“L’invenzione di Dio” di Thomas Römer

L'invenzione di Dio, Thomas RömerSi occupa di «fornire un’indagine risolutamente storica per spiegare l’origine del giudaismo» il libro L’invenzione di Dio di Thomas Römer, edito da Claudiana, nella traduzione italiana di Daniele Garrone. Nel suo studio, l’Autore, esegeta, filologo e biblista titolare della cattedra «Milieux bibliques» presso il Collège de France di Parigi e docente di Antico Testamento presso l’Università di Losanna, tratta di «come è stato inventato il monoteismo e in che modo ha integrato le radici politeistiche di cui conserva l’eredità» e risponde alle domande su come YHWH «divenne il dio di “Israele”; quando accedette allo statuto di dio protettore dei regni di Israele e di Giuda? Come fece il suo ingresso nel tempio di Gerusalemme? Vi era solo o coabitava con altre divinità? Era fin dall’inizio invisibile, come affermano i redattori biblici, o esisteva raffigurazioni di YHWH? Era “celibe”? A conclusione di quale processo e in connessione a quali eventi si è imposto il culto monolatrico che, progressivamente, gli è stato reso?»

Römer parte dalla considerazione che «nel primo capitolo della Genesi “Dio” non porta il suo nome proprio, cosa che può apparire normale se si considera la Bibbia un libro monoteista. Se vi è un solo Dio, perché dovrebbe avere un nome proprio? Tuttavia, osservando meglio, si presenta un primo motivo di stupore. Il termine ebraico che viene tradotto con «dio» – ĕlōhîm – ha una terminazione plurale e potrebbe anche tradursi con «dèi». Un dio o vari dèi? La stessa parola può indicare sia il singolare sia il plurale e sono soltanto le forme verbali che permettono di decidere. Questa ambiguità è forse anche un invito a non dirimere la questione. Si voleva suggerire che il dio unico sussumeva in sé una varietà di dèi?»

Ma come si pronunciava il nome del dio di Israele? L’Autore esamina la testimonianza di alcuni Padri della chiesa: «secondo Clemente di Alessandria (ca 150-ca 220), in riferimento al racconto di Esodo 3: «Il nome mistico di quattro lettere […] è chiamato Iauè, che si traduce come “colui che è e che sarà”». Epifanio di Salamina (IV secolo) parla di Ià e di Iabé. Nel V secolo, Teodoreto di Ciro […] precisa che i samaritani chiamo dio Jabè e gli ebrei Aià […]; Fozio, patriarca di Costantinopoli, nel IX secolo, attesta anch’egli la pronuncia «Yabé» o «Yavé». Origene d’Alessandria (185-253), nel suo commento al Salmo 2, discute il divieto di pronunciare il nome divino vigente presso gli ebrei e si riferisce a quel nome parlando semplicemente del «tetragramma», ma talora anche di Iaḗ (il che sembra corrispondere a «Yahwé»). Egli sa, tuttavia, che nei nomi teofori che terminano in -yhw, la pronuncia del nome divino è -iaó. Nel suo Contro Celso, poi, cita la forma Iaó come la pronuncia adottata dagli gnostici. Quasi tutte le attestazioni della pronuncia del tetragramma provengono dall’epoca cristiana. Al di fuori del testo di Esodo 3, l’attestazione più antica si trova forse nella traslitterazione in babilonese dei nomi teofori di giudaiti installati a Babilonia dalla fine del VI secolo a.e.v., nella forma ia-a-hu-ú, che corrisponde a /yahu/ […].

Se dunque esistono alcune attestazioni che suggeriscono una pronuncia del tetragramma del tipo «Yahwe», la maggior parte di esse depongono a favore di un «Yahû» o «Yahô». Gli israeliti e i giudaiti che dalla fine del VII secolo o dall’inizio del VI avanti l’era cristiana si erano stabiliti sull’isola di Elefantina, nell’Alto Egitto, chiamavano YHW il loro dio che, nei nomi propri, era vocalizzato «Yahô». Un testo rinvenuto a Qumran (4QpapLXXLevb) contenente un frammento del libro del Levitico in greco (4,26-28), rende il tetragramma con Iaó: «Se qualcuno viola uno solo dei comandamenti di Iaó e non lo esegue […]» (4,27). In greco, Iaó contiene due sillabe e si pronuncia ia-o, il che corrisponde all’ebraico o all’aramaico Ya-hô. Ciò mostra che al momento della traduzione del Pentateuco in greco, questa pronuncia aveva corso ed era nota. Possiamo anche citare Diodoro siculo (I secolo) che, nella sua Biblioteca (I,94.2) scrive: «Si racconta che […] presso gli ebrei, Mosè diceva di aver ricevuto la legge dal dio chiamato Iaó». […] Questa indagine porta a concludere che la pronuncia antica del nome del dio di Israele era «Yahô». È dunque erronea la pronuncia che il domenicano Raimondo Martini nel XIII secolo ha reso con yĕh(o)wāh, nonostante questa forma abbia trovato ampia diffusione in varie traduzioni bibliche, fino ai “Testimoni di Geova”.

Römer affronta poi «la spinosa questione della storicità di Mosè»: secondo l’egittologo Jan Assmann, «Mosè […] è una figura della tradizione di cui non esiste alcuna traccia storica». In effetti, al di fuori della Bibbia, non abbiamo alcuna menzione esplicita di Mosè in testi antichi, egiziani o altri». Il suo nome è di origine egiziana: «si tratta della trascrizione ebraica del lessema egiziano msj («generare, mettere al mondo») che troviamo, ad esempio, nel nome di Ramses («Re l’ha generato» oppure «figlio di Re»). Nel secondo millennio a.e.v. e nella prima metà del primo, i nomi egiziani erano altrettanto popolari in Siria-Palestina quanto lo sono da noi i nomi provenienti da soap opera americane. Ciò nondimeno, un particolare filologico può fornire una indicazione per affermare che il nome del Mosè biblico è più antico dei testi che parlano di lui. In effetti, il suono egiziano «s» nel nome di Mosè è reso con la lettera ebraica šîn, mentre, nei testi del primo millennio, questo suono è reso di solito con l’ebraico sāmek. Il nome di Mosè consente dunque di risalire al secondo millennio avanti la nostra era.»

«L’arrivo di YHWH nel territorio di Israele ha forse avuto luogo grazie all’incontro di un gruppo nomade che venerava questo dio con una federazione di tribù chiamata Israele». Al riguardo, l’episodio di Es. 4,24-26 […] in cui YHWH attacca Mosè e, «curiosamente», vuole ucciderlo, rimane enigmatico: «questo attacco ha luogo sul cammino da Madian verso l’Egitto ed è la moglie madianita di Mosè a salvarlo, circoncidendo suo figlio e portando il sangue al sesso di suo marito. […] YHWH è presentato in questo testo come una divinità pericolosa da cui bisogna sapersi proteggere. Come spiegare, però, questa ostilità? […] Esodo 4,24-26 sottolinea il coinvolgimento di una donna madianita nella pratica della circoncisione che appare qui come mezzo per proteggersi da YHWH che, in questo breve racconto, è descritto come una divinità estremamente pericolosa.»

L’Autore evidenzia il problema della storicità dei primi tre re d’Israele e di Giuda, Saul, Davide e Salomone – «al di fuori della Bibbia, non abbiamo alcuna attestazione diretta di questi re» – e mostra come YHWH aveva «una paredra, la dea Asherah, chiamata anche «regina del cielo», così come «è anche probabile che sia esistita una statua di YHWH nel tempio di Gerusalemme.»

Ipotesi suggestive, basate «sull’insieme della documentazione di cui disponiamo oggi»: «documenti egiziani, assiri, babilonesi e altri, sui testi biblici e gli insegnamenti dell’archeologia e dell’epigrafia». Come ammette ad ogni modo lo studioso, «certamente i risultati a cui sono giunto rimangono ipotetici e dipendono dalle interpretazioni che ho dato della documentazione testuale e archeologica.» Römer assolve tuttavia compiutamente ad un compito ineludibile fornendo un’indagine storica «per spiegare l’origine del giudaismo, la religione monoteistica su cui si fondano il cristianesimo e anche l’islam.»

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