
Quale classificazione è possibile fare degli insulti, a seconda delle diverse prospettive di analisi?
È possibile catalogare gli insulti rispetto a differenti angolature di studio. L’insulto può essere analizzato sul piano puramente linguistico e inquadrato a seconda del significato, basti pensare alle sfere semantiche della sessualità, dell’amoralità, della deprivazione sociale e intellettuale e delle caratteristiche psicofisiche dell’individuo. Oltre alla classificazione sulla base dei significati, è possibile valutare le strutture linguistiche, l’utilizzo di suffissi e di prefissi (come “subumano” o “professorone”), il ricorso a forme idiomatiche (come “testa di cazzo”), ecc.
Inoltre, è opportuno analizzare anche il piano pragmatico, ovvero l’insulto come viene prodotto intenzionalmente e recepito dal bersaglio e dai soggetti terzi.
Che forme assume l’insulto nelle pratiche di cyberbullismo?
Non è infrequente imbattersi nella considerazione che la quantità e la ricorrenza di insulti all’interno delle pratiche comunicative oggi sia più significativa rispetto al passato e questa riflessione è ben testimoniata all’interno del senso comune. La correlazione fra il clima di aggressività e l’aumento esternalizzato di insulti, d’altronde, è ben attestata all’interno della letteratura scientifica di carattere sociale.
L’aspetto che caratterizza l’insulto mediato da piattaforme social è la velocità di diffusione e di raggiungimento delle masse, con conseguenze molto negative sul bersaglio, perché si manifesta in forma più violenta a causa della possibilità di visualizzazione da parte di un pubblico vasto, della velocità di trasmissione del messaggio e dell’assenza o dell’inadeguatezza di un meccanismo di controllo e di moderazione automatizzata. La violenza e la specificità dell’insulto all’interno dei social media rappresenta una delle tematiche à la page per quanto concerne il Consiglio d’Europa, il quale da un lato denuncia la mancanza di definizioni universalmente condivise, soprattutto a livello comunitario, e dall’altro manifesta una necessità di maggiori ricerche scientifiche e di azioni di contrasto. Dal mio punto di vista, l’interdizione linguistica è profondamente variabile sia a seconda della dimensione diatopica, in quanto a seconda delle diverse società variano i tassi e gli oggetti relativi alla tabuizzazione, sia a seconda di quella diacronica, poiché nel corso del tempo cambiano i tipi di interdizione. Proprio la dimensione temporale rende fondata l’ipotesi di inadeguatezza del mero ricorso al turpiloquio, in merito alla descrizione degli insulti, dal momento che qualsiasi parola può assumere una connotazione negativa e operare pragmaticamente come insulto, a seconda di come venga recepita dai bersagli o dai soggetti che partecipano all’evento comunicativo.
Una ricerca degli anni Novanta mette in luce come nella parte meridionale dell’Italia l’insulto sia riferito all’ambito relazionale, alla sessualità e alla morte dei famigliari (es. “figlio di puttana”, “cornuto”, “ricchione”), mentre nella parte settentrionale prevarrebbero insulti connessi con la dimensione personale (es. “piciu”, “pirla”). I dati della ricerca paiono ormai datati e occorrerebbe verificarne l’attendibilità all’interno della contemporaneità, caratterizzata indiscutibilmente da un maggior passaggio di informazioni e da un livello più ampio di interazione fra individui di provenienze differenti. Oltre ai fattori puramente spaziali e temporali, un’altra dimensione da considerare, per quanto concerne la variazione delle interdizioni, è la diastratia, ovvero la dimensione dei gruppi sociali. Quest’ultimo fattore è significativo per quanto riguarda il meccanismo che porta alla scelta dei termini insultanti e dei valori disattesi che tali termini portano con sé, generalmente a opera dei gruppi dominanti.
L’insulto diviene così un mezzo comunicativo efficace per delegittimare un avversario e, in senso più ampio, per costruire il consenso.
L’insulto prodotto all’interno di una piattaforma digitale utilizzata dalle masse può contenere tanto l’aspetto ingiurioso quanto quello diffamatorio perché è simile a quello de visu, ma a differenza di quest’ultimo, non gode della possibilità della negoziazione e della mitigazione. Se già nel contesto dialogico reale la mitigazione è ridotta al minimo, poiché l’insulto, come atto linguistico ostile, rompe la collaborazione fra gli interlocutori, in quello mediato dalla piattaforma social la distanza aumenta ancora, amplificando l’ostilità.
Le piattaforme social generalmente adottano delle strategie di autoregolazione e si servono di software specifici che utilizzano in buona misura algoritmi. Tuttavia, come denunciato da alcuni studiosi, i meccanismi di controllo riportano limiti vistosi, in parte a causa degli organismi, sovente facenti parte della stessa organizzazione per la quale lavorano e in parte a causa della variabilità linguistica e del concetto stesso di insulto, evidentemente non sempre legato al turpiloquio e alla funzione denigratoria in senso stretto. Infatti, esistono diversi modi per aggirare la censura automatica, il più semplice dei quali è oscurare graficamente la parola/espressione tabuizzata alterandone in parte la forma o ricorrendo a usi figurati e metaforici. Inoltre, una parte delle segnalazioni di tali applicazioni e degli utenti vengono valutate da una comunità di decisori, che ha il compito di stabilire se un contenuto sia lecito o meno. La decisione, pertanto, spesso è affidata agli organi della compagnia stessa e, in senso più stretto, a valutazioni individuali.
Sulla base di queste premesse, è stata condotta un’indagine nel corso del secondo semestre del 2020 relativa alla presenza e alla tassonomia degli insulti diffusi attraverso le piattaforme sociali.
I risultati sono stati disseminati all’interno del convegno organizzato dal Dipartimento di Scienze Umane e dell’Innovazione per il Territorio, dell’Università degli Studi dell’Insubria, in merito alla Giornata nazionale contro il bullismo e il cyberbullismo, il 06/02/2021 a Varese.
Si tratta di una ricerca condotta su un campione di adolescenti, riguardo alla presenza di espressioni ingiuriose all’interno delle piattaforme Instagram, TikTok, Facebook e del suo sistema di messaggistica integrato (Messenger). Le espressioni insultanti sono state analizzate e discusse all’interno del libro.
Che ruolo può svolgere l’educazione linguistica, rispetto all’insulto, per quanto concerne la scuola e la comunicazione pubblica?
Ritengo che tutte le lingue del mondo possiedano parole ed espressioni per insultare e le lingue con un repertorio più ricco riflettono tanto l’aggressività quanto la propensione al conflitto delle comunità dei propri parlanti. Inoltre, costituisce un aspetto della lingua certamente interessante, poiché è uno dei pochi elementi della cultura a essere tanto biasimato e riprovato quanto utilizzato.
La ricerca descritta nel libro mostra come l’insulto non rappresenti solamente l’espressione dell’odio, come non sia riferito solamente all’utilizzo del turpiloquio e come non sia costituito banalmente dalla mera selezione delle parole. L’insulto identifica un dispositivo linguistico efficace e potente, un aspetto significativo delle possibilità espressive della lingua.
La presenza degli insulti all’interno delle culture rientra all’interno delle pratiche di aggressività verbale e tale fenomeno è osteggiato dalla morale, ma è fortemente promosso in forma latente all’interno della socializzazione.
La percezione dell’insulto cambia nel corso del tempo e la dimensione linguistico-educativa, pertanto, è significativa per due motivi. In primo luogo, consente di disseminare gli esiti delle ricerche scientifiche a chi si occupa di comunicazione di massa e di formazione e, in secondo luogo, incrementa lo sviluppo tanto dello spirito critico degli individui quanto quello della loro competenza metalinguistica, ovvero della capacità di formulare riflessioni pertinenti e corrette sui fatti della lingua.
Se si libera l’insulto dalla marginalizzazione operata per mezzo della tradizione, all’interno delle pratiche glottodidattiche e della formazione accademica, sarà possibile analizzarlo e valutarlo come accade per gli altri fatti della lingua, apprezzandone la dimensione diacronica e il ricorso sulla base di situazioni comunicative specifiche. Non si intende promuovere l’insulto in maniera anarchica, ma offrire all’individuo la possibilità di ragionare concretamente sulle espressioni linguistiche alle quali ricorre, esaminando eventuali usi discriminatori nei confronti delle minoranze.
Inoltre, che le direttive imposte dall’alto fatichino a concretizzarsi in un processo di normalizzazione linguistica non è un mistero per chi si occupa dello studio dei fatti di lingua: raramente un’imposizione relativa agli usi linguistici si è concretizzata nella disponibilità delle comunità a seguire l’indicazione e, accade più di frequente, che l’esito sia completamente contrario. Nell’insulto e nel turpiloquio, l’azione di censura prodotta dalle famiglie nel corso della socializzazione primaria, dalla scuola e dalle altre istituzioni sociali ha prodotto scarsi effetti, dal momento che entrambi rappresentano alcuni tra aspetti più evidenti della lingua. Per di più, il fatto che l’insulto trova un posto all’interno della costellazione degli usi linguistici e delle forme espressive lo rende un aspetto della lingua degno di studio, di riflessione e di didattizzazione in merito alle pratiche scolastiche.
La distinzione della comunicazione pubblica da quella privata, rispetto alle pratiche di insegnamento, permette di formare e di consolidare nel parlante una piena capacità di riflettere sulla lingua e sulle scelte linguistiche più appropriate rispetto a ogni contesto, individuando i potenziali fattori problematici.
Il punto di partenza per innescare il cambiamento è proprio operare in merito alla formazione del personale docente e di chi si occuperà di comunicazione massmediatica, all’interno dei percorsi universitari. Bisognerebbe avviare riflessioni critiche e percorsi di ricerca proprio negli insegnamenti di linguistica generale, di linguistica italiana, di filosofia del linguaggio, di semiotica e di glottodidattica per promuovere la consapevolezza sui fatti della lingua. Tali pratiche si rifletteranno certamente in azioni didattiche rivolte a ordini di istruzione inferiore, con il proposito di analizzare i fenomeni linguistici a seconda di una prospettiva laboratoriale. L’uso consapevole dell’insulto o – meglio – lo sviluppo della competenza denigratoria dovrebbe costituire un aspetto della programmazione linguistica, giacché nella programmazione non si inseriscono le scelte valoriali dei singoli individui, ma gli elementi necessari affinché un apprendente sviluppi la competenza comunicativa. Il divieto del ricorso all’insulto e al turpiloquio, tipico della tradizione scolastica, deve evolvere in un utilizzo consapevole della lingua, rispetto alle più svariate situazioni comunicative. Oltre agli aspetti menzionati, occorrerebbe anche lavorare sulle pratiche di mitigazione e di gestione degli insulti, in quanto oggetti potenzialmente disinnescabili. In conclusione, non è possibile fingere che l’insulto non esista, continuando a perpetuare modelli didattici tradizionali che lo ignorano e lo censurano, senza che vi sia posta alcuna attenzione scientifica.
È proprio nell’educazione linguistica la chiave per rompere la tradizione e la sacralità dell’insulto, rendendolo una scelta espressiva come tante altre, con un ventaglio di conseguenze prevedibili. Tornando al titolo del libro, l’insulto rappresenta tanto le parole dell’odio quanto quelle dello scherzo e dell’espressione dell’affettività e delle emozioni, costituendo una parte fondamentale del patrimonio linguistico.
Paolo Nitti è Professore a contratto di Linguistica italiana all’Università degli studi di Torino