
Un imperativo che porta il giornalista a un’indagine documentatissima – oltre diecimila documenti visionati, analisi di database, interviste con i protagonisti – con l’obiettivo di ripercorre la pandemia di Covid, dalle grotte cinesi infestate di pipistrelli fino a ciò che è accaduto e che ancora accade in Italia.
Ne emerge una lunga catena di errori, in gran parte evitabili, e di scelte strategiche dettate più da opportunità politiche che dalla ricerca del bene pubblico.
Innegabili sono, per incominciare, le responsabilità del governo cinese fin dalla prima fase della diffusione del virus. Per più di un decennio ricercatori e studenti, inviati nelle grotte di Wuhan per raccogliere campioni dei pipistrelli portatori del coronavirus correlato alla prima epidemia di SARS del 2003, sono stati a contatto con materiale potenzialmente infetto senza utilizzare adeguate protezioni. Analogamente i campioni sono poi stati maneggiati in laboratorio senza le opportune accortezze, ed è quindi probabile che il salto di specie sia avvenuto in queste fasi e che da questi laboratori si sia poi diffuso il virus. Benché gli studiosi sapessero che i pipistrelli erano portatori di un agente patogeno, non hanno indagato i rischi di trasmissione all’uomo; inoltre, le informazioni di questi primi studi non sono disponibili, poiché i laboratori appartengono a centri di ricerca militari cinesi. Se la Cina non avesse occultato queste informazioni e non avesse negato per un mese e mezzo l’esistenza della pandemia, è probabile che la diffusione si sarebbe potuta in parte frenare.
Ma non è soltanto la reticenza cinese ad essere responsabile della trasformazione di dell’epidemia in pandemia. In primo luogo, i laboratori che per comodità definiamo “cinesi” collaborano a stretto contatto con paesi occidentali, dalla Francia all’Australia. Inoltre, quando nella gestione del virus entra in scena l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) vengono prese ulteriori decisioni quanto meno discutibili. Prima tra tutte la scelta di impedire che l’epidemia, strettamente correlata con quella di SARS del 2003, venga denominata con un termine che ricordi appunto la SARS. “L’OMS” sottolinea Gatti “chiama la malattia Covid-19 (corona-virus-disease-2019) e abolisce ogni riferimento all’epidemia del 2003 per non danneggiare gli interessi geopolitici ed economici della Cina”.
Ma questa scelta è pessima proprio per le ricadute sanitarie: se si fosse dato alla malattia il giusto nome, questo avrebbe consentito a scienziati e decisori di metterla in correlazione con tutto quanto era stato già appreso e compreso sulla SARS, incluse le modalità per arginare il modo adeguato la diffusione. Era stato il medico italiano Carlo Urbani, ai tempi funzionario dell’OMS, a comprendere la natura della SARS e i rischi che essa comportava: le sue ricerche avevano permesso di isolare il nuovo coronavirus, di studiarlo e di mettere in atto le misure di quarantena atte a circoscriverlo.
Eppure nel 2020 nessuno sembra voler ricordare la lezione di Urbani, morto tra l’altro proprio lottando con la malattia, e benché il metodo anti-pandemie da lui realizzato nel 2003 rappresenti, ancora oggi, il protocollo internazionale per combattere questo tipo di malattie, e né l’OMS né tantomeno l’Italia mettono in atto le misure di difesa per proteggere cittadini e personale sanitario.
Anzi, il 13 gennaio 2020, quando a Wuhan si iniziava già a morire di covid, la ministra De Micheli, a quei tempi ministra dei trasporti, approva il raddoppio dei voli tra Italia e Cina, all’interno di un percorso di avvicinamento dell’Italia con la Repubblica Popolare Cinese. Come conseguenza, arriva proprio in quei giorni in Italia un gran numero di turisti cinesi, incolpevoli responsabili della diffusione del virus al di fuori dei confini del loro Paese. A ciò si aggiunge il rientro dalla Cina dei lavoratori italiani, preoccupati per i contagi e l’isolamento di Wuhan. In questo modo si creano le condizioni perfette perché la Lombardia diventi, durante la prima ondata, la regione con il più alto numero di decessi per milione di abitanti al mondo. Si tratta anche in questo caso di un errore consistente da parte del Governo italiano, di una violazione dei protocolli di profilassi internazionale che, aggiungendosi alla sottostima del problema, ha fatto in modo che il virus sia stato individuato troppo tardi nel nostro Paese, senza avere a disposizione dei protocolli pandemici condivisi per farvi fronte.
È qui che l’indagine di Gatti si sposta in Italia, iniziando da giovedì 20 febbraio 2020, il giorno della segnalazione del primo caso all’ospedale di Codogno.
L’inchiesta ripercorre la situazione dell’Italia di quei giorni: tutti noi ricordiamo bene gli eventi di quel periodo, ma rileggerli data dopo data e dichiarazione dopo dichiarazione fa risaltare in maniera ancor più chiara la completa impreparazione del nostro Paese ad affrontare la pandemia. Le mascherine che in un primo momento vengono consigliate solo a chi ha il virus e che comunque sono introvabili, anche per i medici stessi. I comunicati dei medici che evidenziano la completa carenza di misure di prevenzione: “Non posso coprire con i tamponi a disposizione tutte le necessità dei reparti coinvolti”, scrive ad esempio il responsabile del servizio di medicina del lavoro dell’Azienda sociosanitaria territoriale di Bergamo Est. Il rassicurante spot televisivo del Ministero della Salute in cui Mirabella, seduto al tavolo di un ristorante con due bacchette da sushi in mano, tranquillizza gli ascoltatori: “Sì. Lo so a che cosa state pensando. L’infezione da coronavirus colpisce le vie respiratorie, ma non è affatto facile il contagio. Soprattutto se usiamo prudenti norme igieniche”. E intanto il susseguirsi di esternazioni di governatori e politici, che evidenziano la sottostima del pericolo rendendo sempre più chiaro che ormai si è perso il controllo della pandemia.
Ai proclami si affiancano i numeri: a un anno dall’inizio della pandemia, il 15 febbraio 2021, “l’Italia raggiunge oggi i 93.835 morti. Siamo secondi in Europa, tra le 117.622 vittime del Regno Unito e le 82.374 della Francia”.
È un libro che lascia un po’ di amaro in bocca, questo di Gatti. Ci si agita sulla sedia, leggendolo, ci si indigna e una parte di noi vorrebbe forse non saperle, certe cose. Avremmo potuto noi singoli fare qualcosa contro il depistaggio del governo cinese, la dabbenaggine di certi nostri governanti, l’incompetenza dell’OMS? E tuttavia è necessario sapere, approfondire, seguire Gatti nella sua inchiesta e andare oltre le versioni ufficiali. Perché solo in questo modo saremo in grado di monitorare i passi dei nostri governi in futuro, per meglio prevedere e prevenire la prossima crisi pandemica. Come sottolinea il giornalista, “un principio di giustizia definisce la responsabilità degli stati nei confronti dei propri cittadini attraverso queste semplici parole: non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.
Silvia Maina