“L’impronta digitale. Cultura umanistica e tecnologia” di Lorenzo Tomasin

Prof. Lorenzo Tomasin, Lei è autore del libro L’impronta digitale. Cultura umanistica e tecnologia edito da Carocci: come possono convivere cultura umanistica e tecnologia?
L’impronta digitale. Cultura umanistica e tecnologia, Lorenzo TomasinPossono convivere benissimo se la tecnologia, presenza culturalmente rilevante e sociologicamente cruciale al giorno d’oggi, viene colta in essenza come uno strumento, uno dei tanti, al servizio delle scienze umane (anzi dell’uomo), e non come un criterio ordinatore nella lettura della realtà e dell’uomo stesso, cioè del presente e, a maggior ragione, della storia nel suo complesso, che è uno degli ambiti d’applicazione peculiari della cultura umanistica. Una delle tesi centrali del mio libro è che della tecnologia oggi le scienze umane non possano fare a meno come non ne può fare a meno nessun àmbito professionale, ma che esse debbano evitare il pericolo di rimanerne ostaggio (per capirci: un po’ come nella vita di tutti i giorni capita di vedere persone che si trasformano da utenti in schiavi). Il ricercatore di materie umanistiche deve essere in grado di servirsi degli strumenti tecnologici come quello di qualsiasi altra branca del sapere, o come il professionista di qualsiasi attività lavorativa avanzata. Ma ciò non significa automaticamente che l’umanista debba acquisire una mentalità tecnologica, cioè centrata sulla macchina, qual è quella di chi le macchine costruisce e progetta, né che la cultura umanistica debba diventare uno strumento (uno dei tanti) per lo sviluppo delle tecnologie informatiche, con rovesciamento dei ruoli tra mezzi e fini.

Nella società contemporanea, quale può essere il ruolo della cultura umanistica?
Il ruolo della cultura umanistica non cambia, quanto alle sue funzioni fondamentali, da quando la si è cominciata a chiamare così – e anzi anche da prima, cioè da quando la si chiamava con altri nomi: è il luogo della riflessione su due specificità fondamentali della specie umana, cioè la facoltà di linguaggio e la storia che ne è il prodotto, l’una e l’altra peculiari dell’uomo. Il primato della cultura umanistica – non tanto nel senso di una maggiore dignità, ma quasi di una fondamentale necessità di esistere e di svilupparsi, pena lo snaturarsi dell’umanità stessa – discende proprio da questa esclusiva. Anche gli animali costruiscono case, strade, e ponti, utilizzano strumenti per svolgere operazioni pratiche. Anche gli animali hanno sistemi di comunicazione più o meno elementari funzionali a risolvere problemi o a scambiare informazioni. Ma solo l’uomo, per quanto ne sappiamo, è in grado di organizzare la comunicazione in una sintassi complessa capace di generare infiniti enunciati, dando luogo a lingue, scritture, letterature e altre forme d’espressione del pensiero, nonché di trasmettere attraverso le generazioni messaggi così complessi da configurare mutamenti storici distinti e ben più serrati rispetto alla normale evoluzione biologica. Di lingue, storia e dei loro prodotti come specificità umane si occupano le discipline umanistiche. Per rispondere alla Sua domanda, il ruolo della cultura umanistica nella società (di ieri, di oggi e di domani) corrisponde al ruolo che vi hanno l’uomo e la sua storia.

Qual è oggi il valore della cultura umanistica all’interno di un percorso di formazione scolastico e universitario?
Se si intende il percorso scolastico e universitario come percorso d’apprendistato finalizzato all’acquisizione di competenze pratiche per lo svolgimento di un lavoro ben preciso, la cultura umanistica ha per la maggior parte degli scolari tanta importanza quanto potrebbe averne per un’ape operaia. Cioè nessuna. Ma se siamo disposti ad ammettere che la scuola non serve a formare automi bensì a plasmare cittadini liberamente pensanti, e se siamo pronti ad accettare che l’università non è un istituto tecnico avanzato ma un luogo di incubazione della ricerca di base, cioè dell’esercizio della critica e dell’intelligenza svincolate da finalità pratiche immediate, il loro valore è inestimabile, e la loro centralità indiscutibile. Su una simile architettura mentale la civiltà umana, e segnatamente quella occidentale, ha costruito una parte cospicua della propria storia educativa. Tendenze a una sottovalutazione di questo modello in favore del modello che per brevità chiameremo dell’ape operaia (o dell’automa) rappresentano una specie di tentazione ciclica, che oggi si manifesta con particolare virulenza e autorevolezza. E che parte dall’idea che solo ciò che è immediatamente e materialmente utile va insegnato e trasmesso nel percorso educativo.

In che modo la tecnologia sta influendo sulla cultura umanistica?
In vari modi. Innanzitutto si ritiene che l’invadenza della tecnologia in ogni ambito della vita dell’uomo d’oggi debba necessariamente comportare una radicale modifica del suo modo stesso di organizzare il pensiero e di leggere il mondo. Quindi di istruirsi, di leggere, di fare ricerca. Teoria affascinante, ma sospetta di ingenuità, di indebita oltranza e in alcuni casi di palese malafede. Negli ambienti della cultura umanistica è molto diffuso oggi un approccio celebrativo e trionfalistico delle opportunità offerte dalle macchine: un approccio per il quale, ad esempio, le nuove tecnologie – nate ieri – sono chiamate a sostituire integralmente metodi di lettura, di scrittura, di trasmissione e di elaborazione delle informazioni affinatisi gradualmente, attraverso un percorso plurimillenario. Ma c’è dell’altro. Molto diffuso, tra i ricercatori delle scienze umane, è un senso d’inferiorità nei confronti delle cosiddette scienze dure (e questa stessa terminologia, viziata da una sorta di razzismo ideologico-culturale, meriterebbe attenta riflessione) che li induce a mutuare metodi e forme di produzione estranei alla tradizione delle loro discipline al fine di apparire più in linea con standard di ricerca che si stanno imponendo come egemonici. Si assiste così a curiosi scimmiottamenti delle pratiche di lavoro delle discipline tecniche (ho in mente ad esempio la creazione, in giro per il mondo, di improbabili Laboratori per lo studio quantitativo di fenomeni letterari). E intanto si afferma silenziosamente il pericoloso primato della cosiddetta STEM (Science, Technology, Engineering, and Maths) Education, in cui si dissolve l’idea che discipline umanistiche, assieme a quelle scientifiche, trovino la loro più alta realizzazione non nel campo dell’applicazione tecnologico-ingegneristica, ma nella dimensione della ricerca di base, teorica, disinteressata e non applicativa, di cui il mezzo tecnico è solo un inessenziale strumento.

Quali i rischi di una eccessiva tecnologizzazione del sapere?
Ce ne sono varî, ed alcuni sono ben visibili già nelle generazioni dei cosiddetti Millennials : si va dalla progressiva perdita della capacità di concentrazione all’incapacità di cercare informazioni, di collazionarle, di analizzarle e di processarle per vie diverse da quelle di un motore di ricerca. Se la celebrata predilezione per la visualizzazione tipica delle branche più tecnologizzate della ricerca sta disabituando alla lettura e alla comprensione di testi complessi, le stesse magnificate potenzialità dell’assetto ipertestuale stanno insidiando, nelle nuove generazioni, la percezione della linearità del testo che è uno degli appigli concettuali più forti alla comprensione della storicità, del succedersi concatenato di prima e dopo. Nell’ossessione che è stata chiamata presentista, tipica della cultura dell’età contemporanea (sempre meno interessata e capace di leggere storicamente sé stessa, e sempre più schiacciata su categorie attuali percepite come eterne, anzi senza tempo, perché non storicizzate o male storicizzate), qualche responsabilità si potrebbe cercare proprio nel modo in cui si organizzano e si esprimono i prodotti più tipici della tecnologia attuale.

Un rischio ancora più generale – che di nuovo si sta manifestando con tutta evidenza nei Paesi cosiddetti avanzati – è l’ascesa della ricerca tecnologica a modello per tutti gli altri campi del sapere. Di più: essa diviene, sempre di più, luogo d’investimento privilegiato delle risorse pubbliche. Si tratta di risorse che sole potrebbero spendersi per una ricerca lontana da àmbiti (quali appunto la tecnologia, e quella informatica in particolare) in cui il mercato ha tutto l’interesse ad investire per generare, del tutto legittimamente, profitti a breve termine. Ma non dovrebbe essere questa la funzione primaria della ricerca e dello sforzo intellettuale sostenuti dalla mano pubblica. Né dovrebbe essere questa l’organizzazione di un sano sistema accademico, in cui non a caso i Politecnici sono stati considerati in origine come particolari ed eccezionali appendici, diverse fin nel nome dai luoghi della ricerca vera ed essenziale.

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