“L’Illuminismo tra religione e politica. I philosophes di fronte al popolo” di Elena Giorza

Dott.ssa Elena Giorza, Lei è autrice del libro L’Illuminismo tra religione e politica. I philosophes di fronte al popolo edito dal Mulino: quale visione avevano i philosophes del peuple?
L’Illuminismo tra religione e politica. I philosophes di fronte al popolo, Elena GiorzaÈ necessario, laddove si intenda parlare del rapporto tra philosophes e peuple, definire in via preliminare il termine “popolo” e introdurre alcune distinzioni determinanti per una corretta comprensione dell’oggetto in questione. D’altra parte, nell’ambito linguistico e concettuale settecentesco francese, la consapevolezza della ricchezza e dell’ambiguità semantica del sostantivo peuple compare a più riprese – basti pensare ai dizionari più noti del tempo: il Furetière dei protestanti, il Trévoux dei cattolici e l’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert. L’idea che «il popolo sia un’idra a cento teste» (Dictionnaire de Furetière, 1690) si rivela ampiamente condivisa tra le élite intellettuali dell’epoca – generalmente distanti per tradizioni, prospettive e obiettivi, ma perlopiù unite quando si tratta di fare i conti con l’irriducibilità concettuale e finanche politico-sociale del popolo. L’immagine del serpente policefalo, che si rigenera moltiplicato sotto i colpi della spada di Ercole, esprime eloquentemente l’impossibilità di ridurre la mostruosità multiforme del peuple a un’immagine univoca e compatta.

Ad emergere nelle riflessioni degli autori sono almeno tre diverse connotazioni del termine. Accanto al peuple inteso, generalmente in termini neutri, come nazione, vi sono altre due accezioni. Da una parte, il popolo che si identifica con una specifica classe sociale – quella dei contadini e degli operai – e che finisce per coincidere con la populace o la canaille sediziosa, e per escludere, a ragion veduta, la nascente borghesia di artigiani e commercianti, pubblico privilegiato della filosofia illuministica. Dall’altra, la multitude, ovvero la massa cieca e ignorante che, indipendentemente da criteri di ordine economico e sociale, si oppone alla ristretta cerchia dei saggi e ospita, a pari titolo, poveri e cortigiani. Solo avendo presente tale polisemia è possibile confrontarsi adeguatamente con la diversità dei giudizi sul popolo rintracciabili negli scritti filosofici, senza cedere alla tentazione di archiviare lo slittamento di piani lungo i quali è giocato il rapporto philosophespeuple nei termini di semplici contraddizioni e ripensamenti.

Questa premessa, doverosa, sebbene contribuisca a sgombrare il campo da grossolani errori ermeneutici, non intende negare l’ambiguità insita nelle modalità con cui l’Illuminismo si confronta con il peuple diversamente inteso, ma, piuttosto, fornirne una possibile chiave di lettura, capace di conservare la molteplicità di sguardi. D’altronde, l’illusione di poter eliminare, in ottica riduzionistica, questa ambivalenza si scontra con la duplicità propria del quadro generale nel quale emerge la necessità illuministica di interrogarsi sulla natura multiforme del popolo. Tale quadro, chiarificatore rispetto alla questione in oggetto, è ben sintetizzato da due domande che pervadono il dibattito settecentesco: da una parte, se sia utile ingannare il popolo per mezzo di “pie frodi”, dall’altra se si possa e si debba illuminarlo.

Certamente nuova è l’esigenza, sorta a partire dalla cacciata dei gesuiti dalla Francia negli anni Sessanta del XVIII secolo, di interrogarsi su quale tipo di istruzione riservare al popolo – le riflessioni pedagogiche seicentesche, infatti, erano tese essenzialmente a delineare un modello educativo per principi e nobili. Tuttavia, non altrettanto innovative appaiono le risposte fornite, ancora legate ai timori aristocratici e paternalistici del passato e alla volontà di conservare i privilegi d’Ancien Régime. Non solo l’impostura religiosa è chiamata a svolgere la funzione, già teorizzata dal libertinismo erudito seicentesco, di instrumentum regni, quando si tratta di governare la canaille. Ma l’istruzione ritenuta adatta alla populace si riduce a una semplice alfabetizzazione di base, all’apprendimento di nozioni tecnico-pratiche, atte ad accrescere l’efficacia produttiva dei lavoratori, e alla trasmissione di rudimenti di religione e morale, volti a persuadere all’obbedienza e alla pacifica sottomissione. Infatti, se si esclude il progetto di riforma per l’accesso all’università presentato da Diderot a Caterina II di Russia – e peraltro, mai attuato –, l’istruzione popolare pensata dai philosophes non prevede un percorso formativo di secondo grado – la cui portata potenzialmente sovversiva a livello politico-sociale costituisce un timore espressamente dichiarato dai rappresentati dei Lumi.

Si spiega così il conservatorismo di d’Alembert, Voltaire e Grimm, che non mancano di applaudire chi, come La Chalotais, esclude espressamente il popolo dalla sfera intellettuale: «la ringrazio per aver bandito lo studio tra i contadini. Io, che coltivo la terra, ho bisogno di braccianti, non di chierici tonsurati. Mi mandi soprattutto dei fratelli ignorantelli per trainare i miei aratri» (lettera di Voltaire a La Chalotais del 28 febbraio 1763).

Quale distanza si rintraccia, nelle opere degli enciclopedisti, tra la dimensione teoretica e quella pratica?
A cogliere pienamente, seppur in termini evidentemente provocatori, lo scarto rintracciabile nelle riflessioni dei philosophes tra la dimensione puramente teoretico-filosofica e il piano pratico-politico è Robespierre, che afferma eloquentemente: «questa setta, in ambito politico, è sempre rimasta al di sotto dei diritti del popolo; in ambito morale, invece, è andata ben oltre la distruzione dei pregiudizi religiosi. I suoi corifei talvolta hanno inveito contro il dispotismo, ma sono stati pensionati dal despota; talora hanno scritto delle opere contro la corte, e talaltra delle dediche ai re […] sono stati fieri nei loro scritti e servili nelle anticamere» (Sur le rapport des idées religieuses et morales avec les principes républicains et sur les fêtes nationales, 1794).

Si tratta di un giudizio aspro e dai tratti apparentemente faziosi, ma capace di mettere in luce una questione spesso passata sotto silenzio dalla storiografia settecentista. Il primo elemento di interesse del passo di Robespierre è il riferimento polemico a due degli esponenti di spicco del cosiddetto partito radicale dei Lumi: Diderot, che nel 1765 vende la sua biblioteca a Caterina II, la quale non solo gli concede di conservarla presso la propria abitazione fino alla morte, ma gli assegna anche una pensione annuale come bibliotecario, e d’Holbach, che dedica l’Etocrazia (1776) a Luigi XVI e che, allo stesso tempo, parla in termini aspramente ironici della vita di corte, scrivendo il Saggio sull’arte di strisciare ad uso dei cortigiani (1790). Infatti, a destare sorpresa è il fatto che la distanza tra la dimensione speculativa – segnata dalla lotta a ogni forma di oscurantismo, di impostura religiosa e politica, di ignoranza e di pregiudizio e, dunque, da una marcata volontà progressista – e la dimensione politica – in cui si ritrovano gli elementi del conservatorismo aristocratico dei secoli precedenti – non coinvolga solo il fronte moderato dei philosophes, ma anche l’ala portavoce dell’ateismo materialistico.

Gli stessi atei, i quali criticano Voltaire, in quanto “apostata volontario della verità” che teorizza una religiosità razionale, ma non rinuncia al Dio cattolico vendicatore e rimuneratore come freno necessario per governare la plebaglia, finiscono per tradire la tanto conclamata etica della trasparenza, quando la riflessione è chiamata a uscire dall’esoterismo filosofico e ad entrare nella sfera pubblica, dove non è possibile sottrarsi al confronto con la populace.

Il caso di d’Holbach è esemplare: se, nei testi di critica antireligiosa, la condanna del fenomeno religioso in tutte le sue forme e la denuncia della natura essenzialmente politica dell’impostura religiosa sono inequivocabili, al contrario, nelle opere politiche (in particolare nell’Etocrazia e nella Morale universale, 1776), la messa tra parentesi dell’ateismo materialistico e la parziale riabilitazione dei ministri della religione, nella veste di divulgatori di una morale “umana e di natura”, sono rivelatrici del fallimento di un ateismo non filosofico, ovvero pratico-politico, alla portata di tutti.

Nella prospettiva d’holbachiana, la società atea, di bayleana memoria, non può realizzarsi concretamente, non tanto a causa del carattere elitario delle istanze razionali dell’ateismo – inaccessibili per natura alle donne e ai “mal nati” –, ma soprattutto per la minaccia che costituirebbe per l’ordine politico ed economico. La difesa da parte dei philosophes degli interessi della borghesia in ascesa – interessi che appaiono in manifesto contrasto con quelli di una canaille potenzialmente emancipata e inclusa nei processi di mobilità sociale – fa sì che essi, come affermato da Paulette Charbonnel, «lottino per distruggere l’ordine feudale, conservando in sé un acuto senso delle differenze di classe. Essi credono di legiferare per tutti gli uomini. Ma, in realtà, legiferano per se stessi, per un singolo ceto sociale. Costoro si apprestano evidentemente a sostituire una gerarchia di classe a un’altra, quella del merito e del successo sociale, a quella di nascita» (Remarques sur la futurologie politique du groupe Holbach-Diderot, 1976).

Quale lettura offre il Suo studio delle ambiguità e delle contraddizioni che definiscono nella sfera pubblica la relazione tra la filosofia dei Lumi e la religione?
Per rispondere a questa domanda, e in particolare per giustificare l’approccio metodologico che sottende il mio lavoro, può risultare utile fare riferimento al contenuto di una lettera che il 3 marzo 1766 Voltaire invia a Claude Philippe Fyot de La Marche: «Vorrei che su vostra raccomandazione egli disegnasse e incidesse per me una tavola abbastanza bizzarra, destinata a un breve scritto in ottavo. Si tratta di rappresentare tre ciechi che cercano a tentoni un asino che fugge. È l’emblema di tutti i filosofi che corrono dietro alla verità. Io mi considero uno dei più ciechi e ho sempre corso dietro al mio asino. È dunque il mio ritratto che vi chiedo». Il patriarca chiede a La Marche di intercedere per lui presso l’incisore François Devosge, al fine di convincerlo a incidere una tavola, destinata probabilmente a costituire il frontespizio de Il filosofo ignorante.

Il soggetto del disegno richiesto da Voltaire è descritto chiaramente: si tratta di tre ciechi che tentano invano di inseguire un asino che scappa. Anche il significato metaforico dell’immagine è dichiarato: se i ciechi rappresentano i filosofi – Voltaire incluso, per sua stessa ammissione –, l’asino simboleggia la verità.

Quest’ultimo aspetto – la rappresentazione della verità sotto le vesti di un asino – è tutt’altro che consueta: d’altronde è lo stesso philosophe a riconoscere la stravaganza e l’originalità della propria richiesta, che definisce bizare. Tradizionalmente, infatti, – si pensi all’Iconologia di Cesare Ripa – l’asino è simbolo di ignoranza, sterilità, viltà e subordinazione che danno origine a arroganza e cieca ostinazione. Laddove la verità è raffigurata solitamente – e anche nell’immaginario settecentesco – come una donna di aspetto nobile, vestita di un bianco lucente, con in mano uno specchio e una bilancia; o come una fanciulla nuda o velata, in contrasto con la donna dai tratti mostruosi ed eccessivamente abbigliata che costituisce la menzogna da smascherare – si pensi ai frontespizi dei Pensieri filosofici di Diderot e dell’Enciclopedia.

L’immagine volteriana ha, dunque, un preciso obiettivo. La scelta di raffigurare la verità per mezzo dell’emblema dell’ignoranza – l’asino – sembra implicare la volontà di istituire un’identità tra verità e ignoranza. La verità perseguita dai tre filosofi ciechi è riducibile a una forma di insipienza, non solo perché di fatto si rivela illusoria e non raggiungibile, ma anche perché in realtà non esiste alcuna Verità in senso assoluto, ma solo verità parziali, individuali e soggettive, peraltro altrettanto chimeriche: ognuno corre dietro “al proprio asino”, alla propria verità, al proprio hobby-horse – per usare un’espressione di Laurence Sterne, nota a Voltaire –, ovvero a una propria ossessione personale, del tutto vana. Si tratta di una pseudo verità, di una forma mascherata di ignoranza.

Se è vero che l’immagine delineata costituisce un ritratto fedele dei filosofi in genere, tuttavia a fare la differenza è la consapevolezza di tale condizione e il diverso atteggiamento che ne deriva. Emerge così il motivo per cui l’incisione di Devosge avrebbe potuto essere un frontespizio adatto per uno scritto quale Il Filosofo ignorante, in cui la norma seicentesca dell’esprit de système viene apertamente contestata in nome di una manifesta rivendicazione antisistematica: «I sistemi sono come topi che possono passare per venti piccoli buchi, ma che alla fine ne trovano due o tre che non possono lasciarli passare» (Voltaire, voce Barba delle Questioni sull’Enciclopedia). A distinguere le ambizioni universalistiche delle metafisiche seicentesche dalle opere volteriane è proprio la convinzione – tipicamente illuministica – che, posti i limiti della conoscenza umana, vi siano delle zone d’ombra, destinate – provvisoriamente o definitivamente – a rimanere tali e che compito della filosofia sia quello – per usare le parole di Diderot – di moltiplicare le nubi, piuttosto che di dissolverle – tentativo, quest’ultimo, destinato a fallire.

A fronte del dichiarato carattere antisistematico della filosofia dei Lumi, il mio studio ha tentato, dunque, di adottare, dal punto di vista metodologico, un approccio antiriduzionistico, volto a dare conto delle ambiguità proprie del rapporto philosophespeuple, problematizzando le apparenti contraddizioni all’interno di un quadro concettuale più ampio e articolato. In termini storiografici, questo ha consentito di porre in discussione l’idea – ampiamente accettata dalla letteratura secondaria e teorizzata dal celebre studio di Jonathan Israel (Radical Enlightenment: Philosophy and the Making of Modernity, 1650-1750) – che il libero pensiero eterodosso settecentesco si sviluppi contemporaneamente tanto a livello filosofico quanto sul piano politico in chiave ugualitaria. La convinzione che l’ateismo teoretico vada di pari passo con una prospettiva politica di tipo democratico trova, infatti, una chiara smentita negli scritti di molti esponenti di spicco del radical enlightenment, come mostra il caso paradigmatico di d’Holbach. Ad avere la meglio è il timore che la negazione del Dio giudice, compromettendo i precetti cristiani di cieca obbedienza e mansueta accettazione della condizione sociale a cui la volontà divina, insondabile e incontestabile, ha destinato ciascuno, contenga in sé i germi della sovversione.

Al fine di garantire la stabilità politica, sociale ed economica e di evitare lo scaturire di ribellioni e rivendicazioni di diritti politici da parte della canaille, sulle cui spalle pesa l’intera sussistenza della nazione e dalla cui subordinazione dipende l’ascesa della aurorale borghesia, anche chi si autoproclama sulla carta nemico dell’impostura e degli artifici dissimulatori finisce per giudicare lecito – in quanto utilitaristicamente vantaggioso – derogare alla trasparenza del potere e rinunciare al trionfo generalizzato della ragione sull’oscurantismo politico-religioso.

Elena Giorza ha conseguito il dottorato di ricerca in Filosofia presso la Scuola Internazionale di Alti Studi «Scienze della Cultura» della Fondazione Collegio San Carlo di Modena. I suoi interessi di ricerca vertono sull’Illuminismo francese e, in particolare, sui rapporti tra religione e politica nelle opere dei philosophes. Ha pubblicato saggi su Voltaire e d’Holbach, sulla querelle tra deismo e ateismo, e sulla questione settecentesca dell’utilità di educare il popolo.

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