
I trent’anni trascorsi dalla metà degli anni Ottanta, che abbiamo messo al centro del volume che ho curato con due colleghi specialisti di integrazione europea, sono quelli in cui si è formata l’Europa di oggi. Siamo storici, e gli storici sono affascinati dalle “origini”; ma il Piano Schuman e i “padri dell’Europa” servono a poco per capire l’Europa di oggi, e allora ecco l’analisi del cambiamento: dagli anni Ottanta è iniziata una grande trasformazione politica, economica e culturale a livello globale, l’Europa ha partecipato di questo cambiamento, compito degli studiosi è far capire come e con quali conseguenze, considerando piani diversi come i modelli economici, le politiche, le istituzioni, singole personalità, le idee, come nei quindici saggi di ricerca di questo volume, lavori di storici e economisti italiani.
Sull’oggi possiamo dire che, con un certo ottimismo della volontà, Jean Monnet ha scritto che “l’Europa si farà nelle crisi, e sarà la somma delle risposte che verranno date a quelle crisi”. In realtà, in passato i periodi di crisi forse hanno generato idee, ma i passi avanti sulla via dell’integrazione sono venute in periodi di prosperità economica e di pace politica. Oggi sembra che delle risposte politiche oltre che tecniche stiano prendendo forma, rimane da vedere cosa emergerà. Se il processo deve ripartire sono necessari leader europei, non nazionali, che siano convinti che nell’integrazione si trovino le soluzioni, non i problemi.
Quanto si è allargato il divario fra le istituzioni europee e i cittadini, specie italiani?
L’UE ha sempre peccato di scarsa capacità di comunicazione e di poca trasparenza, frutto non tanto di volontà quanto dei suoi meccanismi; oltre che di un pizzico di arroganza tecnocratica che ieri veniva riverita, oggi detestata. Il sistema presenta lacune di legittimazione democratica, anche se spesso chi glielo rimprovera se ne preoccupa poco quando si sposta nel contesto nazionale. D’altra parte, i cittadini europei sanno poco, e si preoccupano poco, di come funzionano le istituzioni europee, e questo si capisce quando le accusano di colpe opposte: di non fare abbastanza e di interferire troppo nelle scelte nazionali. Questo atteggiamento schizofrenico tocca l’acme in Italia, il paese membro in cui in passato il consenso per l’integrazione era altissima, mentre oggi è il più basso in assoluto, minore che in stati di radicato euroscetticismo come la Svezia o la Danimarca. La discesa è cominciata negli anni Novanta e è diventata crollo dopo il 2012-2013. Un rovesciamento dell’opinione pubblica simile non si è verificato in nessun altro paese, l’Italia non è quindi un caso paradigmatico e sarebbe un errore pensare che il disfattismo europeo che si respira in Italia domini anche nel resto d’Europa. Ciò detto, la fiducia nelle istituzioni comuni e il sostegno per una maggiore integrazione sta calando dappertutto e in tutti i settori socio-economici.
Nel volume un tema di grande interesse per il caso italiano, che fa riflettere sull’importanza del modo in cui l’integrazione viene rappresentata e compresa, è quello del “vincolo esterno”, l’idea che ha mediato per diverso tempo il rapporto fra l’Italia e l’UE. Soprattutto dalla fine degli anni Settanta, all’UE si è affidato, da parte di alcuni politici e molti tecnici, il compito di fissare parametri, vincoli appunto, da utilizzare per giustificare scelte politiche impopolari, per cambiare pratiche e “vizi” nazionali. Tuttavia da un certo momento la funzione del “vincolo esterno” ha cessato di essere percepita come positiva, strumento di modernizzazione e sviluppo, e ha cominciato a generare un risentimento identitario, che si è progressivamente politicizzato. Come si afferma in uno dei saggi, dal punto di vista delle scelte economiche, vi è qui chi sostiene che le voci critiche inascoltate evidenziavano con realismo che certi tratti caratteristici dell’economia, dello stato o della società italiana erano incompatibili con le scelte operate, anche con il consenso italiano, a Bruxelles.
Tra i maggiori cambiamenti che hanno riguardato l’assetto stesso della UE vi è certamente il processo di allargamento, che oggi rischia però di tramutarsi da successo a fatica: è lecito parlare di una «grande Europa stanca»? Come si è articolato il dibattito sull’allargamento dopo il 1995?
L’allargamento è considerato fin dalle origini una sorta di vocazione dell’integrazione europea, una cartina di tornasole della sua vitalità e uno strumento di legittimazione politica. Attraverso i successivi allargamenti, le istituzioni hanno reso espliciti obiettivi politici e fissando i criteri per l’ammissione – stato di diritto, multipartitismo, rispetto dei diritti umani – hanno formalizzato principi che nei trattati non erano scritti da nessuna parte – oggi lo sono. Tutti gli allargamenti del XX secolo sono stati considerati dei successi. Nei primi anni Novanta l’allargamento a Est è apparso per l’Europa occidentale già integrata il coronamento necessario della sua vocazione politica, il raggiungimento dei confini geografici del Continente, la vittoria comune sul comunismo, valori simbolici, ma anche obiettivi concreti; ma già a metà anni Novanta è diventata evidente l’ambiguità della condizionalità politica e la mancanza di entusiasmo delle opinioni pubbliche, sia nei vecchi stati membri sia nei candidati, da una parte e dall’altra il calcolo si è fatto economicistico e i tempi lunghi dei negoziati hanno creato tensioni, nonostante la distanza che andava colmata fosse così grande da suggerire cautela. Lo stallo in cui si trovano oggi le candidature dei paesi dell’ex-Jugoslavia e dell’Albania rappresenta un segnale chiaro della crisi di identità ancora prima che di risorse dell’UE contemporanea.
Qual era la visione europea di Romano Prodi e come si è espresso il ruolo della Commissione da lui presieduta?
Nel volume c’è un ritratto politico inedito e attento della Presidenza Prodi, la prima italiana dai tempi di Franco Maria Malfatti, che aveva dato le dimissioni dopo solo due anni di mandato, nel 1972. Stimato in Europa per le privatizzazioni dei primi anni Novanta, su cui nel volume si trova un’attenta riflessione, e per avere portato l’Italia nell’euro, Prodi seppe comporre una Commissione di altissimo profilo, con commissari autorevolissimi, competenti e di spicco. Questo all’indomani delle dimissioni anticipate della Commissione guidata da Jacques Santer, a seguito di accuse di malgoverno e corruzione, un vero trauma per quella istituzione. Prodi intraprese quello che è stato definito “il lavoro più difficile del mondo” con un’idea forte del suo ruolo, dell’istituzione che andava a guidare, e con un progetto politico ambizioso dal punto di vista politico, di ispirazione federale e di rilancio dell’integrazione, che cozzava contro una realtà politica ormai orientata in tutt’altra direzione. Raccolse un’eredità complicata in un periodo di ininterrotto e complesso cambiamento: interno e internazionale, in campo politico, economico e culturale. Nel guidare la Commissione Prodi ha combinato forme di accentramento del potere con una leadership considerata da molti troppo morbida, le difficoltà si sono accumulate e soprattutto le sue iniziative in ambito istituzionale hanno suscitato reazioni negative.
In che modo la Banca Centrale Europea ha rappresentato un baluardo contro le crisi finanziarie e un motore d’integrazione europea?
Delle tre crisi cui accennavo, la crisi finanziaria è l’unica a avere trovato l’UE teoricamente munita delle istituzioni e delle competenze con cui fronteggiarla. Anche se ci sono studiosi che ridimensionano il suo ruolo a fronte di altri attori non europei, nel volume si mostra come la BCE abbia saputo assumere la responsabilità di scelte pro-attive e creare gli strumenti per sostenere gli stati in maggiore difficoltà e contrastare, in particolare attraverso la cosiddetta unione bancaria, le conseguenze negative, e appunto portatrici di maggiore asimmetria fra gli stati membri, dei turbamenti di mercato e della speculazione.
Come si articola l’actorness internazionale dell’Unione europea?
L’integrazione è anche conseguenza della percezione degli stati europei di avere perso la capacità di pesare sulla scena mondiale. Una politica estera comune non è però mai stata accettata né dagli stati membri, né da stati terzi. Sia per gli uni che per gli altri, sostituire l’azione collettiva a quella dei singoli stati membri non sembra vantaggioso e i trattati e la prassi istituzionale riflettono questa resistenza. Inoltre l’UE agisce in un sistema internazionale composto di stati nazionali, senza esserlo perché rimane un sistema unico e ibrido. Sia per le sue politiche comuni, sia in quanto insieme dei paesi membri, per la forza del mercato unico e dell’euro, per il ruolo geopolitico, la sua capacità normativa, l’UE è però a tutti gli effetti un “attore internazionale”, che in diversi casi e in diversi momenti manifesta il suo protagonismo, più o meno deliberatamente. Ciò avviene attraverso l’hard power quanto a forme di soft power, di influenza oltre che di potere. Dopo anni in cui prevaleva l’idea dell’Europa “potenza civile”, si è passati all’idea della “potenza normativa”, si sono difesi il multilateralismo e i principi del liberismo economico, ma si è provato anche a creare una capacità di agire militare. In due aree geografiche analizzate nel volume si possono misurare i limiti interni e esterni posti al suo protagonismo, per volontà o per insufficienza di mezzi, il Mediterraneo e l’ex-Jugoslavia.
Quale ruolo è chiamata a svolgere l’Unione europea sul tema dei diritti umani?
Dai primi anni Novanta l’UE ha attribuito alla difesa e alla promozione dei diritti umani un ruolo centrale nelle sue politiche esterne, ne ha affermato in ogni contesto la centralità, ha favorito il rafforzamento degli strumenti giuridici internazionali per la loro tutela, il dialogo internazionale, i dialoghi bilaterali con i più diversi paesi. Molti le contestano un “doppio standard” e una strumentalizzazione politica di questo tema, con troppe omissioni nella pratica, a seconda dell’importanza degli interlocutori e degli interessi in gioco. Quello che appare più interessante tuttavia, e che rinvia al problema di definire il senso di avere una capacità di azione comune e un’identità internazionale che non sia soltanto la somma algebrica delle posizioni degli stati membri, è il fatto che soprattutto negli ultimi vent’anni nella militanza dell’UE per i diritti umani sia stato attribuito il significato di essere manifestazione del “ruolo globale” che l’UE ha assunto, “ruolo globale” che a sua volta è una funzione che legittima l’UE agli occhi dei suoi cittadini, trascendendo le capacità di azione dei singoli stati membri.
Elena Calandri è professoressa ordinaria di Storia delle relazioni internazionali all’Università di Padova, è componente del Comitato scientifico per la pubblicazione dei documenti diplomatici italiani del Ministero degli esteri e del comitato editoriale della rivista Journal of European Integration History. I suoi interessi di ricerca riguardano la storia internazionale post-1945, la politica estera dell’Italia repubblicana, la storia del processo di integrazione europea su cui ha fra l’altro pubblicato con M.E.Guasconi e R.Ranieri Storia politica e economica dell’integrazione europea (Napoli, Edises, 2015), le relazioni internazionali nell’area del Mediterraneo.