“L’invenzione della proprietà. La destinazione universale dei beni e i suoi nemici” di Cesare Salvi

Sen. Prof. Cesare Salvi, Lei è autore del libro L’invenzione della proprietà. La destinazione universale dei beni e i suoi nemici edito da Marsilio: quando e come avviene l’invenzione della proprietà moderna?
L'invenzione della proprietà. La destinazione universale dei beni e i suoi nemici, Cesare SalviLa proprietà dei moderni, cioè una forma di appropriazione di beni e risorse caratterizzata dal potere tendenzialmente illimitato del proprietario, è una novità rivoluzionaria rispetto al precedente assetto giuridico sui beni. In questo senso viene “inventata”, e ciò accade tra il ‘600 e l’800, con forme e modalità diverse, dapprima in Inghilterra e Olanda, poi in Francia, nell’Ottocento in Germania; partendo dall’Occidente, si è progressivamente estesa all’intero pianeta.

La rottura con il vecchio sistema fu più drastica in Francia: la rivoluzione abolì i diritti feudali a partire dal 1789, e il risultato fu sistemato in modo definitivo dal Codice di Napoleone, che attribuisce al proprietario il potere di disporre dei suoi beni “nella maniera più assoluta” (una norma ancora vigente).

L’Inghilterra invece non seguì la via della codificazione. Attraverso un percorso evolutivo iniziato con la rivoluzione seicentesca, e culminato alla fine del Settecento, la tradizione giuridica risalente al Medioevo (la “common law”) fu rielaborata per adeguarla all’economia capitalistica.

Ancora diversa fu la via tedesca, dove un ruolo importante fu svolto dagli studiosi di diritto, che partirono dalla premessa che il diritto romano svolgesse ancora la funzione di base giuridica comune a tutti i numerosi stati tedeschi, e che dal diritto romano potesse desumersi un modello di proprietà basato sul potere della volontà individuale. Dopo l’unificazione, anche la Germania si diede un Codice (entrato in vigore il 1° gennaio 1900) che adottò tale modello di proprietà.

Vie diverse, quindi, ma il risultato fu il medesimo, la vittoria della “proprietà dei moderni”.

Quale percorso teorico-politico ha condotto al neoproprietarismo contemporaneo?
“Neoproprietarismo” è il termine usato da Thomas Piketty per descrivere il capitalismo contemporaneo, caratterizzato da un ritorno all’idea originaria della libertà proprietaria come potere “assoluto”. In effetti la proprietà moderna ha saputo adattarsi alla gestione dei beni divenuti progressivamente più importanti: la terra nella fase originaria, poi l’industria, in seguito la finanza e oggi anche i beni immateriali creati dalla rivoluzione tecnologica come la rete e i brevetti farmaceutici. Nella fase centrale del secolo scorso si erano affermate teorie e progetti alternativi: l’abolizione del capitalismo in Urss, la concezione “sociale” della proprietà (il New Deal di Roosevelt, e poi le costituzioni europee del dopoguerra), il “capitalismo organizzato” del fascismo. A partire dagli anni ’80 del secolo scorso, tuttavia, le ideologie neoliberiste sono tornate a prevalere nelle politiche dei governi e nella normazione giuridica. Oggi la competizione globale si esprime nell’alternativa tra il capitalismo liberista dell’occidente e il capitalismo “politico” della Cina.

Il percorso teorico-politico di affermazione del neoproprietarismo è quindi articolato. Nei decenni centrali del secolo scorso prevalsero, in Occidente, teorie economiche e giuridiche favorevoli all’intervento pubblico e a penetranti interventi sulla proprietà privata. È interessante notare che i maggiori esponenti di questo pensiero non furono socialisti, ma liberali: Keynes, Kelsen, Beveridge. È il periodo della costruzione dello Stato sociale, dei sistemi fiscali progressivi, del controllo dell’attività delle banche. Queste politiche furono espressione di un compromesso tra capitale e lavoro, accettato dal grande potere economico probabilmente preoccupato dall’attrazione che altrimenti avrebbe potuto avere il sistema sovietico.

Successivamente questa via fu abbandonata. Nella teoria economica Friedman prese il posto di Keynes come pensatore di riferimento. I governi prima di destra (Reagan, Thatcher) poi di centrosinistra (Clinton, Blair) adottarono questo impianto, con politiche liberiste accentuate, in particolare con la libertà di circolazione di capitali su scala globale. Oggi, dopo la crisi finanziaria e del debito pubblico del 2007 – 2008, i presupposti teorici del neoliberismo sono contestati da studiosi affermati (Stiglitz, Piketty), ma una svolta politico – sociale non c’è ancora stata, e il neoproprietarismo resta dominante. Basti pensare al potere incontrollato dei giganti della rete o al fatto che neppure di fronte alla pandemia si è riusciti a incidere sui brevetti farmaceutici che stanno aumentando enormemente la ricchezza delle industrie farmaceutiche.

Che relazione esiste tra la libertà dei moderni e la proprietà individualista?
La “libertà dei moderni” è il titolo di un famoso discorso del 1819 di Benjamin Constant. Per lui si differenzia dalla libertà degli antichi (il modello ateniese) perché basata su istituzioni rappresentative censitarie, nelle quali il diritto di voto è riservato ai ceti proprietari. Libertà e proprietà privata costituiscono un nesso considerato inscindibile; ma in tal modo si pone anche una contraddizione, che la storia successiva dovrà affrontare: la libertà dei “non proprietari”.

La connessione proprietà – libertà, infatti, cioè l’idea che la proprietà costituisce un diritto di libertà, è costitutiva dell’origine della modernità (la si ritrova nelle dichiarazioni dei diritti prodotte dalla rivoluzione americana e da quella francese), ma comportava l’esclusione della maggioranza della popolazione dai diritti politici, nonostante l’introduzione dell’eguaglianza giuridica di tutti i cittadini. Questa contraddizione non poteva reggere, e infatti i ceti proprietari adottarono due vie alternative: sistemi autoritari (a cominciare dal Secondo Impero di Napoleone III), o la concessione del suffragio universale, accompagnata da misure (politiche e giuridiche) per ridimensionarne il rischio di conseguenze eversive per l’assetto economico – sociale.

Come si è sviluppata, nel corso della storia, la riflessione critica sulla proprietà?
Anche se la proprietà dei moderni è un’invenzione relativamente recente, è dalla rivoluzione neolitica che l’umanità è divisa tra chi ha, e chi non ha, o ha molto poco. Se ne trovano le tracce fin dall’antichità, dai miti mesopotamici delle origini al mito greco-romano dell’età dell’oro, epoca primigenia e felice dell’umanità, nella quale la proprietà privata non esisteva. Il dubbio che il controllo di una minoranza sui beni economici sia giusto ha attraversato anch’esso la storia umana, e la proprietà è stata criticata, o invece giustificata, con argomenti che hanno assunto valore di riferimento per le epoche successive. Ciò vale nell’Occidente per la filosofia greca (nella dialettica tra Platone e Aristotele) e per la teologia cristiana, che era divisa nel pensiero dei padri, fino alla sintesi di Tommaso. Questi affermò che la “destinazione universale dei beni” è il principio di diritto naturale, essendo invece la proprietà privata un istituito di diritto positivo, utile per le ragioni che aveva addotto Aristotele. Questo orientamento prevalse a lungo, fino a quando i teorici dell’individualismo possessivo (i giusnaturalisti del Seicento) e poi la scuola dell’economia politica di Adam Smith lo abbandonarono per adottare l’ideologia costitutiva della proprietà dei moderni.

Quali critiche ha suscitato, in particolare, la proprietà dei moderni?
Nell’Ottocento si formarono i due più importanti filoni critici della proprietà dei moderni. Il primo è quello di Marx e del marxismo. Riprendendo un’antica tradizione di progetti e utopie comuniste (si pensi per tutti a Thomas More), Marx, com’è noto, si propose di dare una base scientifica all’abolizione della proprietà privata, indispensabile al superamento del capitalismo, che sarebbe stato sostituito da una società comunista. L’altro filone si è espresso nella dottrina sociale della Chiesa cattolica, dalla Rerum Novarum di Leone XIII alle encicliche di papa Francesco, contraria al comunismo, ma favorevole a un “principio sociale” che regolasse e limitasse i poteri proprietari.

Dopo la seconda guerra mondiale, un periodo fruttuoso di collaborazione tra socialisti e cattolici portò nell’Europa occidentale a una nuova sintesi, nella quale la proprietà privata è riconosciuta, ma condizionata al fine di assicurare una “funzione sociale”. Un principio oggi trascurato o abbandonato dal neoproprietarismo.

Che rapporto esiste tra democrazia e proprietà?
Il rapporto tra democrazia e proprietà è sempre stato controverso. Il timore che una maggioranza politica, formata dai rappresentanti dei ceti non proprietari, introducesse penetranti limiti ai poteri proprietari fu esplicitamente discusso dai politici e dai teorici della “democrazia dei moderni”. La risposta fu dapprima il suffragio censitario; poi, generalizzato il suffragio universale, si è spostata all’esterno del circuito della democrazia rappresentativa. I limiti più rilevanti posti a tal fine alla democrazia possono essere così sintetizzati: sul piano istituzionale il potere attribuito (e talvolta autoattribuitosi) dalle Corti supreme di garantire la libertà proprietaria rispetto a orientamenti legislativi di diverso segno (particolarmente attiva in tal senso è la Corte di giustizia UE), e la cessione di poteri dagli Stati nazionali (rimasti gli unici soggetti le cui decisioni sono sottoposte alle regole democratiche) ad organismi sovranazionali, come l’Organizzazione mondiale per il commercio, la stessa UE, e altri ancora. In secondo luogo, sono all’opera meccanismi extraistituzionali molto penetranti: l’influsso del denaro nella formazione dell’opinione pubblica (sul quale avevano già richiamato l’attenzione Antonio Gramsci e Otto Bauer) e il ruolo dei mercati finanziari, pronti a “punire”, ritirando la loro “fiducia”, politiche nazionali che contrastino con gli interessi della grande ricchezza.

Cosa stabilisce il principio della destinazione universale dei beni e in che rapporto esso è con la proprietà privata?
Il principio della destinazione universale dei beni – sempre custodito dalla Chiesa cattolica e ribadito da papa Francesco soprattutto nell’enciclica “Laudato sì” – si presenta come un “punto di partenza”, nel giudizio sulla attribuzione e regolazione dei beni, alternativo a quello della libertà proprietaria. Si potrebbe parlare di due visioni alternative di “diritto naturale”. Parlare di destinazione universale dei beni, peraltro, non equivale a proporre l’abolizione della proprietà privata. Si tratta invece di distinguere: non tutte le proprietà sono un furto, per usare la celebre frase di Proudhon. In particolare, all’interno dei beni economici è necessario distinguere anzitutto tra beni produttivi di valore per la società e beni fonte di speculazione e rendita (finanziaria e fondiaria). Gli economisti classici, come David Ricardo, avevano ben chiaro questa distinzione, rimessa in discussione dalla scuola marginalista, e oggi oscurata nelle nebbie del neoproprietarismo.

Le linee guida di una riforma democratica del capitalismo si trovano nella nostra Costituzione, in particolare negli articoli 41, 42 e 43. E nella Carta fondamentale sono anche gli elementi per una protezione adeguata di quelli che oggi vengono chiamati “beni comuni” come l’ambiente, la rete, i diritti basici.

Naturalmente, una via riformatrice che parta dal principio della destinazione universale, nel quadro delle norme costituzionali, richiede una coalizione (politica, sociale, culturale) che svolga la funzione che fu propria del movimento riformatore dei decenni centrali del secolo scorso. Purtroppo non esistono più forze politiche che – come allora – si propongano come rappresentative del mondo del lavoro, anche se esistono “contromovimenti” a livello globale che combattono importanti battaglie per l’ambiente, i diritti delle donne, contro le diseguaglianze e i regimi autocratici, il razzismo. Il quesito è se queste forme contemporanee di conflitto sociale e ideale resteranno separate, o riusciranno a costruire una coalizione capace di esprimere e far valere progetti politici unitari, indicando un’alternativa al neoproprietarismo dominante.

Cesare Salvi (Lecce, 1948) è stato professore ordinario di Diritto civile dal 1979, prima a Perugia e poi a Roma3. Dal 1992 al 2008 è stato senatore, ricoprendo incarichi istituzionali e di governo. Tra i suoi libri più recenti Capitalismo e diritto civile (il Mulino, 2015), La responsabilità civile (3a edizione, Giuffrè, 2019), Teologie della proprietà privata (Rubbettino, 2017); con Massimo Villone Il costo della democrazia (2a edizione, Mondadori, 2010).

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