
Quali intrecci legarono il negotium fidei medievale alla vita politica e alle trasformazioni della società comunale a Firenze?
Intrecci indubbiamente molto profondi, come anche altrove, al punto che da parte di alcuni storici si mette oggi in dubbio la reale esistenza di un’autentica forma di eresia nel medioevo. Semplificando, i sostenitori di tale tesi ritengono la devianza religiosa e in particolare l’eterodossia dualista – il catarismo – una ‘invenzione’ o una ‘reificazione’, vale a dire una costruzione di un antagonismo in materia di fede di fatto inesistente, ma utile a favorire un’affermazione della ‘monarchia’ papale sulla società. Quando nel 1245 si verifica un conflitto armato tra le forze a sostegno dell’inquisitore Ruggero Calcagni e del vescovo di Firenze, da una parte, e quelle del podestà ghibellino e di due inquisiti, dall’altra, siamo del resto all’apogeo dello scontro tra Chiesa e Impero, scontro che da tempo conosceva una declinazione nel mondo comunale attraverso la contrapposizione tra un partito filopapale (guelfo) e uno filoimperiale (ghibellino). In quello stesso 1245, peraltro, era intervenuto a sostegno degli eretici fiorentini anche l’imperatore Federico II, il quale, già scomunicato, era appena stato dichiarato deposto da papa Innocenzo IV al concilio ecumenico di Lione (tra l’altro anche in quanto sospetto di eresia). A mio avviso, però, non bisogna leggere le fonti con schemi preconcetti che sembrerebbero poter confinare l’eresia su un piano di dissidenza puramente politica, anziché religiosa: è un tema spinoso, complicato da strumentalizzazioni talora evidenti dell’accusa di dissenso dottrinale. Quando però il primo inquisitore francescano destinato a Firenze entrerà nel 1259 in città con lo scopo di far inserire le leggi papali contro gli eretici nello statuto comunale, verrà aggredito ed espulso su istigazione del governo popolare, allora di orientamento guelfo; è evidente come questo accadimento, unito ad alcune condanne contro eretici di schieramento filopapale, infranga l’equazione eretico = ghibellino, oggi peraltro sottoposta a severa critica e revisione. Tornando a Firenze, non è un caso che l’effettivo inizio dell’Inquisizione francescana avvenne in concomitanza con la pace tra le parti cittadine siglata dal cardinale Latino Malabranca nel 1280.
Come si finanziava l’Inquisizione?
L’Inquisizione si finanziava principalmente attraverso i beni confiscati agli eretici, i quali dunque alimentavano paradossalmente la propria distruzione. A partire dalla metà del Duecento le proprietà requisite dovevano essere vendute dai podestà cittadini e divise in tre parti: un terzo andava a beneficio del Comune – una forma di incentivo alla cooperazione, talora disattesa –, un terzo all’Inquisizione, un terzo agli ufficiali dell’inquisitore (una sorta di corpo di polizia preposto alla cattura degli eretici). Le condanne pronunciate a Firenze a partire dagli anni Ottanta del Duecento furono quasi esclusivamente postume – celebre quella contro Farinata degli Uberti – perché il diritto inquisitoriale autorizzava quel tipo di procedura d’eccezione.
Quale situazione testimoniano le irregolarità di gestione emerse in seguito ad un’inchiesta papale degli anni 1333-1334?
Riprendendo quanto detto in precedenza, l’alto numero delle condanne postume testimonia come la maggioranza degli inquisiti fosse già defunta, spesso da tempo, e dunque come il catarismo fiorentino si fosse di fatto estinto sullo scorcio del Duecento. In assenza di eretici propriamente detti, dall’inizio del Trecento si introdusse nei fatti una nuova e più arbitraria imputazione per generici ‘eccessi’ contro la fede che diede origine ad un sistema di multe spesso ingenti comminate a completa discrezione degli inquisitori. Se inizialmente anche queste somme dovevano sottostare alla tripartizione, a partire dagli anni Venti del Trecento si stabilì che rimanessero indivise a totale appannaggio del tribunale della fede. Quando una simile prassi divenne parossistica e talora palesemente estorsiva, il Papato fu spinto ad aprire un’inchiesta che smascherò lo scandalo dell’«Inquisizionopoli», come lo ha definito Lorenzo Paolini. Peraltro, i pochi inquisitori di estrazione cittadina gestivano le somme del tribunale avendo come coadiutori e interlocutori in ruoli chiave di amministrazione finanziaria in seno all’Ordine religioso e al Comune altri membri della famiglia di origine: senza darne una valutazione moralistica – la prassi va del resto inquadrata nelle logiche e nelle dinamiche coeve della società fiorentina – parleremmo oggi di «parentopoli». È in ogni caso innegabile che la maggior parte degli inquisitori attivi a Firenze condividesse la medesima estrazione sociale, provenendo in genere da famiglie toscane proprietarie di influenti compagnie bancarie, alcune delle quali finanziatrici del Papato e e degli Angiò: questi ultimi furono peraltro per diversi anni signori della città di Dante.
Qual era il percorso di formazione culturale degli inquisitori?
Recenti ricerche hanno dimostrato come non esistesse una forma specifica di formazione degli inquisitori, anche perché l’incarico repressivo rappresentava spesso una tappa ordinaria del curriculum ecclesiastico dei frati più in vista: molti inquisitori nel corso della loro carriera ricoprirono altri incarichi di rilievo – anche di insegnamento – all’interno del rispettivo Ordine religioso fino a raggiungere i vertici provinciali e talora coronando il cursus honorum con l’episcopato. Ne consegue che il percorso scolastico degli inquisitori non fosse dissimile da quello comune dei frati, come del resto testimoniano alcuni codici di filosofia e teologia posseduti dai giudici della fede. Del resto, il compito degli inquisitori era più che altro di tipo burocratico-giuridico, essendo vietate le dispute con gli eretici processati, per cui non occorreva una particolare forma di ‘specializzazione’ antiereticale. Il bagaglio culturale dell’inquisitore era in ogni caso assai vasto: non deve dunque sorprenderci che la tradizione ascriva proprio un giudice della fede – il fiorentino Accursio Bonfantini – la prima lectura Dantis pubblica della storia.
Quale funzione assolvevano i consultori?
Gli inquisiti non potevano difendersi direttamente, essendo precluso il ricorso ad avvocati difensori. L’unica forma di garanzia giuridica nell’ambito di un diritto fortemente eccettuativo era rappresentata dai consultori, esperti di diritto chiamati ad assistere l’inquisitore prima dell’inflizione delle condanne più gravi. Vi era però un cortocircuito evidente: i consiliatores venivano stipendiati dagli stessi inquisitori, i quali a loro volta sommavano la funzione di giudici ed autorità inquirente. Questo naturalmente non esclude che alcuni pareri giuridici potessero essere in contrasto con l’avviso dell’inquisitore, anche se testimonianze in tal senso sono abbastanza rare. A Firenze diversi consultori oltre che giuristi furono anche uomini di lettere, come testimoniano i nomi di Cino da Pistoia, Gherardo da Castelfiorentino e Francesco da Barberino: questi ultimi due, in particolare, si espressero riguardo al processo contro il ‘collega’ Cecco d’Ascoli, condannato e arso sul rogo nella città di Dante nel 1327. In questa vicenda tristemente famosa influirono però – a mio avviso in forma decisiva – fattori estranei al piano religioso: il celebre astrologo e poeta fu peraltro uno dei pochi ‘eretici’ giustiziati a Firenze, dato che le fonti superstiti dalla metà del Duecento fino ad allora ci restituiscono notizia di ‘soli’ tre roghi, tra cui appunto quello dello stesso Cecco.