“L’invenzione della Repubblica. Storia e politica a Firenze (XV-XVI secolo)” di Andrea Salvo Rossi

Dott. Andrea Salvo Rossi, Lei è autore del libro L’invenzione della Repubblica. Storia e politica a Firenze (XV-XVI secolo), edito da Salerno: che nesso caratterizzò, nella Firenze del Quattrocento, sapere politico e sapere storico?
L'invenzione della Repubblica. Storia e politica a Firenze (XV-XVI secolo), Andrea Salvo RossiSe dovessi semplificare all’estremo la risposta a questa domanda, dovrei limitarmi a rilevare che i due saperi in questione si presentavano, nell’ambito dell’umanesimo fiorentino, come indiscernibili. Ciò è vero fino al paradosso: non si dà discorso politico che non sia, in qualche modo, ancorato alla lettura della storia; e non si dà lettura della storia che non sia, in qualche modo, “istigata” e orientata dalle urgenze politiche. Ma il paradosso è solo apparente, o meglio ancora è un paradosso per la nostra sensibilità che richiede alla scrittura della storia il rispetto di certi criteri di scientificità, di aderenza ai dati documentali. Gli umanisti, invece, chiedono alla storia passata di insegnargli qualcosa sul presente (è il motivo ciceroniano, ripetuto allo sfinimento, della historia magistra vitae): si tratta di una concezione essenzialmente retorica della storia, che ha come presupposto l’idea che epoche diverse – spazi e tempi diversi – siano commensurabili, paragonabili; e come conseguenza il fatto che il principio di organizzazione della pratica storiografica (in ogni suo momento: dallo studio delle fonti, alla periodizzazione, alla mise en intrigue dell’arco cronologico individuato) sia l’istituzione di un nesso di esemplarità tra passato e presente.

Che contributo offrì Leonardo Bruni all’impostazione della teoria storiografica fiorentina?
Leonardo Bruni fu senza dubbio il più importante storico (non solo) fiorentino del quindicesimo secolo. Se Francesco Petrarca aveva saputo imporre l’urgenza di ripensare i fondamenti del sapere storico – denunciando i limiti di quel Medioevo che proprio in questo modo veniva inventato – , Leonardo Bruni si fece carico di questa riorganizzazione in modo sistematico. Per farlo, pose mano a praticamente ogni sottogenere della scrittura storica: la biografia (antica e moderna: dalla vita di Cicerone al dittico delle vite di Dante e Petrarca), la “monografia” (ossia la trattazione isolata di un solo accadimento, quale è il De primo bello punico), l’autobiografia “politica” (con il De temporibus suis), la grande narrazione annalistica (le Historiae florentini populi). Nel libro mi sono concentrato particolarmente su un aspetto, che mi pare consenta di riattraversarne la produzione a partire da un decisivo presupposto di metodo: ossia il modo in cui Bruni si muove liberamente tra le fonti consultate, senza alcun timore reverenziale, smontandole, modificandole, riorganizzandole in tessuti narrativi nuovi e sostanzialmente autonomi. Attenzione: in gioco non è solo il fatto che la storia antica venga letta in modo “tendenzioso” – ciò di per sé non sarebbe una grande novità – ma il fatto che Bruni rivendichi esplicitamente il diritto di farlo, anzi, il fatto che egli indichi in questa “libertà di movimento” il proprium della professione di storico. Pensare la storia come opus oratorium (altro Leitmotiv della teoria storiografica umanistica, ancora di procedenza ciceroniana) significava, per lui, capire che ogni resoconto storiografico è – diremmo noi oggi – un “testo argomentativo”: un discorso rivolto ad una certa comunità politica con precise finalità persuasive piuttosto che descrittive. Gli antichi autori vanno perciò apprezzati nella loro singolarità, come punti di vista coerenti sui fatti che raccontano e non come pure voci sparpagliate nei regesti di auctoritates: il che li rende però anche discutibili. In questo modo il “senso della storia” smette di essere deciso una volta per tutte (secondo quell’idea che ogni accadimento sia un momento, una figura, della storia della salvezza), ma diventa oggetto del contendere. Ciò ha a che fare chiaramente con il momento dell’inventio, la ricerca dei casi probanti rispetto alla torsione politica che si vuole imprimere alla materia storiografica che diventa uno dei perni della lingua politica fiorentina (è ciò a cui il mio titolo fa riferimento): dire che la storiografia fu ripensata su basi retoriche vuol dire perciò solo in un secondo momento porre un problema di stile.

Quale uso delle fonti antiche caratterizzò il “lungo Quattrocento” di Firenze?
Proverei a dire così, semplificando forse eccessivamente un percorso per nulla lineare e omogeneo: la storia della repubblica di Firenze fu una storia di grande instabilità, anche dopo la stretta oligarchica di fine Trecento: si inscrivono in questo quadro tanto l’ascesa dei Medici quanto i “tre esili” comminatigli nel corso di un secolo prima del definitivo tramonto della repubblica e l’assestamento del Granducato (che comunque dovette passare per il “tirannicidio” di Alessandro prima dell’avvento di Cosimo). La storia della repubblica di Roma – che fornisce a Firenze il suo mito di fondazione (Fiesole fondata dai veterani di Silla) – diventa perciò lo strumento per pensare queste discontinuità fornendo ad esse un punto d’appoggio, di radicamento che consente di pensare il presente fiorentino in analogia con il passato romano: la guerra con Pisa viene assimilata a quella di Roma con Cartagine (Leonardo Bruni), l’autorità di Cosimo il Vecchio a quella di Scipione Africano (Poggio Bracciolini), la congiura dei Pazzi a quella di Catilina (Poliziano), il potere di Savonarola a quello del rex sacrorum (Bartolomeo Scala), il gonfalonierato di giustizia di Soderini al tribunato della plebe (Machiavelli)… Il mio libro ripercorre, insomma, una parte di quell’esteso canone letterario che va sotto il nome di “umanesimo civile”, mantenendone uno degli assunti di fondo, ossia la precocità e la coerenza con cui gli studia humanitatis furono, a Firenze, curvati politicamente. Ciò che della tesi di Baron – e dei suoi (più o meno dichiarati) epigoni – mi pare sia invece rivedibile profondamente è l’idea che il “repubblicanesimo” di Firenze abbia a che fare con la difesa della città rispetto ai suoi rivali esteri (i “tiranni di Milano”): l’ideologia repubblicana fu molto di più uno strumento di autorappresentazione e autopromozione delle élites fiorentine rispetto ai tentativi di metterne in discussione il potere che provenivano prima di tutto dall’interno della città stessa (il che poi, in seconda battuta, poteva anche diventare una maniera di screditare altri assetti istituzionali: ciò è particolarmente evidente nel caso di Salutati, ma direi che non è affatto il centro del problema).

In che modo il protocollo della comparazione storica fu costretto a riorganizzarsi a partire dalla frattura del 1494?
Non dico altro che una banalità se dico che il 1494, con la calata di Carlo VIII nella penisola che dà inizio alle guerre d’Italia, fu una data spartiacque della storia europea. Il De bello italico di Bernardo Rucellai, fiorentino di parte oligarchica e fiero oppositore del “governo largo”, è forse la prima opera storiografica che segnala questa cesura: si tratta di una trattazione “monografica” delle vicende a cui Bernardo assiste personalmente, descritte come il collasso delle leggi divine e umane che non possono essere più presentate in continuità con il passato. Un gesto periodizzante che diventa poi celebre grazie al capolavoro indiscusso della storiografia rinascimentale: nel proemio della sua Storia d’Italia, Francesco Guicciardini individua implacabilmente la necessità che la storia si scriva a partire da quell’anno zero della modernità che il 1494 è, perché nessuna “finzione annalistica” può contenere la dismisura delle “nuove guerre”: inutile iniziare il récit dalla fondazione di Roma (ab urbe condita) perché la frattura è irrisarcibile e dunque il prima non può più spiegare il dopo. Questo problema storico diventa però anche un problema teorico: se la storia di Roma era servita a pensare la continuità è possibile usarla per pensare la frattura? Guicciardini matura nel tempo una risposta sostanzialmente negativa: «allegare i Romani» (cioè pensare che si possano imitare gli antichi) è una pratica insensata come lo sarebbe voler correre a dorso d’asino velocemente come a cavallo (C 110). Il suo scetticismo è però uno degli esiti più estremi del cedimento del protocollo di comparazione storica, che viene raggiunto in effetti da un autore che intende la scrittura come esercizio assolutamente privato. Ciononostante, anche chi provò a fare salvo il principio dell’analogia (il passato come misura del presente) dovette forzarne dall’interno i limiti, perché ripetere in modo irriflesso la strada tracciata dall’umanesimo quattrocentesco era ormai impossibile: l’opera di Machiavelli contiene anche, tra le molte cose, un disperato tentativo di tenere insieme esperienza del presente e conoscenza del passato («lunga esperienza delle cose moderne e continua lezione delle antiche», scrive nella dedica del Principe), cercando fino al paradosso modi per poter continuare a dire il nuovo con il vecchio.

In quale contesto maturò, a cavallo tra Cinque e Seicento, il fenomeno del tacitismo?
Gli studi sul tacitismo dipendono ancora, in ultima istanza, da quelli di Toffanin (penso ovviamente a Machiavelli e il tacitismo, 1921): l’idea di fondo è che il tacitismo sia una sorta di “machiavellismo mascherato”, in cui il riferimento a Tacito serve a rendere compatibile il confronto con le tesi di Machiavelli (attribuite all’autore degli Annales) negli anni della Controriforma. Nell’Epilogo del mio libro provo a dare il giusto peso a quella che è in realtà una semplice evidenza: il “tacitismo” – ammesso abbia ancora senso usare questa categoria – è sostanzialmente una vicenda fiorentina, che va intesa prima di tutto come costituzione di un “genere letterario” nuovo: quello dei commentari storico-politici, ossia dei trattati politici atteggiati nella forma della glossa a episodi della storia antica, liberamente estrapolati dalle opere storiografiche classiche e commentati in modo esorbitante rispetto alla lettera del testo, che diventa più che altro il pretesto per più o meno lunghe disquisizioni su questo o quell’aspetto della vita politica, affiancate per giustapposizione e “armonizzate” dal comune riferimento alle res gestae romanorum. Non abbiamo a che fare, cioè, né con trattati (cioè esposizioni sistematiche e coerenti in cui l’argomentazione procede in maniera lineare), né con commenti (cioè testi ancillari rispetto alla fonte, che – anche quando si dispiegano per molte pagine – mirano comunque a renderla in qualche modo più perspicua): e infatti il titolo che gli autori di queste trattazioni politiche scelgono è sempre quello di “discorsi”. Discorsi, sulla storia universale, sono quelli di Cosimo Bartoli, “discorsi” – su Tacito – sono quelli di Lionardo Salviati, Scipione Ammirato, Filippo Cavriani, Virgilio Malvezzi: così come “discorsi”, su Livio, erano quelli di Machiavelli, padre putativo di una tradizione che – a scorrere le biografie degli autori appena menzionati – è eminentemente toscana. Affrontando nelle ultime pagine del mio lavoro una produzione apparentemente lontana dal centro di interesse del volume (che è essenzialmente occupato da cose quattrocentesche), volevo segnalare la lunga durata di quel nesso politica-storia imposto dall’avanguardia umanistica due secoli prima (la prima opera storiografica di Bruni, ossia la Vita Ciceronis è del 1415, la princeps dei Discorsi di Malvezzi è del 1622). Certo, di questa vicenda il tacitismo rappresenta allo stesso tempo l’estrema propaggine e il punto di esaurimento: l’agglutinarsi intorno a Tacito di questo tipo di opere (intorno alla storia dell’Impero, dunque, e non della Repubblica) segnala infatti anche la definitiva transizione all’età degli Assolutismi, durante la quale i destini del pensiero politico saranno inesorabilmente traghettati altrove.

Andrea Salvo Rossi è assegnista di ricerca presso la Scuola Superiore Meridionale di Napoli e Professore a contratto di Letteratura Italiana presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università Federico II di Napoli. Le sue ricerche riguardano soprattutto la trattatistica politica di Antico Regime e la storiografia umanistico-rinascimentale. In particolare è dedicata a Niccolò Machiavelli la sua prima monografia, Il Livio di Machiavelli. L’uso politico delle fonti, pubblicata nel 2020 per i tipi della Salerno Editrice.

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