“L’infinito proliferare dell’essere. Poesia e immaginario in Andrea Zanzotto” di Daria Catulini

Dott.ssa Daria Catulini, Lei è autrice del libro L’infinito proliferare dell’essere. Poesia e immaginario in Andrea Zanzotto edito da Carocci: quale rilevanza assume, nell’opera di Andrea Zanzotto, la nozione di “immaginario”?
L'infinito proliferare dell'essere. Poesia e immaginario in Andrea Zanzotto, Daria CatuliniPremesso che la nozione di immaginario abbia numerosi significati (si pensi all’uso che ne fa Jaques Lacan in ambito psicanalitico), posso rispondere a questa prima domanda dicendo che il mio lavoro intende l’immaginario nel senso più ampio possibile, cioè come “complesso di immagini e simboli”. Il libro, dunque, offre una mia interpretazione dell’universo simbolico zanzottiano.

Penso che la parola “immaginario” si riveli utile, nel caso di Zanzotto, per una ragione principale: essa è in grado di esemplificare un riferimento alla ripetitività ( o ripetizione) di certe immagini che attraversano tutta la sua opera. Lo studio che mi ha fornito un primo spunto è stato Le strutture antropologiche dell’immaginario: un’introduzione all’archetipologia generale di Gilbert Durand. È da questo libro che deriva il senso che ho desiderato assegnare alla parola “immaginario” quando ho scelto il titolo del mio libro. Nonostante sia oggi un libro datato, lo studio di Durand è un ottimo esempio di come si possa costruire un discorso che mette assieme letteratura, mitologia, religione, psicopatologia. In sintesi, la mia ricerca tenta di leggere certe immagini poetiche zanzottiane (certe piante, certe rocce, certi colori ecc.) come “indizi” di determinati modi di sentire (o immaginare) lo spazio e il tempo.

Qual è l’idea zanzottiana di linguaggio?
Possiamo dire che ce n’è più di una. Zanzotto scava nei misteri del linguaggio, provandolo all’infinito, quasi per saggiarne i meccanismi. Per comprendere l’idea zanzottiana di linguaggio bisogna sicuramente fare riferimento a Jaques Lacan, i cui scritti rappresentano una pietra miliare nella memoria culturale del poeta. Il primo principio che viene assimilato da Zanzotto è che l’inconscio abbia una natura lingustica. La seconda idea lacaniana che emerge dalla sua opera è che il luogo del linguaggio (e della cultura) si colloca in una dimensione sempre altra, mai pienamente assimilabile. Questa distanza tra l’essere umano e il linguaggio viene sempre “detta” o “pronunciata” dalla parola poetica zanzottiana. In una delle dichiarazioni Zanzotto afferma che il linguaggio non ha nulla a che fare né con l’inconscio né col conscio perché sembra travalicarli entrambi, uscirne fuori. Se da una parte il linguaggio ha carattere di struttura antropologica, dall’altra esprime una veicolarità: si pone come strumento di carattere quotidiano. Questo il punto di partenza del mio libro, anche se ho evitato di soffermarmi troppo su Lacan e sulle intepretazioni lacaniane della poesia zanzottiana. Mi sono concentrata, piuttosto, sulla critica che Zanzotto muove ad Heidegger circa il suo modo di intendere il linguaggio come un sistema che tende all’implosività, alla chiusura in se stesso.

A partire dalla riflessione del poeta sull’attaccamento del «Gufo della Foresta Nera» (Heidegger) al proprio luogo d’origine, si sono analizzati i modi zanzottiani di intendere il linguaggio. In seguito a questa disanima ho riscontrato due “movimenti” cui può andare incontro la parola: se da un lato essa tende a raggrumarsi attorno alle immagini della terra o del fango, dall’altro essa vuole diventare una parola sradicata, riconducibile ad un insieme figurale che si pone in contrapposizione con il primo. Se da una parte il logos viene percepito come «riversato entro la terra», dall’altra l’idioma si sradica dal terreno che gli è proprio per esplodere in una «singolarissima fioritura».

In che modo la botanica e la geologia forniscono a Zanzotto il lessico per definire il proprio umore poetico?
Si può affermare che l’immaginario zanzottiano attinga ampiamente a queste due sfere. Il poeta costruisce una fitta metaforologia vegetale incaricata di rappresentare un incontenibile principio vitalistico o, per riprendere il titolo del libro, quell’infinito proliferare dell’essere che la natura non cessa mai di mostrare.

È in questa parte del discorso che dimostro come Zanzotto legga e conosca la filosofia europea: il testo-guida da cui parte tutta la mia analisi della flora zanzottiana è la recensione che il poeta scrive del primo capitolo di Mille piani: capitalismo e schizofrenia di G. Deleuze e F. Guattari, noti per avere scelto una radice (un rizoma per l’esattezza) come metafora del loro “sistema” filosofico.

Per quanto riguarda la rêverie geologica, si può sintetizzare affermando che essa si incarica di veicolare un’idea di sedimentazione e frammentazione da una parte, di solidità e resistenza dall’altra: in questo caso Zanzotto dialoga con Montale, Celan e il geologo Turri, immaginando una temporalità abissale, paralizzante.

La poesia di Zanzotto può essere iscritta entro una vera a propria linea geologica che concepisce il testo poetico come una pietra, un minerale che tende a «rapprendere ciò che fluisce». Il grande significato che l’immagine geologica riveste per il poeta è testimoniato dal titolo della raccolta Conglomerati (2009), dove viene a delinearsi quella reversibilità tra frammento e tutto, scheggia e insieme organico.

Come si esprime in Zanzotto la categoria della spazialità?
Questo è un punto centrale del mio discorso. A partire dagli anni Sessanta le scienze umane vengono rivoluzionate dalla cosiddetta spatial turn, una fioritura di indirizzi critici che rimettono al centro dell’attenzione il rapporto dell’uomo con la spazialità e i modi in cui essa viene rappresentata. Per quanto riguarda il panorama italiano, spicca la produzione poetica di A. Zanzotto. L’assunto di Foucault per cui «lo spazio è per il linguaggio la più ossessiva delle metafore» vale al massimo grado, infatti, per un poeta come Zanzotto, che fa del “mondo” il principale oggetto d’indagine. Se ogni testo poetico è costruito sulla base di una logica spazializzante che lo accomuna a tutti i testi letterari, la poesia di Zanzotto presenta, come componente aggiunta, la specificità delle tematiche prescelte, che sono propriamente da ricondurre alla topica spaziale nelle sue varie declinazioni: Natura, ecosistema, luogo, paesaggio. Dunque, l’opera di Zanzotto affronta, con i mezzi che le sono propri, le medesime questioni dibattute da personalità come Heidegger, Foucault, Deleuze, Glissant.

Dunque, qual è il vero tema della poesia zanzottiana?
Non sono sicura che esista un “vero” tema della poesia zanzottiana, sebbene gli indizi riconducano a quell’enorme mistero che definiamo “Natura”. L’aggettivo “vero” è parte del titolo Il vero tema, raccolta presentata il 3 settembre 2011, circa un mese prima della morte del poeta. Anche in questo caso Zanzotto si prende gioco del lettore, mostrandogli beffardamente la strada di una verità che non esiste.

Forse, a pensarci bene, c’è una parola adatta a condensare il vero tema della poesia di Andrea Zanzotto: desiderio. La sua scrittura mostra le tracce di questo desiderio nell’intento di catturare ciò che è “eccedente, sempre più in là rispetto alle effettive potenzialità dell’esperienza umana” (Michel Foucault). Ecco, Zanzotto è un poeta del desiderio, un poeta dell’eccesso.

Daria Catulini è dottore di ricerca in Culture letterarie e filologiche all’Alma Mater Studiorum (Università di Bologna), dove si è specializzata sull’opera di Andrea Zanzotto e sulla poesia del Novecento. Autrice di saggi pubblicati in riviste italiane e internazionali, ha compiuto le sue ricerche anche alla Brown University (USA) e al Centre de recherche en littérature comparée (Sorbonne Université, Paris).

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