“L’incontro e i suoi destini. Marguerite Duras con Jacques Lacan” di Eleonora Fracalanza

Dott.ssa Eleonora Fracalanza, Lei è autrice del libro L’incontro e i suoi destini. Marguerite Duras con Jacques Lacan edito da Mimesis: quali affinità e corrispondenze esistono tra Marguerite Duras e Jacques Lacan?
L'incontro e i suoi destini. Marguerite Duras con Jacques Lacan, Eleonora FracalanzaQuesta è una domanda per me molto importante, perché rappresenta il punto d’avvio del mio lavoro (della mia tesi di dottorato, di cui L’incontro e i suoi destini è una rielaborazione) e mi ha accompagnata lungo tutto il percorso. Possiamo dire che il tentativo di rispondere a questa domanda, il tentativo, forse inesauribile, di delineare le affinità e le corrispondenze tra Marguerite Duras e Jacques Lacan, costituisce l’obiettivo che il mio libro si pone.

Tra i motivi che mi hanno spinta a incentrare la mia ricerca sull’opera di Duras vi è il fatto che in essa riconoscevo alcuni aspetti riconducibili alle teorizzazioni di Lacan, in particolare la centralità del desiderio inteso come una dimensione che comporta perdita di padronanza, come un’esperienza di qualcosa che si manifesta più forte della volontà e che “rapisce” il soggetto, lo trascina cioè al di là dei propri confini producendo effetti esaltanti, ma anche devastanti sul piano dell’identità.

Le storie e i personaggi – soprattutto femminili – di Duras si sviluppano attorno al vuoto, alla mancanza; si tratta per lo più di trame esili che riguardano individui definiti dal conflitto che li abita, e la cui identità non è accessibile mediante una mera descrizione delle proprietà o delle parti che la costituiscono (spesso Duras non fornisce alle sue creature alcuna caratterizzazione fisica o psicologica, talvolta neppure un nome proprio), ma a partire dalla cavità che li costituisce, e a cui cercano vanamente di rimediare. Va sottolineato che la mancanza al centro di ogni romanzo e di ogni creatura durassiana non è mai semplicemente “mancanza di qualcosa”, essa non riguarda un oggetto, ma va cercata nella struttura, nell’essere del soggetto: è il manque-à-être che, nella concezione lacaniana, costituisce la realtà umana nella prospettiva del desiderio.

Nel 1965 Lacan dedica a Duras un celebre Omaggio in cui offre un’interpretazione al Rapimento di Lol V. Stein, riconoscendo nella giovane protagonista “l’esempio classico di un caso clinico”, e in cui afferma che la scrittrice dimostra di sapere molto bene ciò che lui insegna. Lo psicoanalista sembrerebbe aver tratto dall’opera durassiana nuova materia per il suo insegnamento – soprattutto quello elaborato a partire dagli anni Settanta – e ha riconosciuto alla scrittrice un sapere sulla femminilità, sulla jouissance, sull’amore e sul rapimento a cui il desiderio conduce, problematiche queste con cui entrambi gli autori non hanno mai smesso di confrontarsi.

In varie occasioni Duras afferma però di essere diffidente verso la psicoanalisi, di non averne bisogno e di non comprenderla. Quando, nel corso di un’intervista del 1981, Yann Andréa rimarca la convergenza tra la concezione che lei e Lacan hanno del desiderio, dell’eterosessualità, dell’omosessualità e, più in generale, del rapporto tra i sessi, la scrittrice ribatte che non era affatto necessario attendere Lacan per conoscere la differenza sessuale, l’inconciliabilità tra i sessi e l’inesistenza del rapporto sessuale. A mio avviso, è proprio la celebre, enigmatica tesi dell’inesistenza del rapporto sessuale, centrale nel Seminario XX, a offrire la più importante e feconda occasione per mettere in dialogo tra loro Lacan e Duras.

Nella concezione di Lacan, “inesistenza” equivale a “impossibilità”: impossibilità di fare Uno, impossibilità cioè di abolire l’esistenza separata dell’oggetto, impossibilità di ridurre, nell’unione, la disarmonia che caratterizza strutturalmente la relazione tra i sessi. Data questa inaggirabile impossibilità, soltanto l’amore – sostiene Lacan – può supplire all’assenza del rapporto sessuale. Ma come si spiegano allora i casi in cui a essere impossibile è piuttosto l’amore, e il rapporto sessuale svolge, di contro, la funzione di compensare alla sua assenza? Per rispondere a questa domanda mi sono rivolta a Duras, in particolare all’ultima fase della sua produzione. A partire dalla fine degli anni Settanta la sua scrittura diviene una scrittura dell’assenza; l’abolizione di una certa linearità espressiva, il prevalere dell’ellissi narrativa, gli spazi bianchi sulla pagina restituiscono al testo il senso di un indicibile: c’è qualcosa che non cessa di non scriversi, per riprendere la formula con cui Lacan definisce l’impossibile, ed è principalmente attorno a questa categoria che ruotano le ultime storie di Duras. Benché lo scacco dell’esperienza amorosa sia sempre stato un tema centrale nella sua opera, ora l’incontro con l’Altro è segnato dall’impossibilità della relazione tra uomo e donna, i cui corpi rappresentano una barriera che ne decreta l’inconciliabilità.

Quale prospettiva e metodologia ha adottato nell’analisi del concetto di incontro?
In un primo momento ho cercato di chiarire il concetto di “incontro” a partire dall’analisi semantica relativa alle principali lingue romanze (francese, spagnolo, italiano). Tale analisi mi ha permesso di delineare quattro importanti aspetti dell’incontro. Innanzitutto, la causa: sia rencontre, sia encuentro, sia incontro designano tanto l’incontro fortuito, quanto l’incontro programmato. Il secondo aspetto riguarda gli effetti che ne conseguono e che determinano il suo essere un “buon” o un “cattivo incontro”. Il terzo aspetto è legato alla derivazione, comune alle tre le lingue considerate, dal latino in-cŏntra, dove “cŏntra”, può dare, a seconda del contesto di riferimento, l’idea di vicinanza ma anche di opposizione. Da ultimo, l’aspetto più paradossale dell’incontro è massimamente evidente nel francese rencontre, in particolare dal prefisso “re-” che, implicando l’idea di reiterazione, fa di ogni incontro un re-incontro. Questa idea di ripetizione non si accorda però con la prospettiva secondo cui un vero incontro, scavando una discontinuità imprevista nello svolgimento abituale della vita, sappia sempre di Nuovo. Benché vi siano incontri che nascono a seguito di un’intenzione, perché un incontro possa considerarsi davvero tale sembra infatti essere necessaria una certa dose di imprevedibilità, da cui dipende la sua forza, il potere che esercita su chi vi è coinvolto.

Certo, non tutti gli incontri hanno la facoltà di apportare cambiamenti tangibili nel corso di un’esistenza. Da una parte vi sono incontri che non richiedono alcuna comprensione, alcun progetto da parte del soggetto; dall’altra vi sono gli incontri “autentici”, legati alla sfera del desiderio, incontri che definiscono il soggetto sul piano dell’identità e gli offrono l’occasione per cogliere e interpretare le proprie possibilità superiori, quelle oltrepassanti, prima tra tutte la possibilità di relazionarsi con un altro soggetto.

Il soggetto – sia esso “reale” o “finzionale” – assumendo un determinato evento, adotta, seppur spesso inconsapevolmente, un certo modo di porsi di fronte a esso. Dal modo in cui egli interpreta l’evento dipendono le sorti dell’incontro, così come il suo valore e il suo significato. Nella prospettiva che ho adottato, i destini, le mete dell’incontro sono quindi le sue possibilità, ed esse non sono mai decise in anticipo.

Nel mio percorso, ho scelto di privilegiare l’incontro amoroso. Innumerevoli sono le opere che hanno messo in scena il momento dell’incontro tra i due protagonisti di una storia d’amore, una scena chiave, dal carattere quasi rituale. Benché l’aspetto fenomenologico della contingenza del primo incontro non sia trascurabile, se a determinare il valore di un incontro è il suo destino, allora soffermarsi sul suo solo accadere non basta: l’incontro tra due soggetti deve essere analizzato nella sua durata, l’accento deve essere posto sul processo trasformativo che viene innescato e che riguarda primariamente la dimensione dell’identità.

Per tentare di determinare ciò che è in gioco nell’incontro ho posto in dialogo tra loro tre differenti prospettive. Innanzitutto, la psicoanalisi di Freud e di Lacan, una prospettiva irrinunciabile sulla condizione umana che fa proprio del rapporto tra identità, desiderio e incontro con l’Altro il suo oggetto primario di indagine.

Punto di riferimento costante nella mia trattazione è il saggio del 1921 Psicologia delle masse e analisi dell’io, dove Freud definisce l’identità come l’insieme dei processi di identificazione tra due soggetti, una grande novità anche sul piano filosofico, in quanto la tradizione occidentale aveva pensato l’identità principalmente come la relazione che un ente può avere soltanto con se stesso. In questo saggio, Freud distingue due forme di libido: l’investimento oggettuale, ovvero il desiderio di avere, e l’identificazione, vale a dire il desiderio di essere; a costituire l’amore è proprio l’intreccio tra le due forme di desiderio.

Lacan apporterà un ulteriore sviluppo alla concezione relazionale dell’identità; il soggetto incontra l’alterità nei tre modi designati dai registri: come attrazione per l’immagine ideale, e al tempo stesso come dolore per una coincidenza impossibile (Immaginario); come introiezione di modelli che danno forma alla nostra identità (appartenenti al Simbolico); e come desiderio della Cosa, desiderio di dissoluzione nella jouissance (il Reale).

La seconda prospettiva è quella filosofica. In particolare, riprendendo il programma di ricerca di Giovanni Bottiroli, ho fatto riferimento a una filosofia di tipo modale che trova in Heidegger la sua principale fonte di ispirazione e che nell’attribuire un ruolo centrale alle categorie modali classiche (possibilità-impossibilità, esistenza-inesistenza, necessità-contingenza), non solo afferma il primato del possibile, ma privilegia i casi misti, i legami tra le categorie. Una riflessione sul concetto di incontro – e, più in generale, la comprensione di aspetti complessi della condizione umana – rende ineludibile il ricorso a una forma di logica congiuntiva, una logica dei correlativi, che permette di analizzare il fecondo intrecciarsi degli opposti interdipendenti e non-sintetizzabili (pensiamo al legame, nelle passioni, tra amore e odio, tra desiderio di felicità e quello di infelicità).

Infine – ecco la terza prospettiva –, mi sono rivolta alla letteratura, all’opera di Duras, che non soltanto ha fatto dell’incontro amoroso, nelle sue molteplici varianti e sempre discostandosi dai canoni tradizionali, un fil rouge che percorre tutta la sua produzione, ma testimonia anche quell’alleanza esistente tra letteratura e psicoanalisi che Freud e Lacan hanno messo bene in luce.

Quale importanza assume il tema dell’incontro nella psicoanalisi di Freud, e soprattutto di Lacan, e all’interno dell’opera durassiana?
Occorre anzitutto ricordare che per Freud l’amore è una passione ingannevole, un’illusione, null’altro che il frutto della passione narcisistica dell’Io per se stesso o, meglio, per l’immagine ideale di sé impossibile da raggiungere e che l’altro, l’oggetto amato sovrastimato, riflette. Per Freud, l’amore non è mai esperienza del Nuovo, in quanto l’oggetto amato è sempre una riedizione dell’oggetto perduto e, di conseguenza, ogni nuovo incontro con l’oggetto è essenzialmente un suo ritrovamento, ogni nuovo amore solo una riedizione del vecchio che condanna a ripetere la delusione dello Stesso. Nessun oggetto, seppur somigliante a quello desiderato, sembra infatti essere all’altezza dell’oggetto perduto: l’incontro è ogni volta mancato, il tentativo di ritrovarlo è votato allo scacco, in quanto ci sarà sempre un irriducibile décalage tra l’oggetto trovato, reale, e l’oggetto ricercato.

La prospettiva di Freud impedisce di comprendere la forza generatrice che l’evento dell’incontro porta con sé. L’amore non è regressione o ripetizione, ma una sorpresa, ed è all’interno dello scarto, del décalage tra oggetto ricercato e oggetto trovato, che si nasconde il Nuovo che il soggetto deve cogliere e accogliere affinché un vero incontro abbia luogo.

Con Lacan la questione cambia, assume nuove forme, il concetto di incontro acquisisce nella sua teorizzazione una particolare importanza, prima nel Seminario XI – in rapporto al meccanismo della ripetizione e al registro del Reale –, poi nel Seminario XX, dove tratta più specificatamente dell’incontro amoroso.

Nel Seminario XI, nella lezione del 12 febbraio 1964, intitolata «Τύχη e αὐτόματον», Lacan designa con il termine tyche, tratto dalla Fisica di Aristotele, l’evento inatteso, l’incontro con il Reale inassimilabile – ciò che per definizione resta sempre fuori-senso –, un “cattivo incontro” che trova la sua descrizione paradigmatica nel trauma, in quanto si tratta sempre di un evento fortuito che interrompe la continuità temporale consegnando il soggetto a una condizione di inermità. L’automaton invece è pura spontaneità, una causalità che si istituisce sul concetto di necessità, indica la ripetizione priva di variazione che esclude la singolarità etica del soggetto. In termini psicoanalitici, l’automaton designa il lavoro del Simbolico che viene innescato dalla tyche, e dunque l’azione del principio di piacere che si attiva di fronte al reale traumatico al fine di attenuare la traumaticità dell’evento conferendogli un senso.

La relazione tra tyche e automaton delineata da Lacan sembra corrispondere a quella che la logica tradizionale ha stabilito esserci tra contingenza e necessità, ossia una relazione tra contraddittori: se il necessario è “ciò che non può essere altrimenti”, l’unica maniera per sospendere la sua inesorabilità è rappresentata dal suo opposto, la contingenza. Tuttavia, questo modo di pensare esclude la possibilità di inclusione reciproca tra le due categorie, e dunque di considerare il concetto di incontro e quello di ripetizione alla luce del legame tra contingenza e necessità.

Nel Seminario XX – dedicato all’elaborazione di una teoria dell’incontro e dell’amore che ruota per lo più attorno alla categoria di impossibile – Lacan propone una ridefinizione delle modalità ricorrendo ai termini “cessare”, “scriversi” e alle loro negazioni, una ridefinizione originale, ma che continua a riferirsi alle sole relazioni di contrarietà e contraddittorietà. Nella rilettura lacaniana, il necessario è “ciò che non cessa di scriversi” e la sua logica è ancora quella dell’automaton; l’impossibile è, invece, “ciò che non cessa di non scriversi” – impossibile è il rapporto sessuale –; infine, la contingenza è “ciò che cessa di non scriversi”, è l’evento che potrebbe scriversi altrimenti e in questa categoria egli pone l’incontro con il partner. Proprio da qui nascerebbe l’illusione di sospendere l’impossibile, di poter scrivere il rapporto sessuale, di passare dalla contingenza alla necessità. Affermando che nell’amore vi sia l’illusione di sospendere l’impossibile del rapporto sessuale e la tendenza a “passare” dalla contingenza dell’incontro alla necessità (il “per sempre” a cui gli amanti ambiscono), Lacan abbandona la via tracciata, quel percorso e che lo avrebbe condotto a privilegiare i legami tra le categorie; un percorso che mi sono proposta di riprendere e proseguire con l’aiuto della letteratura, di Duras, nella convinzione che questa sia la miglior strada da percorrere per tentare di cogliere in tutta la sua ricchezza l’evento dell’incontro.

Veniamo dunque al tema dell’incontro nell’opera durassiana. I romanzi di Duras parlano quasi sempre di un incontro amoroso, si tratta di un vero e proprio leitmotiv. Tuttavia, tra i protagonisti non vi è mai il canonico coup de foudre; al contrario, l’affinità e il desiderio nascente vengono scoperti solo progressivamente. Spesso l’incontro amoroso non ha una conclusione irenica, e neppure certa, non vi è mai un vero e proprio compimento: i protagonisti sono destinati a separarsi – e non è dato sapere se avranno modo di rincontrarsi in futuro –, oppure nulla di esplicito viene detto dalla voce narrante, che lascia così al lettore la possibilità di immaginare l’esito della vicenda.

Quali dimensioni possibili assume l’incontro?
L’analisi dell’opera durassiana mi ha condotta a delineare tre dimensioni possibili dell’incontro: l’attesa, la ripetizione e l’impossibile. Tra i personaggi di Duras c’è infatti sempre chi attende un incontro, oppure un re-incontro; c’è chi, nella contingenza di un nuovo incontro, è portato a ripetere un incontro precedente che il più delle volte ha costituito un trauma mai elaborato e simbolizzato dal soggetto; infine, c’è chi nell’incontro con l’altro viene a confrontarsi con l’impossibile, sia esso l’impossibile che caratterizza strutturalmente il rapporto tra i sessi, sia esso l’impossibile che marchia, per svariate ragioni, un amore sin dal suo nascere, o ancora l’ostacolo ricercato nell’amore-passione dagli amanti che riconoscono proprio nell’impossibilità la fiamma che alimenta il loro desiderio.

Quali testi durassiani ha analizzato nella Sua ricerca?
Data la vastità del tema, ho dovuto operare delle scelte; innanzitutto, la scelta del corpus è stata guidata dalla volontà di rispettare la cronologia dei testi, in modo da rendere conto di un’evoluzione della tematica dell’incontro a cui corrisponde un’evoluzione stilistica che porterà alla scrittura massimamente ellittica e rarefatta degli anni Ottanta. Ho dunque suddiviso la trattazione in tre sezioni (ciascuna delle quali è un trittico), dedicate rispettivamente al rapporto tra incontro e attesa, tra incontro e ripetizione e tra incontro e impossibilità.

Nel primo trittico, ho analizzato Il marinaio di Gibilterra (1952), I cantieri (1954) e Lo “Square” (1955). Questi testi ruotano attorno al tema dell’attesa, un’attesa sempre legata alla dimensione del desiderio, un’attesa interminabile, che mira al proprio annullamento e al contempo si alimenta della propria insoddisfazione.

Nel secondo trittico, ho analizzato Moderato cantabile (1958), Hiroshima mon amour (1959-1960) e Il rapimento di Lol V. Stein (1964), testi che ritengo far parte della seconda fase della produzione durassiana, la sua “fase matura”. In questi testi, a costituire il motore della narrazione è un istante di folgorazione che “rapisce” a se stesse le protagoniste, impegnandole nel tentativo di ricostruire ciò che in esso si è prodotto, qualcosa che è dell’ordine della tyche e che si rivela strettamente legato a un trauma precedente, originario, apparentemente dimenticato.

Nell’ultimo trittico, ho analizzato La Nave Night (1979), La malattia della morte (1982) e L’Amante (1984). Le storie al centro di questi testi sono segnate dalla distanza insuperabile tra gli amanti, dall’impossibilità del rapporto sessuale, fino all’assenza di desiderio. È importante ricordare che i testi degli anni Ottanta nascono in concomitanza con la relazione tra Duras e Yann Andréa, l’ultimo compagno della sua vita, una relazione impossibile, attraversata da grandi difficoltà, prima tra tutte l’omosessualità di lui, e proprio su questa drammaticità Duras costruisce l’ultima parte della sua esistenza, come donna e come scrittrice.

Ho infine voluto concludere il mio percorso analizzando C’est tout (1996), l’ultimo testo di Duras, pubblicato postumo da Yann Andréa, una sorta di “testamento spirituale” che raccoglie le confidenze della scrittrice poco prima di morire, intrecciate ai frammenti di alcuni dialoghi con Yann.

In che modo dall’incontro imprevisto ma fecondo tra Alain Resnais e Marguerite Duras scaturisce Hiroshima mon amour?
In seguito al successo ottenuto con Notte e nebbia, il produttore Anatole Dauman propone ad Alain Resnais di girare un lungometraggio riguardante la distruzione della città di Hiroshima. Resnais, consapevole dell’impossibilità di realizzare un nuovo documentario sulla tragedia nucleare, decide di cambiare forma e di appellarsi a una sensibilità femminile. Dauman si mette alla ricerca di una scrittrice a cui affidare il lavoro di sceneggiatura e propone a Resnais – che nel frattempo aveva pensato a Simone de Beauvoir – di lavorare con Françoise Sagan, la quale però dimentica di presentarsi a ben due appuntamenti fissati con il produttore. Resnais, che ha da poco letto con grande entusiasmo Moderato cantabile, affascinato dallo stile atipico, dal tono e dalla sonorità del linguaggio impiegato dalla scrittrice, propone allora il nome di Marguerite Duras.

Dopo un pomeriggio trascorso insieme a discutere sull’impossibilità di realizzare un documentario su Hiroshima, Duras e Resnais danno inizio alla loro collaborazione, concordando sulla decisione di presentare il trauma patito dalla popolazione civile raccontando un incontro fortuito, passionale, tra un architetto giapponese e un’attrice francese, un incontro che ha luogo in una Hiroshima ricostruita dodici anni dopo l’esplosione.

Eleonora Fracalanza (1990) si è laureata in Culture Moderne Comparate e ha conseguito il Dottorato di ricerca in Studi Umanistici Transculturali presso l’Università degli Studi di Bergamo

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