“L’intenzionalità educativa degli spazi pubblici. Luoghi e tempi delle didattiche del movimento” di Antonio Borgogni

Prof. Antonio Borgogni, Lei è autore del libro L’intenzionalità educativa degli spazi pubblici. Luoghi e tempi delle didattiche del movimento pubblicato da Edizioni Studium: quale importanza rivestono gli spazi pubblici urbani nella promozione di stili di vita attivi?
L'intenzionalità educativa degli spazi pubblici. Luoghi e tempi delle didattiche del movimento, Antonio BorgogniÈ un periodo, quello che abbiamo vissuto e in parte stiamo vivendo, in cui, per sottrazione, abbiamo ancora di più imparato quanto il corpo, il movimento e gli spazi pubblici rivestano significato, siano importanti per la qualità della nostra vita. Da poco abbiamo, almeno in parte, dismesso la cortesia dell’evitarci, dello scostare il nostro corpo da quello degli altri. Un corpo che, se prestiamo la necessaria attenzione, appare ancora fuori luogo (De Martini Ugolotti, 2019), almeno nelle sue, più spontanee, prossimità.

Secondo i dati Eurobarometro, gli spazi pubblici sono già il luogo in cui i cittadini sono più attivi sia in Italia (dove viene privilegiato dal 35%) che in Europa (40%). Per essere attivi intendiamo svolgere sia le pratiche motorie quotidiane, come camminare, andare in bicicletta, giocare, sia quelle prettamente sportive, a qualsiasi livello esse vengano svolte. Ma gli spazi pubblici sono, per definizione, gratuiti: non esistono interessi e poteri che spingono ad una pratica, appunto, gratuita, mentre ve ne sono diversi che intendono farci credere che per camminare o correre abbiamo bisogno di tapis roulant o cyclette (mentre solo il 15% degli europei e degli italiani frequenta un centro fitness) legando queste ed altre pratiche alla costruzione di corpi adeguati agli standard estetici imposti dai media assai prima che sani.

Gli spazi pubblici devono essere, allora, gradevoli, accoglienti, in primo luogo per i gruppi fragili, per coloro che con maggiore difficoltà sono o si sentono sicuri nel percorrerli: bambini, anziani, disabili. Nel libro si approfondisce la trattazione relativa a bambini e anziani chiarendo, anche grazie ad analisi etimologiche e alla rivisitazione per il contesto italiano, che la denominazione di attività motoria, anziché fisica, meglio si addice agli aspetti motivazionali insiti negli stili di vita attivi e nella pratica educativa.

Tali riflessioni comprendono l’idea che gli stili di vita attivi, anche in termini di prassie, ovvero di gesti significativi (Le Boulch), rappresentino, in fondo, habitus (Bourdieu) la cui significazione può aiutare nell’interpretazione delle profonde differenze culturali, ancor prima che statistiche, esistenti nelle pratiche motorie. È qui opportuno citare, anche per esemplificare il doppio passo del libro che connette la riflessione teorica con la presentazione di dati, le enormi differenze nella pratica tra Paesi del Nord e Sud Europa – con l’Italia ai primi posti per sedentarietà Eurobarometro – e tra il Nord, più attivo, e il Sud del nostro Paese (ISTAT, Istituto Superiore di Sanità). Tali dati, nel testo, sono organizzati in tabelle e contengono due modelli concettuali dell’attività motoria per bambini e anziani.

Quale intenzionalità educativa possono avere gli spazi pubblici?
L’ipotesi su cui si basa il testo è che gli spazi pubblici possano essere connotati da un’intenzionalità educativa e didattica proprie e che queste possano invogliare comportamenti e apprendimenti legati al corpo in movimento.

Vi sono spazi storici che divengono luoghi perché le persone se ne sono appropriate nel corso dei secoli facendoli così divenire tutt’uno con i corpi delle persone. Jan Gehl, tra coloro che maggiormente hanno posto attenzione ad una progettazione centrata sulla persona, cita, mostrando una famosa foto, l’esempio dei paracarri in Piazza del Campo a Siena; ad ognuno di essi è appoggiata una persona, quasi fossero attrattori e ognuno delimitasse intenzionalmente uno spazio – fisico ed esperienziale – intorno ad esso. Questo rapporto tra corpo e infrastruttura, questa incorporazione dello spazio pubblico, è costante e potremmo dire intenzionale in alcuni periodi della storia dell’architettura e dell’urbanistica mentre è stato dimenticato in altri.

Noi percepiamo un’infrastruttura come distante, fredda, oppure come a nostra misura, a noi prossima, accogliente, umana. La riflessione, contenuta nel libro, basata sul pensiero di Bodei, su cosa e oggetto, risolta a favore della cosa come nodo di relazioni in cui si è implicati e come prolungamento di noi che contiene tracce umane (si pensi a quei paracarri), può aiutare a chiarire il concetto.

Ma inserire queste riflessioni nella progettazione, in ciò che ancora non esiste o in ciò che deve essere riqualificato, presuppone un ulteriore passaggio: l’assunzione dell’intenzionalità come categoria pedagogica (Bertolini) applicabile ad una cosa in assenza di una figura di riferimento, di un educatore. Il testo offre una risposta positiva a questa possibilità attraverso il concetto di vicarianza (Berthoz, Sibilio) e sulla base di alcuni criteri che, se me lo consente, tratterei in conclusione di intervista.

Come si è articolata la discussione sulla terzietà del corpo in movimento?
La ringrazio per questa domanda che ha per me anche un valore affettivo. Devo questa riflessione soprattutto ad Henning Eichberg, filosofo e sociologo danese scomparso alcuni anni fa, che ho avuto il privilegio di avere come opponent nella discussione, appunto, di dottorato presso l’Università di Jyväskylä, in Finlandia. Per alleggerire questa risposta, parto dalla fine: Henning è stato uno studioso non ortodosso (Porro), particolare anche nelle fattezze, una sorta di folletto vivacissimo con una folta capigliatura bianca. Ho sempre voluto credere che questa sua immagine spiazzante coincidesse con le sue riflessioni sul “terzo”, sulla figura che entra in gioco per sparigliare le carte in una logica, o in una competizione, troppo spesso duale, dicotomica. Per lui esisteva sempre la possibilità di “pensare il terzo” che, a volte, si presenta sotto forma del joker, del giullare che dice la verità anche facendo ridere. Amo quest’idea e gli studiosi – vari ma non tantissimi – che sanno uscire dalla logica duale: si veda, solo ad esempio, la straordinaria metafora del “terzo spazio” tra gioco e realtà di Winnicott, così semplice e complessa, o la feconda intuizione della zona di sviluppo prossimale di Vygotskij, più lineare e geniale.

Ma la riflessione di Eichberg non è una trovata estemporanea, risiede negli studi culturali comparativi da lui condotti sulla esistenza o non esistenza della dicotomia corpo-soggetto e corpo-oggetto in alcune culture compresa, sia pure in modo sfumato, quella danese. Da qui a proporre una trialettica, fu, per Henning, gioco (sottolineo questo termine perché fa parte delle logiche di spiazzamento trialettico) facile in quanto solo affrontandone le contraddizioni, individuandone i ruoli egemoni, si può identificare una terza prospettiva che, paradossalmente, rende possibile leggere le incoerenze. Solo “pensando il terzo […] si può andare oltre l’esistente normalità […] evitando di costringere i fenomeni in contenitori”.

Ed ecco, allora, che la terzietà del corpo è quella che risiede tra il sé e l’altro da sé, in uno spazio (il gioco, la danza, l’espressione) in cui il corpo è un inter-body. Nel libro ho ampliato questo concetto, esplicitandolo anche con diverse immagini, alla quotidianità di anziani che, a braccetto si sostengono a vicenda, all’emozionante ricordo dell’anziana con enormi difficoltà motorie che a Lisbona riesce ogni giorno ad attraversare la pur stretta strada del centro solo con l’aiuto del negoziante (e qui si potrebbe discutere a lungo sull’importanza dei negozi di vicinato per gli stili di vita attivi) o alla figura del corpo sociale, agglutinamento spontaneo di centinaia di corpi che si incontrano per fare jogging sulla spiaggia di Dakar.

In che modo intorno ai temi del corpo in movimento e della sostenibilità urbana si intrecciano discipline diverse come Scienze del movimento umano, Pedagogia, Urbanistica e Mobilità urbana?
Proprio la visione integrale della persona, che si deve soprattutto alla riflessione di Bertagna, rende necessaria una visione, come minimo, interdisciplinare. Sono le fenomenologie minime che vanno osservate nel momento in cui si voglia progettare avendo in mente l’integralità della persona. Le persone incontrano, o spesso si scontrano con, le logiche disciplinari ogni giorno. Quando un bambino esce di casa, ad esempio, se potrà essere autonomo nel percorso verso scuola, lo farà sempre mettendo in atto comportamenti attivi ma se il quartiere in cui abita non è progettato intenzionalmente a misura di persona (sicuro, con marciapiedi e piazzette in cui incontra altri compagni e attraversamenti protetti), allora questo percorso verrà verosimilmente effettuato in auto, accompagnato da un adulto. Se un genitore sceglie una scuola lontana da casa, la scelta del mezzo di trasporto è già scontata (Macket), ma se la scuola sarà sufficientemente vicina, allora potrà, se lo vuole, accompagnare il bambino a piedi o in bicicletta. Ma queste abitudini di mobilità che si combinano con le infrastrutture sono, anche, un portato dell’educazione del bambino e, ci sia consentito, della cultura della famiglia. Se, ad esempio, la scuola, insieme con l’ente locale, avrà negli anni sviluppato azioni di pedibus e interventi sui percorsi sicuri casa-scuola, allora sarà più facile che si metta in atto una mobilità attiva, uno dei primi fattori di sostenibilità urbana. Lo stesso vale per un anziano, come abbiamo visto poco fa anche di una persona con gravi limitazioni motorie, che possa trovare i principali servizi nei dintorni di casa. Lo stesso vale per chiunque voglia godere del proprio quartiere facendo una passeggiata o praticando sport. La presunta novità delle “città dei quindici minuti” (in cui i servizi sono a breve distanza dalle abitazioni), risale in realtà a cento anni fa e non è altro che la trasposizione di una città a misura del corpo, come da tempo sosteniamo (Borgogni e Farinella, Dorato). È chiaro che la progettazione, tuttavia, debba pensare in primo luogo ai corpi fragili, più esposti ai rischi della città e in particolare del traffico.

Quali principî e criteri devono informare una progettazione integrale degli spazi?
Una progettazione centrata sulla persona non può che essere integrale: dovrebbe, infatti, produrre spazi di senso e di funzione che assumano significati ed evitino la ripetizione di standard banalizzanti, di estetismi presenti solo nella mente del progettista, o di un eccessivo riempimento che occulta logiche economiche.

Integrale, rispetto alla progettazione di spazi, significa che quello spazio deve poter accogliere le esperienze significative, di unità della persona, della cultura, dell’ambiente, della comunità di vita, le antropologie, le storie di ciascuno e di tutti (Bertagna).

Nel libro si fa riferimento allo Universal Design e ad Alexander per le “qualità senza nome e senza tempo”. Tale qualità “non può essere costruita ma è unicamente generata dalle azioni delle persone, proprio come un fiore non può essere costruito ma solo generare dai semi”. Alexander parla di un “fuoco che si autoalimenta” per cui ogni luogo deriva il suo carattere da certe sequenze di eventi che continuano ad avvenirvi e che sono intrecciate con alcuni schemi geometrici nello spazio: eventi e micro-eventi (Goffman) umani che si influenzano reciprocamente con le infrastrutture-cose. Ognuno di noi vive quotidianamente l’esperienza di spazi pubblici che hanno questa qualità e questo fuoco: sono quelli in cui ci sentiamo accolti e che ci trasmettono benessere.

Altro aspetto importante, sempre sul piano dei principî, è la considerazione dei tempi e dei ritmi della città. I tempi secolari della durata di un’infrastruttura e della modifica e molteplicità di usi degli spazi ci consentono di affermare che nessuno avrebbe potuto prevedere che le bordure della pelouse dei Giardini del Lussemburgo a Parigi sarebbero diventati appigli per fare esercizi addominali o le tubature nel basamento del Centre Pompidou barre per potenziare le braccia. Nessuno può prevedere i ritmi degli accadimenti descritti nel libro in un racconto di Zadie Smith. Vari esempi di appropriazione informale e di diversificazione dei tempi riguardano anche Bergamo, città in cui da pochi anni abito.

Il primo criterio riguarda la partecipazione nella progettazione, per fare sì che gli spazi vengano sentiti come propri e si trasformino in luoghi anche perché le persone hanno potuto esprimere il proprio parere sui loro spazi di vicinato e, pertanto, di vita.

Il secondo riguarda il binomio stretto/lasco (tight e loose da Franck e Stevens) ovvero la costruzione di spazi che contengano molte possibilità di azione e che lascino libertà alla fantasia e alle necessità di uso future da parte di chi li frequenta; quando uno spazio è monofunzionale consente solo determinati tipi di comportamenti risultando escludente per altre persone. Il volume contiene molti esempi importanti di spazi pubblici che sono anche adattabili, flessibili, porosi (Benjamin e Lācis): dalle banchine della Senna a Parigi all’ex aeroporto di Tempelhof a Berlino, in cui non si è costruito per volontà degli abitanti, divenuto il più importante luogo per la ricreazione e lo sport della città.

Il terzo criterio è, non sembri banale, il fatto che gli spazi siano invitanti ovvero invitino le persone sulla base di due sottocriteri. Vi sono, infatti, spazi che inducono determinati comportamenti “primari” (una panchina invita a sedersi, uno scivolo a scivolare) ma anche “secondari”, più o meno impropri: sulla panchina ci si può stendere o usare la spalliera per appoggiarsi, sullo scivolo i bambini, dopo l’uso primario, mettono subito in atto la salita al contrario. Altri spazi, invece, ed ecco il secondo sottocriterio, sono invitanti ma ambivalenti e, in alcuni casi fonte di conflitto tra comportamenti e, più o meno presunte, normative. Nel testo si fa l’esempio del rapporto dei bambini con l’acqua (cui è dedicato un paragrafo a parte trattando di Piazza Gae Aulenti a Milano e di Parc Citroën a Parigi, da cui è tratta l’immagine di copertina) ma anche di situazioni e strutture imprevedibili quale l’attrazione dei bambini per i blocchi di cemento ricoperto all’ingresso della zona pedonale di Bergamo o il loro desiderio di arrampicarsi su monumenti ma, anche, l’appropriazione di campi da basket a Parigi da parte di gruppi di anziani per praticare tàijíquán.

Jan Gehl individua nella protezione (riduzione della paura del traffico), nel comfort (maggiori opportunità di mobilità dolce, riduzione del rumore) e nel piacere (spazi a dimensione umana, estetica, esperienze sensoriali) tre ambiti che riuniscono criteri di qualità urbana. Sono ambiti squisitamente percettivi, connaturati alla nostra esperienza, che fanno sì che più facilmente svolgiamo attività motoria negli spazi pubblici esistenti ma che si tramutano, anche, in criteri progettuali. Secondo Gehl, proprio le caratteristiche delle città europee possono più facilmente accogliere questi criteri progettuali.

Questi principî e criteri, mi sia consentito tornare ai temi pedagogici, dovrebbero condurre verso l’idea di una città educat(t)tiva in cui i cittadini – non solo i bambini – possano apprendere e socializzare muovendosi in un contesto accogliente che richiama l’idea di maternage urbano.

Una visione progettuale transdiciplinare, insomma, che promuove urbanità nell’urbano e in cui pensare e percorrere la città costituiscano esperienze indissolubilmente umane.

Antonio Borgogni, pedagogista, PhD in Scienze sociali dello sport presso l’Università di Jyväskylä, dedica la sua ricerca e i suoi scritti a tematiche interdisciplinari originali riguardanti la relazione tra corpo e spazio pubblico nella prospettiva delle città attive, la sostenibilità delle didattiche, i diritti “inavvertiti” dei bambini. Afferisce al Dipartimento di Scienze Umane e Sociali dell’Università degli studi di Bergamo.

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