
Le risposte che sono state date a questo interrogativo hanno rinviato innanzi tutto al fatto più noto che gli ebrei cadevano sotto la giurisdizione inquisitoriale nei casi di peccati/reati contro le credenze comuni con i cristiani, come l’unicità e onnipotenza di Dio o l’esistenza di demoni e angeli, e nei casi di bestemmie di offesa e disprezzo nei confronti dei nomi, delle immagini della vera fede e dei rituali cristiani (contemptus fidei): dunque magia e stregoneria erano gli ambiti n cui era più facile imbattersi in reati degli ebrei; ma pure relazioni sessuali con cristiane/i, bigamia, poligamia erano reati frequenti che, se scoperti o denunciati, davano luogo a procedimenti giudiziari. Nel mio volume Legami pericolosi. Ebrei e cristiani tra eresia, libri proibiti e stregoneria (Torino, Einaudi, 2012) ho spiegato ampiamente questi meccanismi. In ogni caso, una volta avvenuta l’equiparazione di fatto tra ebrei ed eretici era chiaro che le accuse per cui potevano essere sottoposti al tribunale dell’Inquisizione erano numerose, di spettro sempre più ampio e suscettibili di ulteriori allargamenti.
Tuttavia un altro aspetto, non segnalato dagli storici benché sia di grande rilevanza anche per la storia generale, spiega l’equiparazione di fatto – ma non di diritto – degli ebrei agli eretici. Alludo a alla questione dei libri ebraici, considerati eretici e pericolosi a partire dall’odiatissimo Talmud, condannato al rogo, e dai libri rabbinici e cabbalistici. Le bolle di Gregorio XIII, Antiqua Iudaerum improbitas del 1581, e di Clemente VIII del 1593, Cum Haebreorum malitia, prevedevano che contro i libri degli ebrei fossero gli inquisitori a procedere, a requisire, censurare e eventualmente distruggere. Da ora in poi i lettori dell’eretico Talmud e dei libri cabbalistici sarebbero stati trattati come eretici. Poiché distruggere i libri ebraici significava distruggere l’ebraismo e rimuovere i principali ostacoli alla conversione, è sul problema dei libri che si avvia e si amplia il rapporto tra Inquisizione ed ebrei. Indici dei libri ebraici da proibire o da espurgare furono redatti a cura e per commissione non della Congregazione dell’Indice, come sembrerebbe logico, bensì dell’Inquisizione romana, che li elaborava finalizzandoli esplicitamente all’uso degli inquisitori locali. Un fatto, questo, che non solo conferma l’intrinseca ereticità di quasi ogni genere di testi di fattura ebraica, ma rivela anche come la distinzione spesso e a torto postulata tra libri proibiti (di competenza del Sant’Ufficio) e libri espurgabili (di competenza dell’Indice), dunque tra eresia e non eresia degli autori, non valesse per gli ebrei. Era infatti l’Inquisizione che ordinava le periodiche perquisizioni nei ghetti per portarne via i libri; era l’Inquisizione che si occupava di farli esaminare da fidati collaboratori, per lo più convertiti e spesso domenicani; era l’Inquisizione, infine, che faceva redigere gli Indici, manteneva i contatti con i revisori ed emetteva i decreti di proibizione che solo successivamente, senza alcuna discussione in proposito, venivano trasmessi alla Congregazione dell’Indice. L’iniziativa appare sempre del Sant’Ufficio mentre l’Indice svolse una funzione secondaria. Non sembra dunque esserci stata dialettica, concorrenza o conflitto tra le due Congregazioni in materia ebraica, un campo che, nel suo complesso, si rivela essere monopolio incontrastato dell’Inquisizione e che resterà tale fino all’Ottocento. In tal modo dal libro ebraico, “eretico” per eccellenza, il Talmud (ma non solo), si passa ai lettori e proprietari, anch’essi eretici e da perseguire, dato il divieto di possesso di gran parte dei loro libri.
Sul piano storiografico, la mancata acquisizione del nesso tra ebraismo e eresia e delle conseguenze che esso implica ha comportato in primo luogo il non inserimento degli ebrei e dei loro libri tra le attribuzioni dell’Inquisizione e nella categoria di eresia; ma soprattutto ha fatto venire meno una riflessione sulle ragioni di tale “dimenticanza” e sui suoi effetti sul piano della ricostruzione storica. Questo atteggiamento storiografico risale alla separazione tradizionale, ancora in atto in Italia, tra storia degli ebrei e storia generale. La storia degli ebrei ha costituito un campo disciplinare a lungo ignorato e considerato un settore a sé, a parte, in definitiva marginale e irrilevante per i non ebrei e per la storia generale. Dunque come solo “storia degli ebrei”. Per troppo tempo la storia ebraica non è stata presa in considerazione nella ricostruzione complessiva di specifici fenomeni storici, come se gli istituti, le norme e le pratiche degli ebrei, in ogni campo, non abbiano interagito strettamente con le trasformazioni generali della società di età medievale, moderna e contemporanea, spesso perfino condizionandole.
Questo atteggiamento di rimozione ha creato perciò diversi vuoti: ad esempio, quanto alla storia del libro, della circolazione e diffusione libraria, della requisizione e censura, dei prestiti e degli scambi tra ebrei e cristiani. Non sono vuoti da poco. Il Giornale di storia che dirigo (www.giornaledistoria.net) ha cercato di ovviare a queste carenze e si è spesso occupato di questa materia e vi si possono trovare numerosi articoli sull’Inquisizione.
Quali accuse erano rivolte agli ebrei?
A parte la questione dei libri – letti, scritti, posseduti e nascosti – le accuse di eresia che portavano gli ebrei davanti ai tribunali delle Inquisizioni, quello centrale a Roma e i provinciali, erano numerose. La bolla papale del 1581 elencava ben 12 reati contro la religione, in ordine di gravità, sui quali gli inquisitori dovevano intervenire. In primo luogo si collocava la negazione dell’unicità, eternità e onnipotenza di Dio, ma subito dopo era elencato il secondo reato: magia e stregoneria. Seguivano altri gravi delitti: l’invocazione e la consultazione dei demoni per divinazione, esorcismi o altro fine, l’insegnamento ai cristiani di «cose nefande», la messa in discussione o in ridicolo di punti di fede precipui alla fede cristiana (contestazione della divinità di Gesù Cristo e della verginità della Madonna, offesa all’eucaristia e bestemmie ereticali), l’opera di convincimento rivolta ai cristiani e ai neofiti affinché abbandonassero la loro fede e rinunciassero al battesimo, la proprietà e la divulgazione di libri proibiti, «eretici o talmudici», l’utilizzazione di nutrici cristiane per i bambini ebrei, l’invocazione dei demoni o la divinazione, l’irrisione dell’ostia e la diffusione di tali pratiche fra i cristiani, l’eccessiva frequentazione di questi ultimi. Le pene previste potevano essere anche molto gravi, dalla semplice abiura al remo nelle galere, anche in perpetuo, all’esilio. Erano tutti reati che si possono in generale inscrivere nelle categorie della bestemmia ereticale, della magia, del proselitismo e della sollecitazione alla regiudaizzazione dei convertiti e all’apostasia: in una sola espressione, delitti che possono rientrare nella casistica di ciò che sarebbe stato in seguito definito il contemptus fidei. Delitti, inoltre, che rinviavano agli insegnamenti contenuti nei libri pericolosi che, come il proibito Talmud, occorreva togliere dalle mani degli ebrei.
Come nacque l’immagine dell’ebreo stregone?
Senza soffermarsi sui primissimi tempi del cristianesimo, dove ad esempio si staglia nel Nuovo Testamento e presso gli antichi scrittori cristiani la figura di Simon Mago (Atti VIII, 9-24), agli ebrei era tradizionalmente, da molti secoli, e unanimemente riconosciuta come normale e «naturale», intrinseca alla loro stessa identità, un’abilità particolare in materia di divinazione, negromanzia e magia; perciò i loro libri «diabolici» andavano accuratamente esaminati e vietati, sia per evitare contaminazioni o influssi all’esterno del mondo ebraico sia per scongiurare il pericolo che fossero usati – e trasmessi attraverso l’insegnamento – dagli ebrei stessi per nuocere ai cristiani. L’accusa di magia e stregoneria è inestricabile da quella dell’uso dei libri sospetti di eresia che di quelle pratiche magiche erano il fondamento.
Il nesso tra ebraismo e magia è stato però per lo più trascurato – e perfino negato – dagli storici e in particolare dagli studiosi dell’Inquisizione. Gli studi sulla stregoneria, la magia e i sortilegi in età moderna, pure recentemente rifioriti e rinnovati in Italia, soprattutto sul piano dell’analisi delle procedure e delle competenze giurisdizionali, non si sono troppo soffermati sul collegamento tra tali pratiche e l’ebraismo e sulle ragioni dell’interesse palese dei giudici cattolici nei confronti della magia e della stregoneria ebraiche. In questo campo, la separazione evidente tra la storia degli ebrei e la storia generale nazionale non segnala soltanto un problema storiografico, vale a dire la mancata consapevolezza della interazione storica tra le due vicende e la persistenza di tale atteggiamento, ma, quel che è più grave, induce a una debolezza interpretativa che nasce dal trascurare uno degli elementi in gioco in materia di magia. Le pratiche magiche, vere o supposte, degli ebrei sembrano costituire invece un dato importante per la comprensione di quelle dei cristiani nonché delle scelte e delle modalità di repressione di entrambe. È al fine di ricostruire un quadro più articolato e complesso della questione stregoneria in generale e del significato della sua repressione che nel mio libro Legami pericolosi, sopra citato, ho scelto di soffermarmi sulla assai poco nota documentazione relativa ai procedimenti per stregoneria riguardanti gli ebrei, magari con complici cristiani, di cui abbiamo abbondanti esempi. Anche la fabbricazione di amuleti da parte degli ebrei, che vendevano o scambiavano con i cristiani oltre che con i correligionari, ci dimostra lo scambio culturale costante dai due popoli.
Sono esempi trascurati che confermano la tendenza ancora diffusa, e di cui ho parlato sopra, a considerare la storia dei rapporti tra maggioranza cristiana e minoranza ebraica (ma direi ogni altra minoranza, ad esempio la valdese o musulmana) come marginale e irrilevante per i non ebrei, La separatezza quasi istituzionalizzata esistente in Italia tra la storia degli ebrei e la storia generale della penisola – due storie che dialogano a stento – fa sí che gli ebrei, e le altre minoranze, diventino «invisibili», sul piano storico, «ombre» o «specchi» dei cristiani, alla cui vicenda, sacra e profana, sono funzionali. E se sono invisibili non esistono. Ma, così operando, si trascurano le indicazioni e i suggerimenti che possono venire dalle “storie intrecciate” per la ricostruzione storica generale: in particolare, quanto al tema della magia e della stregoneria, quel che è più grave è che la separazione tra le due storie induce a una debolezza interpretativa sull’argomento che nasce dal trascurare uno degli elementi in gioco in materia di magia. Le pratiche magiche, vere o supposte, degli ebrei sembrano costituire invece un dato rilevante per la comprensione di quelle dei cristiani nonché delle scelte e delle modalità di persecuzione di entrambe.
Negli archivi si conservano infatti diverse tracce della frequentazione tra ebrei e cristiani finalizzata a riti magici, sortilegi e a incantamenti operati in comune, nonostante i divieti di tali pratiche costantemente reiterati nel tempo, e molte prove della virtù intrinsecamente magica della lingua ebraica, dei suoi caratteri come delle parole. Il famoso rabbino veneziano del Seicento, Leon Modena, nell’autobiografia ricorda di aver scritto e venduto, anche a cristiani, libri di sortilegi e di avere insegnato a fare «stregonerie» e amuleti. E raccontava di essersi rivolto per avere il proprio oroscopo a quattro astrologi, due ebrei e due cristiani, e che il figlio Mordekhaj aveva appreso «l’arte dell’alchimia» da un prete cattolico, in casa del quale si facevano esperimenti per ottenere argento puro.
Perché i rapporti sessuali e ogni altra relazione tra ebrei e cristiani erano proibiti?
D’altro canto, le abilità magico-diaboliche degli ebrei erano sospettate di favorire la concupiscenza dei maschi nei confronti delle donne cristiane inducendole a vietatissimi, innaturali e scandalosi rapporti anche sessuali : i teologi suggerivano un castigo esemplare e definitivo per l’ebreo scoperto in flagrante rapporto con una cristiana, proponendo perfino la pena di morte. Diritto canonico e diritto civile stigmatizzavano ogni forma di mescolanza di ebrei e cristiani, tra cui il commercio carnale (damnatio commixtionis) fin dal I Concilio Lateranense (1215). Del resto un simmetrico divieto era espresso dalle autorità ebraiche: in entrambi i casi dominava la paura della contaminazione. Di non poco conto era pure la questione dell’identità di eventuali figli nati da tali rapporti.
Le fonti, soprattutto ma non solo inquisitoriali, rivelano l’alto livello di frequentazione e di relazioni tra ebrei e cristiani dei due sessi. Gli ebrei si recavano tranquillamente a casa di «zitelle» cristiane e trattavano perfino con monache, entrando nei loro monasteri per concludere affari vari. Era dunque possibile che tali rapporti potessero svilupparsi in relazioni amicali, affettive e perfino amorose. In realtà, non erano numerosissimi i casi di donne cristiane che abbandonavano la propria fede per amore di un ebreo, mentre assai più frequenti erano i casi contrari, di ebree che si univano a cristiani. Molto spesso però anche i maschi ebrei riuscivano a sedurre le donne cattoliche con regali e promesse, in particolare prospettando loro una posizione economica migliore. Si verificava talvolta perfino una situazione, condannata da entrambe le parti,
che configurava unioni, convivenze stabili o una sorta di «matrimoni» misti, in quell’epoca impensabili e passibili di pene gravissime fino alla di morte. Nel fondo del Sant’Uffizio non sono pochi gli incartamenti
che trattano dei rapporti intimi e sessuali intercorsi da sempre tra ebrei e cristiani. Episodi simili si trovano documentati ovviamente anche in archivi diversi. Ad esempio, quanto a Roma, presso l’Archivio di Stato, all’interno di un elenco di pene pecuniarie comminate dal governatore di Roma negli anni 1517-18, quindi prima della nascita della Congregazione del Sant’Uffizio e anche prima dell’istituzione del ghetto, troviamo un Sabbatuccio ebreo che venne condannato alla pesante multa di 25 ducati d’oro per aver «conosciuto carnalmente» alcune donne cristiane. Sempre nel XVI secolo e sempre a Roma, un Salvatore Ricciotto ebreo venne accusato di essere uscito di notte dal ghetto con ancora il berretto in capo per recarsi a casa di una certa Maddalena, di avere cenato da lei con altri cristiani e trascorso ivi la notte, «conoscendo carnalmente» la stessa Maddalena. Si tratta di vicende giudicate dal tribunale «secolare»: ma occorre tener conto del fatto che esse si svolsero prima della nascita della Congregazione della Sacra Inquisizione e prima della riorganizzazione disciplinare post-tridentina. Successivamente, infatti, non esistette piú dubbio che le competenze fossero non solo del foro ecclesiastico, ma in particolare del tribunale del Sant’Uffizio. I crimini sessuali – come l’adulterio, il concubinato, la bigamia, la sodomia – pur essendo di misto foro, cioè di competenza sia del giudice ecclesiastico sia di quello secolare, quando coinvolgevano nello stesso tempo ebrei e cristiani, e dunque delicate questioni di fede, non potevano che ricadere nella sfera giurisdizionale ecclesiastica e dell’Inquisizione in particolare.
Quanto alle pene, una volta escluso che il commercio carnale fosse dovuto a odio e disprezzo per la fede cristiana e a irrisione al sacramento del matrimonio, ma solo a libidine, esso, come anche il concubinato, prevedeva punizioni modeste, ma maggiori nel caso della coabitazione continua. Se però scattavano anche i reati più pesanti di adulterio, di bigamia e di apostasia le pene erano maggiori, pecuniarie e afflittive, talvolta fino alla galera e alla morte. I casi ritrovati ci offrono soprattutto la possibilità di constatare quanto diffusi fossero i legami amorosi e sessuali tra ebrei e cristiani e quanto poco influisse su di essi la normativa che li vietava e puniva anche severamente.
Come veniva sanzionata la lettura dei libri ebraici proibiti?
Come si evince dalla prima risposta, la lettura e il possesso dei libri ebraici proibiti davano luogo a requisizioni, esami, convocazioni e interrogatori presso il Tribunale inquisitoriale e a sanzioni varie. Molto spesso i libri, anche quelli innocui, non venivano restituiti ai proprietari e per lo più erano distrutti o consegnati a biblioteche cattoliche: e questo costituiva per il proprietario oltre che un danno affettivo e culturale, anche una perdita economica ingente, dato il valore dei libri in quanto oggetti costosi. Le sanzioni varavano a seconda del pericolo costituito dal libro – ad esempio il Talmud –, della sua messa in circolazione e delle complicità. In diversi processi da me ritrovati nell’archivio dell’Inquisizione romana, le pene variavano da ammende pecuniarie, ad ammonizioni, all’abiura, alle cosiddette “penitenze salutari” (preghiere, elemosine, digiuni) agli arresti domiciliari, al carcere; in casi particolarmente gravi era comminata la galera, cioè la pena del remo da scontare sulle navi. Talvolta veniva usata la tortura.
Quanto ai libri e alla detenzione di quelli proibiti, non è stato notato dagli storici come il pontefice Giulio III, autore dei decreti di grazia di cui tratto più avanti, avesse emanato il 29 maggio 1554, solo un anno dopo il celebre rogo del Talmud organizzato a Roma, in Campo de’ Fiori (1553), e un anno prima dell’instaurazione del ghetto nella città (1555), la bolla Cum sicut nuper diretta “contra haebreos retinentes libros Thalmudi et alios…”. Il provvedimento, in riferimento particolare al Talmud, comminava a chi trattenesse presso di sé tali libri pene severissime che andavano dalle multe alla confisca dei beni fino alla pena capitale nei casi di recidiva ed equiparava gli ebrei che li detenevano agli apostati dalla fede cristiana. In materia di libri «anticristiani» e di ebrei che li conservavano e li leggevano, dunque, la normativa era durissima.
Come si esplicava l’intervento del Tribunale ecclesiastico nei confronti degli ebrei?
In generale il tribunale ecclesiastico inquisitoriale interveniva o dietro autodenuncia del reo o sospettato, secondo l’istituto giuridico cosiddetto della spontanea comparitio, oppure per denuncia di altri o per denuncia di ufficio. La presentazione spontanea davanti al tribunale per ammettere la propria colpa implicava una pena assai minore e questo dato era ben conosciuto sia dagli ebrei che dai cristiani che dunque utilizzavano l’autodenuncia consapevolmente. La confessione spontanea dava diritto alla procedura detta sommaria, con modalità più semplici, rispetto al processo formale, e più favorevoli all’inquisito. Spesso questi riceveva l’assoluzione in segreto e non doveva fare alcuna abiura. I cosiddetti decreti ”di grazia” (emanati da Giulio III nel 1550) riguardavano anche il possesso e la lettura di libri proibiti che andavano consegnati all’inquisitore entro due mesi (“il tempo di grazia”). In cambio gli inquisiti pentiti e assolti dovevano denunciare tutti coloro che sospettavano di eresia. Erano dunque inseriti nel sistema di legittimazione della delazione da parte dei pentiti. Naturalmente, la benevolenza del tribunale nei confronti degli sponte comparentes era ben nota e dunque si può riflettere su questo uso della procedura più favorevole da parte degli inquisiti o dei sospetti, perfino per reati gravi, che rivela una consapevolezza e una conoscenza notevoli, anche ai livelli popolari piú bassi, della prassi giudiziaria e delle sue conseguenze e la capacità di manipolarla a proprio vantaggio.
L’abiura era di tre gradi e poteva essere de levi o de vehementi suspicione e de formali: questa era la più grave ed era utilizzata per gli eretici e gli apostati di cui era acquisita certezza e non solo sospetto. Nei casi della spontanea comparizione erano usate invece le prime due, più leggere, o anche nessuna.
Le conseguenze dei due editti del 1550, considerati dagli storici come «un’amnistia generale» che apriva una strategia giuridica più flessibile, ma anche più efficace per facilitare la lotta all’eresia tramite pentimenti e denunce, furono importantissime, sia per i libri sia per le persone. Mentre il primo decreto produsse roghi generalizzati di migliaia di volumi, come quello del Talmud organizzato a Roma solo tre anni dopo, nel 1553, entrambi determinarono un fenomeno esteso di autodenuncia e di autocensura, ma anche di denunce generalizzate: non solo da parte di pentiti che sapevano che così avrebbero evitato il ben più grave processo ordinario ottenendo la semplice procedura sommaria e l’assoluzione, ma da parte di chiunque temesse di poter essere denunciato da altri e che dunque si affrettava a presentarsi spontaneamente per accingersi all’abiura privata e alla confessione di quanto sapeva su altre persone o su eventuali complici. Il doppio editto di Giulio III, se si dimostrò un efficace strumento per sconfiggere l’«eresia», fu anche alla base di quei fenomeni diffusi di paura, di dissimulazione e di delazione che caratterizzarono l’Italia della Controriforma e che portarono alla interruzione della circolazione delle idee e al soffocamento di ogni libertà di espressione, oltre che alla moltiplicazione dei processi.
Il privilegio della spontanea comparizione costituiva un’opportunità di ottenere una serie di vantaggi per chi decideva di recarsi autonomamente al tribunale del Sant’Uffizio. Esso costituisce inoltre una prova dell’alto livello di interiorizzazione delle norme inquisitoriali. E difatti le procedure sommarie fondate sulla presentazione volontaria aumentarono moltissimo tra Seicento e Settecento, mentre calavano nettamente le procedure basate sul processo formale. Tuttavia, visto dall’altra parte, cioè da quella dell’Inquisizione, il processo sommario diventava il potente strumento con cui il tribunale, mostrandosi disponibile al perdono, veniva a conoscenza di preziose informazioni, rafforzava la rete del controllo, perseguiva i denunciati e teneva anche sotto costante minaccia chi aveva fatto la spontanea comparitio perché la sua abiura, registrata per iscritto e conservata negli archivi, costituiva un’arma assai minacciosa, in quanto precedente penale, nel caso di recidiva. Entrato a far parte stabilmente delle procedure inquisitoriali, l’istituto giuridico o privilegio della spontanea comparizione era anche trattato nei manuali degli inquisitori, che si soffermavano dettagliatamente sui metodi con cui ricevere la deposizione volontaria e con cui procedere all’interrogatorio, sul testo dell’abiura da far leggere e sottoscrivere al convenuto, sulle penitenze salutari che gli dovevano essere comminate, perfino sull’atteggiamento benevolo e paterno che occorreva tenere nei confronti dello «spontaneo comparente».
Marina Caffiero è stata professore ordinario di Storia Moderna all’Università di Roma “La Sapienza”. La sua ricerca si è svolta soprattutto nel campo della storia delle minoranze religiose (ebrei e musulmani) e della storia dell’Inquisizione romana. I suoi libri sono tradotti all’estero. Ha pubblicato: Battesimi forzati. Storie di ebrei, cristiani e convertiti nella Roma dei papi, Viella, 2004. Gli ultimi libri sono: Legami pericolosi. Ebrei e cristiani tra eresia, libri proibiti e stregoneria, Einaudi, 2012, ristampato nel 2013 e Storia degli ebrei nell’Italia moderna. Dal Rinascimento alla Restaurazione, Carocci, 2014 con ristampa 2015 (premio Benedetto Croce-Pescasseroli 2015 per la saggistica). Ha pubblicato Il grande mediatore. Tranquillo Vita Corcos, un rabbino nella Roma dei papi, Carocci 2019. Nel 2020 ha pubblicato il volume Profetesse a giudizio. Donne religione e potere in età moderna, Morcelliana e, con Alessia Lirosi, ha curato Donne e inquisizione, Ediz. Di Storia e Letteratura. Nel 2021 è uscito a sua cura L’inquisizione e gli ebrei. Nuove ricerche, Ediz. Di Storia e Letteratura.
Ha fondato e dirige il Giornale di storia, rivista di storia on line (www.giornaledistoria.net)