
I flussi migratori rappresentano realmente una minaccia alla nostra sicurezza?
Se non ci facciamo suggestionare da chi ha un interesse politico ad enfatizzare il fenomeno (per ritorni elettorali, per giustificare politiche restrittive spesso lontane dai principi del diritto umanitario, per distrarre da problemi reali verso i quali non c’è capacità di agire) direi proprio di no. Ma soprattutto, per chi rimane eventualmente preoccupato: è già in atto dai primi anni Novanta una politica ferrea di restrizione e controllo, che non può avere naturalmente efficacia assoluta (noi vediamo nelle migrazioni via mare in sostanza i limitati fallimenti di questi strumenti, che si amplificano nel caso di crisi internazionali). L’idea che vi siano spazi senza controlli e confini aperti su cui intervenire è totalmente fuori luogo e i dibattiti politici che si costruiscono paventando questa alternativa sono privi di senso. Il libro ricostruisce in chiave storica la messa a punto di questo sistema di controllo.
In che modo costruire un senso di sicurezza per alcuni determina spazi di insicurezza per altri?
Questo è un modo prudente per riprendere un adagio latino “mors tua vita mea” che è stato posto a fondamento delle politiche di contenimento nei confronti dei movimenti migratori derivanti dall’emergere della guerra nel Mediterraneo (segnatamente i conflitti in Libia e Siria in essere dal 2011, che dopo una serie di movimenti di popolazione nella forma di sfollati interni o verso gli Stati più vicini hanno prodotto dal 2013-14 spostamenti anche a più ampio raggio entro il Mediterraneo, come spesso accade nelle crisi internazionali). È emerso un principio abbastanza consolidato a partire degli anni 1970 a difesa della sponda nord mediterranea, secondo cui i movimenti di popolazione che si originano nei Sud del mondo derivanti da crisi internazionali lì devono rimanere. Il punto è che la “mors tua” è una morte reale, con riferimento ai migranti e sfollati intrappolati in Libia o in Siria a causa delle politiche di contenimento, mentre il “vita mea” non emerge in relazione a un pericolo reale ma alla necessità di far fronte a fenomeni (tra cui il parziale spostamento di movimenti di popolazione dalle zone di conflitto o ad esso limitrofe a zone più lontane) che pur generatisi al di fuori dello spazio nazionale interpellano uno spazio regionale ampio di relazioni internazionali (la sua destabilizzazione o il suo ri-equilibrio) da cui volenti o nolenti non possiamo, in quanto paese mediterraneo, tirarci fuori. In senso più generale l’argomento è quello della relatività della sicurezza, che non è mai un fattore assoluto o che può essere “allocato” in forma omogenea e indiscriminata: la sicurezza di alcuni corrisponde sempre alla sicurezza/insicurezza di altri, è cioè un aspetto che andrebbe preso in considerazione solo in termini relazionali.
Quale bilancio critico delle dinamiche migratorie che hanno investito l’Italia negli ultimi anni si può dunque trarre?
Come detto, i flussi recenti via mare verso l’Italia e più in generale l’Europa sono da legarsi ai due conflitti del Mediterraneo, Siria e Libia. Dal punto di vista dei conseguenti movimenti di popolazione, il primo ne rappresenta un caso classico, mentre il secondo esprime la disaggregazione del mercato del lavoro interno alla Libia legato precedentemente all’economia della rendita petrolifera, in cui dagli anni 1990 vi era un’ampia fetta di manodopera proveniente dalle regioni dell’Africa subsahariana. Rispetto a questi fenomeni, il cosiddetto confine esterno europeo (rispetto allo spazio di libera circolazione interna) si è rivelato estremamente rigido e i suoi strumenti ordinari sono stati ritenuti sufficienti per far fronte ad una situazione che invece ordinaria non era e che richiedeva perciò strumenti più flessibili e specifici. Questa rigidità, come vari autori che nel testo prendo in considerazione hanno messo in evidenza, non ha fatto altro che amplificare questi movimenti di popolazione, sino a che non è stato ripristinato un sistema di contenimento attraverso gli accordi con la Turchia del 2016 e con le milizie libiche del 2017, in questo modo “internalizzando” non solo la crisi ma anche i costi (umani) delle sue conseguenze, lontano dai nostri occhi. Dall’altro lato, guardando all’interno dello spazio europeo, il cosiddetto Sistema comune di asilo ha mostrato tutte le sue differenze tra uno Stato e l’altro, generando tutta una serie di tensioni e conflitti interni sino a far paventare il pericolo di un vero e proprio collasso del sistema Schengen, una delle reali architravi dell’Unione. Più in generale, la struttura istituzionale ed i processi decisionali a livello di Unione Europea si sono rivelati fragili e farraginosi. L’esito tuttavia di questi processi ha rinvigorito quell’interpretazione specifica dell’Unione come mero assemblaggio di Stati e governi sovrani e ha stabilizzato una serie di prassi (si pensi agli accordi citati con la Turchia e le milizie libiche) che pur non intaccando in modo formale la struttura giuridica dell’Unione costituiscono una palese contraddizione dei suoi principi fondanti.
Quali discorsi pubblici sono stati costruiti attorno alle dinamiche migratorie che hanno investito l’Italia negli ultimi anni?
Come detto, il tema dell’invasione è stato il discorso prevalente, capace di aggregare attorno a sé un’interpretazione dei flussi migratori verso l’Italia (in reazione a una loro narrazione, egualmente insostenibile, che faceva riferimento in forma del tutto depoliticizzata a tragedie e disastri epocali africani – la trimurti dei disastri africani: guerra-carestia-povertà – e a un umanitarismo generico e a-storico) ma anche di porsi a simbolo centrale per una ridefinizione delle identità e appartenenze politiche, in quanto specchio di rifrazione di paure e incubi generati certo dalla crisi economica ma in cui prendono anche forma una serie di angosce latenti (la bomba demografica, la vendetta dei popoli colonizzati,
l’immigrazione programmata islamista) e nuovi fantasmi agitati dalla globalizzazione e dalla precarizzazione delle posizioni socioeconomiche (la sostituzione etnica, la deregolamentazione al ribasso di salari e mercati del lavoro). L’imbroglio mediterraneo, il titolo che ho dato al volume, è in questo senso un imbroglio della rappresentazione, un imbroglio della rimozione (soprattutto della situazione libica) ma anche un imbroglio della cittadinanza, poiché i cittadini sono trasformati in oggetto passivo di politiche di propaganda che suscitano allarmi e che poi si candidano alla loro risoluzione, a una trasformazione cioè dei cittadini in folle, agitate da fili emotivi, angosce e paure. Quando la cittadinanza è trasformata in “maggioranza minacciata” vi è una crisi e un pericolo per la rappresentanza democratica stessa.
Cosa rivela l’analisi e lo studio dello scenario storico-politico delle migrazioni via mare verso l’Italia?
Se poniamo le migrazioni via mare entro un quadro storico di medio politico, a partire dal momento in cui sono emerse come un tratto specifico dei flussi migratori verso l’Italia, in sostanza dai primi anni 1990, notiamo che il fattore determinante delle stesse, quello che ne determina i periodi di maggiori intensità, è la presenza di crisi internazionali, conflitti e destabilizzazioni, nel Mediterraneo. Negli anni 1990 questo significava area balcanica ed Albania, oggigiorno Libia e Siria. Vi è tuttavia una difficoltà nel discorso pubblico italiano non solo a pensare i cambiamenti sociali della contemporaneità, che comprendono naturalmente anche i flussi migratori, ma anche a collocarsi entro uno spazio regionale più ampio, a livello sovranazionale (l’Europa continentale da un lato e il Mediterraneo dall’altro), a cui apparteniamo e verso cui abbiamo responsabilità.
In che modo è allora possibile ripensare tanto il tema dell’accoglienza di migranti e rifugiati quanto il senso dell’azione umanitaria e del diritto d’asilo?
Non vi è stata una reale accoglienza in questi anni, ma la messa in atto di un sistema emergenziale (peraltro ora in via di smantellamento nel momento che l’emergenza, in termini di flussi consistenti in arrivo, si è fermata) di finta accoglienza, in cui la penuria delle risorse a disposizione ha prodotto la percezione opposta di eccesso (sono troppi!) e incontrollabilità del fenomeno. La discussione sull’accoglienza non può limitarsi a un mero dibattito su quanto ritenere e quanto modificare dei decreti sicurezza ma deve ripensare le forme organizzative e le competenze necessarie, ponendo al centro la persona. Ugualmente l’umanitarismo è stato in tempi recenti spesso piegato alle logiche di politica estera degli Stati, diventandone mera ancella o meccanismo riparatore, oppure decontestualizzato entro richiami all’intervento che non si ponevano il problema del contesto e del campo di forze entro cui si trova ad operare. Il sentiero da riprendere è invece quello di un umanitarismo legato a un’idea di internazionalismo e di valori universali capaci di porre a livello tanto nazionale quanto globale il tema della giustizia, di una cittadinanza compiuta e attiva e di politiche reali di redistribuzione che possano rimuovere le disuguaglianze.
Luca Ciabarri insegna Antropologia culturale presso l’Università degli Studi di Milano. È autore di I rifugiati e l’Europa (2016), Antropologia culturale (con S. Allovio e G. Mangiameli, 2018), Cultura materiale (2018) e L’imbroglio mediterraneo (2020).