
Il romanzo, che si svolge nel Settecento, figura scritto dal ragazzo Jim Hawkins, figlio di una locandiera, in un paesino marittimo d’Inghilterra. Siamo nella locanda “Ammiraglio Benbow”, tenuta dalla madre di Jim, un alberghetto solitario avvolto da un’atmosfera di mistero pittoresco e di angosciosa attesa. È lì ospite un vecchio marinaio dal volto sfregiato, Billy Bones, ma una oscura minaccia grava su di lui: un cieco gli porta la “macchia nera”, funebre preavviso di strage in uso tra pirati. Il giorno stesso Billy, impenitente bevitore, muore di un colpo. Jim e la madre, aprendo un suo misterioso baule, vengono in possesso di certe carte, sulle quali è segnato il nascondiglio, in un’isola remota, del bottino favoloso seppellitovi dalla banda del capitano Flint. Invano i pirati danno l’assalto alla locanda per impadronirsi del documento. Jim è già lontano, interessa all’impresa il dottor Livesey, medico e magistrato del paese, e il cavalier Trelawney, il signorotto locale; viene noleggiata una nave, l'”Hispaniola”, e tutti partono verso l’isola del Tesoro.
Ma sulla nave si sono arruolati anche alcuni pirati della banda Flint, capeggiati dal pittoresco John Silver gamba di legno, e la lotta non tarderà a scoppiare. Seguono, con un procedimento caro a Stevenson, e che fu spesso seguìto da Joseph Conrad, altre avventure raccontate non più dal giovane Hawkins, ma dal dottor Livesey. Il romanzo si biforca, poi ritorna alla sua vena principale. Giunti nell’isola, i due gruppi, quello di Silver e quello a cui appartiene il ragazzo comandato da Livesey e Trelawney e a cui si è unito Benn Gunn, un disgraziato abbandonato nell’isola tre anni prima dalla banda Flint, si combattono con alterna fortuna e con un intreccio fantasioso, ma serrato. Alla fine il tesoro è ricuperato, Silver scompare e la “Hispaniola” ritorna vittoriosa.
Dal giorno della sua pubblicazione L’isola del tesoro è divenuta un classico della letteratura d’avventure. Vi fu chi perdette il senso delle proporzioni (Lang) fino a paragonare questo romanzo all’Odissea. Più sensato ci pare considerarlo un illustre anello nella ricca tradizione della letteratura marinara e avventurosa anglo-sassone e collocarlo tra il Robinson Crusoe di Defoe – gran padre comune – e i volumi polinesiani di Melville (Typee e Omoo) da un lato, e certi romanzi di Conrad (Vittoria) e di Jack London dall’altro.
Come per tutte le opere migliori dell’Autore il pregio artistico fondamentale sta in un sano, mirabile equilibrio tra realtà e fantasia. Stevenson è, nell’Isola del Tesoro, sempre preciso e concreto, talora fino alla minuziosità; ma ciò non intralcia mai l’animoso respiro del romanzo, né appesantisce l’alone leggendario che irraggia dai suoi personaggi. Quest’opera è riuscita uno di quei rari libri che soddisfano tanto la sete avventurosa dei ragazzi quanto lo spirito estetico dei raffinati. Certe trovate pittoresche, come quella del pappagallo di John Silver, restano indimenticabili, perché in Stevenson un’arte consumata non ha spento né soffocato la sua primitiva e quasi fanciullesca gioia di raccontare.»