“L’impero nei Balcani. L’occupazione italiana dell’Albania (1939-1943)” di Alberto Basciani

Prof. Alberto Basciani, Lei è autore del libro L’impero nei Balcani. L’occupazione italiana dell’Albania (1939-1943), edito da Viella: quali furono le premesse politiche dell’aggressione?
L’impero nei Balcani. L’occupazione italiana dell’Albania 1939-1943, Alberto BascianiGià all’indomani dell’unificazione italiana e soprattutto dopo il 1870, quando risolte prima la questione veneta e poi quella romana, il nuovo regno d’Italia poté definire meglio le direttrici della sua politica estera, l’Albania divenne progressivamente una delle principali preoccupazioni della diplomazia italiana. Il territorio albanese acquisì importanza sia per contenere la spinta austro-ungarica nel bacino adriatico sia come eventuale testa di ponte per una penetrazione politica, commerciale e culturale di Roma verso il Basso Danubio e i Balcani. Non va dimenticato il ruolo giocato dalle comunità arbëreshë, ossia gli albanesi d’Italia meridionale, nel determinare la nascita e il consolidamento di un sentimento nazionale albanese. Una necessità tanto più urgente in quanto con il disgregamento inarrestabile dell’Impero ottomano gli stati cristiani balcanici (in particolare Serbia, Montenegro e Grecia) avevano messo gli occhi su ampie porzioni di territorio sqipetaro. Nel novembre del 1912 fu proprio l’Italia (questa volta d’accordo con l’Austria-Ungheria) tra le potenze che caldeggiò la proclamazione dell’indipendenza albanese vista come uno strumento per sbarrare verso l’Adriatico alla Serbia. Anche durante la Prima guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra l’Italia continuò a mantenere vivo – sia pur con alterne vicende – il suo interesse nei confronti dell’Albania con l’obiettivo di farne una sorta di protettorato e addirittura l’ambizione di controllare direttamente la città di Valona e il suo territorio. Il fascismo, in qualche modo, cercò di proseguire e approfondire questo tratto della politica estera liberale. Anzi, la dura rivalità sorta con l’inedito stato jugoslavo, la volontà di dominio sull’Adriatico e l’ambizione di esercitare una politica di potenza nei Balcani – approfittando degli spazi vuoti lasciati dall’Austria-Ungheria e dalla Russia – spinsero Mussolini a investire consistenti energie e capitali in Albania. L’occasione propizia gli fu offerta dall’avvento al potere di un bey (signore) del Nord, Ahmet Zogolli, installatosi al potere, dopo alterne vicende, verso la fine del 1924 e deciso a restarvi a ogni costo. Per Zogolli le grandi risorse finanziarie messe a disposizione dall’Italia erano fondamentali per mantenere salda la sua rete di alleanze e clienti e cominciare a costruire almeno le fondamenta di uno stato moderno. per Mussolini la massiccia presenza in Albania divenne, dalla metà degli anni Venti, l’unico concreto risultato ottenuto dalla sua politica orientale. Con gli anni le risorse italiane si mostrano fondamentali per la sopravvivenza al potere di Zogolli (dal 1928 proclamatosi re degli Albanesi con il nome di Zog) ma ormai le ingerenze di Roma erano tali che il rapporto si era trasformato in una sorta di protettorato non senza impuntature e resistenze da parte del monarca albanese ben conscio dell’abbraccio fatale stretto da Roma. L’invasione maturò in tale contesto. Per il fascismo e il suo duce si trattava di espandere anche in Europa la politica imperiale messa in atto in Africa. La conquista in Albania rispondeva agli ideali di politica di potenza propri del fascismo, l’azione militare fu molto di più di un semplice diversivo tattico per cercare di riequilibrare il difficile rapporto con la Germania nazista. Dominare l’Albania significava chiudere la morsa nei confronti della Jugoslavia, dominare l’Adriatico e gettare le basi per ulteriori passi in avanti sia verso il Mediterraneo orientale sia verso i Balcani. Di fatto dall’aprile del 1939 l’Italia non solo abbatté l’ultimo diaframma dell’ormai moribondo sistema di Versailles ma diventa anche una potenza balcanica e alterò ulteriormente gli equilibri mediterranei come dimostrano i forti segnali di inquietudine che l’operazione suscitò da Atene a Bucarest e Ankara fino ad Alessandria d’Egitto.

Quali vicende segnarono l’occupazione italiana del Paese delle Aquile?
La propaganda fascista presentò l’occupazione, tanto all’opinione pubblica italiana che mondiale, come una sorta di operazione di polizia volta a restaurare l’ordine e il buongoverno nel Paese vicino soggiogato dal malaffare di Zog e della sua cricca. Dopo l’aprile del 1939 formalmente l’Albania mantenne la sua indipendenza e i vincoli con l’Italia furono stabiliti attraverso l’unione delle due Corone. Vittorio Emanuele III, dunque, dopo aver ricevuto il titolo di imperatore d’Etiopia fu proclamato anche re d’Albania. A Tirana fu installato un nuovo governo (dominato dai bey locali), fu emanata una nuova costituzione che proclamò la perfetta parità di diritti e doveri tra cittadini italiani e albanesi. Nei fatti i destini dell’Albania furono nelle mani dell’Italia e i due strumenti principali furono la Luogotenenza del Re in Albania e il Sottosegretariato per gli Affari Albanesi (SSAA) costituito presso il ministero degli Affari Esteri a Roma. Inoltre fu fondato il Partito Fascista Albanese (Partia Fashiste e Shqipërisë, PFSh) unico caso in tutti i territori conquistati dal fascismo prima e durante la Seconda guerra mondiale. La complessa architettura istituzionale messa in atto in Albania ci indica la volontà del regime fascista di mantenere almeno le forme esteriori dell’indipendenza e della sovranità albanesi ma già nel 1940 il grande studioso di diritto internazionale Pietro Angelo Sereni indicò con chiarezza, dal suo esilio newyorkese, come quello stato albanese, privo del ministero degli Esteri, di autonomia finanziaria, di un proprio esercito e di una propria forza di polizia ecc., fosse poco più che una scatola vuota e che anzi l’Italia con quell’operazione segnò la strada che avrebbe contraddistinto la formazione dei vari stati satelliti dell’Asse sorti in Europa durante la guerra. D’altro canto la conquista albanese pose al regime una serie di problemi nuovi e importanti: l’Italia si era appropriata di uno stato europeo dall’architettura statuale ancora rozza – ma in via di definizione sempre più precisa grazie proprio ai provvedimenti di Zog degli anni precedenti – abitato da una maggioranza di popolazione di fede musulmana e le cui élite spesso si rifacevano alla tradizione imperiale ottomana di cui si erano impregnate da generazioni a Salonicco, Alessandria d’Egitto e nella stessa Costantinopoli. Ciò costrinse il fascismo ad accantonare – almeno formalmente – ogni atteggiamento di superiorità razziale esteriore al contrario di quanto avveniva, per esempio, in Africa orientale e nella stessa Libia e, dunque, l’Albania nella comunità imperiale fascista acquisì una posizione di preminenza di gran lunga superiore allo stesso Dodecaneso. La fondazione del Partito Fascista Albanese stava a sancire questo fatto oltre che servire per legare a doppio filo le élite locali con Roma e i suoi proconsoli in terra sqipetara.

Come si articolò il processo di italianizzazione dell’Albania?
L’italianizzazione strisciante dell’Albania rappresenta senz’altro uno degli aspetti più controversi e interessanti (dal punto di vista dello studioso, naturalmente) dei quattro anni di presenza italiana oltre Adriatico. In primo luogo dimostra che la conquista italiana fu tutt’altro che un’azione improvvisata essa, al contrario, si inseriva pienamente, lo ribadisco, nei progetti di espansione imperiale tratteggiati da Mussolini. Infatti all’indomani della conquista l’Albania divenne una sorta di grande laboratorio della potenza imperiale italiana. Vengono messi in atto precisi piani di sfruttamento delle risorse naturali del Paese (si pensa anche allo sviluppo turistico) e un ambizioso progetto di costruzioni infrastrutturali. A Tirana furono chiamati alcuni dei più importanti architetti e urbanisti del tempo, tra tutti Gherardo Bosio, che trasformarono radicalmente in pochi mesi l’aspetto urbano della capitale e delle più importanti città. Proprio Tirana e il suo porto naturale, Durazzo, divennero il baricentro non solo della nuova Albania ma anche una sorta di vetrina proiettata verso il resto dei Balcani della modernità del fascismo e della sua forza di trasformazione anche delle società più arcaiche. In questo contesto l’italianizzazione giocò un ruolo fondamentale ed ebbe come vettore fondamentale la lingua italiana, presto divenuta obbligatoria in tutte le scuole, e la chiara supremazia in tutti i campi dell’elemento italiano su quello albanese. Il rispetto delle forme e la cooptazione di alcuni rappresentanti delle élite sqipetare in alcune delle più prestigiose istituzioni del tempo (per esempio Senato del regno e Accademia d’Italia), non impedì un’opera di strisciante sottomissione del resto della popolazione albanese destinata a giocare esclusivamente un ruolo da gregario. Basti pensare al ruolo decisivo giocato dai cosiddetti consiglieri permanenti – una sorta di direttore generale di nazionalità esclusivamente italiana – imposti in ogni ministero. Da qui la stessa peculiarità del sistema scolastico messo a punto dagli italiani per il Paese delle aquile: una rete di scuole elementari e tecniche e professionali che fossero in grado di preparare un adeguato numero di giovani albanesi destinati a ricoprire ruoli di rincalzo sempre alle dipendenze degli italiani. Un numero ristretto, infine, di studenti avrebbe invece proseguito gli studi superiori universitari in Italia.

Come si concluse la presenza italiana in Albania?
La presenza italiana si concluse nel peggiore dei modi. Anche gli italiani presenti in Albania furono travolti in pieno dalla tragedia dell’8 settembre. Come nel resto dei Balcani i reparti del Regio Esercito di stanza in Albania, ancorché contassero su una capacità bellica, pressoché intatta, furono abbandonati da Roma al loro destino e dipesero dalle singole decisioni di alti ufficiali nella maggior parte dei casi inadeguati ad affrontare l’eccezionalità del momento. Il risultato fu che il grosso dei reparti furono facilmente travolti dai tedeschi che divennero in breve padroni del campo. La stragrande maggioranza dei soldati furono internati in Germania mentre una parte minoritaria decise di restare a combattere a fianco dei partigiani albanesi spesso in condizioni difficili. L’Albania, tuttavia, presenta anche un’altra particolarità che la differenzia dal resto dei Balcani sotto occupazione italiana e, cioè, la presenza di un grande numero di civili. Solo una parte di essi riuscì a riparare in tempo nella penisola. Tantissimi restarono intrappolati a Tirana e nelle altre località. Per molti fu l’avvio di una fase durissima nelle loro rispettive vite in quanto soprattutto quanti potevano vantare determinate specializzazioni (medici, veterinari, meccanici, elettricisti ecc.) furono trattenuti con la forza in terra d’Albania ancora per parecchi anni in quanto furono costretti a mettere le loro competenze al servizio del nuovo potere totalitario comunista che si impose dopo il novembre del 1944.

Comunque detto questo conviene fare, sia pur brevemente, un passo indietro. L’inizio della fine del dominio italiano sull’Albania lo possiamo situare senz’altro durante la sciagurata campagna di Grecia del 1940-41, quando l’Italia fascista mostrò tutta la sua enorme impreparazione militare. In quei mesi il tentativo di legare gli albanesi al carro dell’Italia fallì miseramente, tanto più che i greci furono in grado di occupare anche una porzione del Sud dell’Albania. A partire da quei mesi una corrente di opposizione alla presenza italiana si fece sempre più robusta coinvolgendo in primo luogo studenti, insegnanti e professori. Con il 1942 l’opposizione si fece più aperta e le autorità di occupazione dovettero fronteggiare, con crescenti difficoltà, l’attività di bande armate sia di tendenza comunista che monarchico-borghese. Nel corso del 1943 la tenuta italiana in alcuni territori, particolarmente del Sud, si fece estremamente precaria, era il caso delle province di Argirocastro o Valona dove solo le città erano ancora tenute saldamente dalle forze italiane. Per concludere si può dire che l’occupazione e la fittizia unione con l’Italia furono il fattore determinante per la nascita in Albania di un forte e radicato sentimento nazionale che, forse per la prima volta, fece superare al Paese la tradizionale divisione imposta fino ad allora dalla presenza dei potentati locali i cosiddetti bey.

Quale bilancio storiografico è possibile tracciare dell’impresa albanese?
Per quanto mi riguarda è stata forse la mia ricerca più lunga e complessa, ciò è imputabile al fatto che non esisteva fino ad allora uno studio organico dell’occupazione italiana dell’Albania. È vero che circa un anno fa – o poco più – è uscito il volume di Giovanni Villari frutto della rielaborazione della sua tesi di dottorato, ma pur con diversi pregi è uno studio che risente molto dell’impostazione storiografica dell’A. molto attento alle questioni di natura militare. Esistevano poi una serie di studi sparsi ma, ripeto, nulla di sistematico. Il mio è dunque il primo tentativo di raccontare in maniera approfondita quest’impresa dell’imperialismo fascista cercando di toglierla da un cono d’ombra che ne aveva sempre sminuito la portata nel contesto della politica di potenza mussoliniana e della partecipazione dell’Italia alla Seconda guerra mondiale. Dal punto di vista storiografico la conquista dell’Albania e i piani ambiziosi messi in cantiere dal regime in terra sqipetara ci confermano l’ipotesi sulla natura aggressiva, imperialista e razzista del fascismo deciso a portare avanti una politica totalizzante che andava ben oltre l’Africa orientale e Suez. L’impresa albanese si saldava in maniera strutturale con una visione di dominio che si sarebbe dovuta estendere con decisione verso il Sud-est e il Sud-ovest della penisola balcanica senza mai dimenticare la tenaglia stesa attorno alla Jugoslavia. Con questo volume ho cercato di strappare quel velo di superficialità che per anni, e i più vari motivi, era stato steso attorno all’impresa dell’aprile 1939 e cercare di collegarla sia agli studi nel frattempo giunti sulla presenza italiana nei Balcani durante la Seconda guerra mondiale sia, ripeto, al complesso della politica estera fascista e, vorrei dire, alla visione nei confronti del resto del mondo nutrita dai vertici dello stato fascista. Il mio volume non ha chiuso il cerchio, credo piuttosto che il cantiere sia ancora aperto e mi aspetto negli anni a venire nuove prove e nuovi risultati magari anche in un più stretto rapporto con gli storici locali.

Alberto Basciani (1968) è professore ordinario di Storia dell’Europa orientale presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Roma Tre dove dirige il Centro interdipartimentale di ricerca sull’Europa orientale, la Russia e l’Eurasia (CRIERE). Si occupa prevalentemente di storia politica e di modernizzazione dei paesi balcanici negli anni tra le due guerre mondiali, comunismo romeno e imperialismo fascista nei Balcani. Ha appena pubblicato per i tipi di Viella il volume L’impero nei Balcani. La conquista italiana dell’Albania (1939-1943). Tra i suoi ultimi lavori si segnalano: con Egidio Ivetic, Italia e Balcani. Storia di una prossimità, Il Mulino, 2021 e L’Illusione della modernità. Il Sud-est dell’Europa tra le due guerre mondiali, Rubbettino, 2016.

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER
Non perderti le novità!
Mi iscrivo
Niente spam, promesso! Potrai comunque cancellarti in qualsiasi momento.
close-link