolo che, pur essendo stati esaltati come campioni di italianità, hanno attirato consumi estremamente eterogenei dal punto di vista regionale.
Cosa rivela l’analisi dei dati Cinetel e Auditel sul cinema e sulla televisione contemporanei?
Sono dati molto granulari cui solitamente gli accademici non hanno accesso e che ho potuto studiare grazie a una preziosa collaborazione durata alcuni anni col Marketing Strategico di Mediaset. Le analisi rivelano, in sintesi, che non si deve dare per scontata l’esistenza di un’unica cultura audiovisiva condivisa in tutta Italia. L’alto grado di frammentazione della cultura audiovisiva è anche specchio della frammentazione identitaria del paese, che non è solo una frattura tra Nord e Sud, ma proprio tra le singole regioni. Se c’è una cosa che contraddistingue il consumo del cinema domestico in sala negli ultimi vent’anni in Italia è proprio la sua variabilità e la sua concentrazione geografica: ogni film attira diversi bacini regionali di pubblico. Chi ha studiato il concetto di cinema nazionale ha sottolineato come questa nozione dipenda non solo da fattori che hanno a che fare con il piano della rappresentazione o con il posto in cui un certo film è stato prodotto, ma anche con la distribuzione e il consumo dei film stessi: non si dà cioè un cinema nazionale senza un pubblico altrettanto nazionale. Se le cose stanno così, allora noi oggi possiamo affermare che un “cinema italiano” non esiste, e che non è mai esistito nel corso degli ultimi due decenni (almeno). Il cinema in Italia è semmai, di regola, “regionalpopolare”. E allo stesso modo non si può dire neppure che esista una televisione nazionale, vista in modo omogeneo dappertutto, nemmeno nel caso dei programmi in assoluto più visti dei palinsesti dei broadcaster cosiddetti generalisti. Per intenderci, neppure i film di Checco Zalone né Montalbano sono visti allo stesso modo in tutta Italia.
Uno studio delle geografie delle visioni è utile perché permette di far emergere delle differenze, e delle ricorrenze in queste differenze, che corrispondono a diversità di atteggiamenti e disposizioni: le differenze dei consumi possono rivelare differenze culturali. E queste differenze sono tante e si riscontrano puntualmente. A guardare il solo dato aggregato nazionale invece – come siamo purtroppo abituati a fare – questo grado di dettaglio e questa profonda varietà dei consumi vengono completamente nascosti, censurati.
Giorgio Avezzù insegna Linguaggi audiovisivi e Produzione audiovisiva all’Università degli Studi di Bergamo. È autore de L’evidenza del mondo. Cinema contemporaneo e angoscia geografica (2017).