
Il principe Myškin, ventisei anni, torna in Russia dopo aver passato buona parte della sua breve vita in Svizzera, dove è stato curato per una grave forma di epilessia. Grandi occhi azzurri, sguardo fisso, abbigliamento modesto. In un fagottino tutte le sue sostanze. Nel vagone che lo porta a Pietroburgo c’è un altro personaggio, stessa età, ma capelli neri, occhi grigi. “Un sorriso sfrontato, ironico e persino cattivo.” È Rogožin. Origini modeste, avventuriero senza scrupoli, impulsivo e violento. Il principe conta di recarsi dalla famiglia del generale Epančin, la cui moglie dovrebbe essere una sua lontana parente. Rogožin invece conta di entrare nelle grazie di Nastas’ja Filippovna, donna affascinante, già protetta e amante del ricco Tockij. Nel vagone c’è anche Lebedev, intrigante funzionario informatissimo di tutti gli affari dell’alta società pietroburghese. Arrivato a Pietroburgo, il principe conosce la famiglia Epančin: il generale, la moglie e le tre figlie, delle quali “si parlava con spavento del fatto che avevano letto tanti libri”; la più giovane e più bella si chiama Aglaja.
Ecco, abbiamo fatto conoscenza praticamente di tutti i protagonisti, le cui alterne vicende e contorte relazioni costituiscono la trama delle più di settecento pagine del romanzo. Sia Rogožin che il principe amano e vogliono sposare, a turni alterni, l’incostante Nastas’ja Filippovna, che però fugge sempre all’ultimo momento; ma il principe ama anche Aglaja, e accade che stia per sposare anche lei. Com’è naturale, vista l’incompatibilità delle aspirazioni dei personaggi, la vicenda si conclude in modo drammatico per tutti.
Centrale è il carattere del principe: sempre pronto a capire i comportamenti degli altri, generoso fino all’incoscienza, buono oltre ogni sensatezza. Prolisso, portato all’analisi dei casi umani, capisce con acume i personaggi che gli si parano davanti, ma non sa scegliere, è sempre tormentato da una ricerca del buono e del bello che finiranno per perderlo. Fa parte a pieno titolo della schiera degli inetti, ma è in buona compagnia. Inetto è lo stesso antagonista Rogožin, che il principe un po’ lo ama e un po’ cerca di ammazzarlo; inetto è l’ambiguo Lebedev; e inette e immature sono in fondo anche Nastas’ja e Aglaja, nessuna delle quali sa scegliere con decisione il senso da dare alla propria vita.
Come in altri romanzi, Dostoevskij intreccia la vicenda principale con altre, secondarie, che danno al romanzo una struttura ramificata, nella quale tutta la vita delle classi agiate della Russia ottocentesca viene messa sotto analisi. “D’un tratto e quasi del tutto inaspettatamente compì venticinque anni,” così si parla di Aleksandra, la maggiore delle Epančin, che dovrebbe sposarsi prima di diventare una conclamata zitella. Un discorso a parte merita la presenza, a casa di Rogožin, di una copia del Cristo morto di Holbein, della quale il principe dice, inaspettatamente, che è un quadro che “potrebbe far perdere la fede a qualcuno”. Il quadro ricompare in un’altra lunga ramificazione del libro, “la mia indispensabile spiegazione”, una sorta di testamento, pieno di recriminazioni e di rivendicazioni del diritto al suicidio che il giovane Ippolit, moribondo, legge a un’allibita platea di nobili e altoborghesi. Un testo confuso, ma ricco di immagini vivide, “gli uomini sono fatti per tormentarsi l’un l’altro”, e di intuizioni profonde: “In ogni serio pensiero umano che sorge nella testa di qualcuno, c’è sempre qualcosa che non si può trasmettere in alcun modo agli altri.” E del Cristo morto di Holbein: “Contemplando quel quadro la natura appare come una belva enorme, implacabile e cieca.”
Un’altra ramificazione, originalissima e metaletteraria, si verifica quando, all’inizio della quarta parte, l’autore entra in prima persona nel racconto, analizza il proprio lavoro e spiega l’importanza della figura dell’inetto. Dice, a sé e a noi lettori, che ci sono persone difficili da caratterizzare perché sono tipi comuni: mentre gli scrittori tentano di ritrarre personaggi che di rado si incontrano nella realtà, ma nella narrazione appaiono più reali della realtà stessa. Dostoevskij invece si dice che “lo scrittore dovrebbe cimentarsi nello scoprire sfumature interessanti e istruttive anche nell’ordinarietà”. E conclude con una sorta di corollario dell’inettitudine: “Non c’è niente di più triste che essere ricchi, di buona famiglia, di bell’aspetto, abbastanza istruiti e intelligenti, persino buoni, e al tempo stesso non avere nessun talento, nessuna peculiarità, neanche una stranezza, né un’idea originale, insomma essere proprio ‘come tutti’.”
Quasi in conclusione, parte integrante della storia ma per la sua lunghezza una sorta di racconto a parte, c’è l’imbarazzante sproloquio che il principe elargisce ai molto altolocati e sconcertati ospiti del ricevimento degli Epančin, in cui si dovrebbero annunciare i fidanzamenti di Aleksandra e di Aglaja (con lui). In una sorta di delirio esalta la nobiltà russa, fa cadere un vaso prezioso, se la prende con la chiesa cattolica, la rivoluzione francese e l’incapacità russa di darsi un obiettivo di rinascita nazionalistica.
Nella febbre oratoria del suo catastrofico discorso, il principe Myškin rivela tutta la sostanza della sua bontà cristiana, della sua esasperata fiducia nell’uomo e nella sua possibilità di emendarsi. Lì forse troviamo il senso dell’affermazione sulla bellezza. Lo intuisce lo stesso Ippolit, affermando che il principe pensa che la bellezza salverà il mondo perché è innamorato; e vede, per questo, un mondo in cui la bellezza e la bontà, la kalokagathia dei greci, frutto non di naturalità e istinto ma di ragione ed emozione, della forza dell’uomo, renderà il mondo più giusto. Un’aspirazione che la conclusione stessa del romanzo dimostra essere fallimentare: Nastas’ja morirà, Aglaja farà un cattivo matrimonio, il principe tornerà a essere internato in Svizzera e Rogožin finirà in Siberia.»
tratto da Il lavoro del lettore. Perché leggere ti cambia la vita di Piero Dorfles, Bompiani