
Per iniziare, tra le questioni discusse nel libro, potremmo chiederci a che punto sia l’unificazione politica e mentale che è stata prospettata all’Europa dopo la caduta del muro di Berlino. Alcuni capitoli del nostro libro dedicati ai paesi post-socialisti sembrano suggerire che un divario tra la ‘vecchia’ Europa e quella ‘nuova’ si perpetui riproponendo ancora la concezione settecentesca dell’Europa orientale ‘arretrata’, questa volta nella versione dei ‘nazionalismi retrogradi’ incapaci di costruire una democrazia matura. Oggi come allora, il ricorso a schemi stereotipati poco contribuisce a creare quel senso di comunanza che si dichiara di voler perseguire. O, per fare un altro esempio, potremmo menzionare il ruolo del commercio delle armi, una voce dal valore economico elevato che rimane sottratta a una competizione trasparente sul mercato comune fornendo un contributo dubbio a quella sicurezza internazionale che pur si dichiara di voler tutelare. Da studiosi, di questi e vari altri nodi non sciolti i nostri autori discutono comparando i risultati raggiunti con le intenzionalità proclamate dagli attori, fossero essi legislatori, governi o forze politiche e sociali. Come riferimento valoriale della nostra iniziativa vale la pena ricordare che a promuoverla sia stata la Fondazione Venezia per la Ricerca sulla Pace. Quella della pace e del contributo che l’Europa può dare al suo mantenimento è una questione che per sua natura rimane aperta sempre.
Come si è espressa la dialettica tra progetti di Stati nazione e di integrazione europea?
Quando il processo istituzionale di integrazione europea fu avviato nel 1951 con la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, era spronato da una pluralità di motivazioni geopolitiche ed economiche, europee ed extra-europee, ma anche dal desiderio di trarre le conseguenze dall’esperienza lacerante della Seconda guerra mondiale. Voleva essere, ed è stata, un modo concreto per superare lunghe inimicizie, come quella franco-tedesca. Ma già allora la negoziazione di compromessi che costringevano alla rinunzia di qualche prerogativa nazionale fu sofferta. Non di rado, più che astratti ideali europei, furono concreti vantaggi economici a far scendere i partecipanti ai patti. Il primato dei ‘freddi’ aspetti economici nella fondazione poi anche della Comunità economica europea è stato spesso deplorato, ma si potrebbe anche rovesciare la prospettiva chiedendosi se non fosse questo un punto di forza della CEE/CE che l’Unione europea, che ne è succeduta, sta faticando a ritrovare. E questa difficolta recente nella dialettica tra Stati nazione e integrazione europea è stata spesso ricondotta a malfunzionamenti della sua complessa architettura istituzionale.
Sin dall’inizio i trattati comunitari hanno creato un ordinamento giuridico europeo nel campo del diritto internazionale, a favore del quale gli Stati nazione partecipanti rinunciano ad alcuni loro poteri sovrani: inizialmente pochi, oggi molti di più. Di conseguenza tale ordinamento riconosce come soggetti non soltanto gli Stati membri, ma anche i loro cittadini. La dialettica tra Stati nazione e integrazione europea si rispecchia nell’evoluzione del rapporto tra dimensione internazionale pattizia e dimensione costituzionale soprannazionale. Quest’ultima, grazie alla legislazione comunitaria e alla giurisdizione europea, può correggere le prassi giuridiche e gli ordinamenti delle nazioni quando divergono dai principi accordati a livello sovranazionale. Agli individui può offrire, così, tutele che l’ordinamento nazionale a volte loro nega. Questo è il caso, in particolare, della Corte europea dei diritti dell’uomo che agisce, al livello più ampio del Consiglio d’Europa, sulla base della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. ‘Giurisdizione europea’ può però anche significare che la Corte di giustizia dell’Unione europea, nell’applicare trattati e legislazione dell’UE, offra a interessi economicamente forti più tutela che non qualche ordinamento nazionale non conforme con i trattati.
A ogni modo, nell’intenzione degli ideatori, la legislazione comunitaria e la giurisdizione soprannazionale creano una dimensione costituzionale che con il tempo salda tra di loro le popolazioni dei paesi partecipanti e questi con il progetto comunitario. I risultati di tale processo formano ormai una realtà ben tangibile nella quotidianità dei cittadini. Ma vari dei nostri autori hanno segnalato dei problemi. Uno dei nostri studi evidenzia una recente tendenza della giurisdizione europea a rivalorizzare più di un tempo le prerogative statali rispetto ai diritti dei singoli. Altri rilievi riguardano specificamente il sistema giuridico dell’Unione europea che, nella crisi greca, non è stato in grado di salvaguardare i diritti sociali dei cittadini greci, mentre sul piano pattizio nella stessa occasione ha fatto riaffiorare «approcci di politica di potenza nei rapporti tra Stati membri», come scrive un nostro autore.
Il fatto è che la dimensione internazionale dell’ordinamento UE non riguarda soltanto i trattati istitutivi, ma si insinua anche nelle procedure decisionali ordinarie. Laddove a cercare compromessi sono i rappresentanti dei governi, si continua a operare con la riservatezza della diplomazia. Come evidenzia un’altra delle nostre analisi, una logica del negoziato «poco compatibile con i requisiti di trasparenza» si può trasmettere dal Consiglio d’Europa, dove ha origine, alla dinamica decisionale complessiva tra Consiglio, Parlamento e Commissione, rendendo così difficile all’elettorato nazionale o viceversa a una constituency transnazionale di individuare e poi giudicare nel processo democratico i responsabili della decisione. La percezione di un deficit di responsabilizzazione democratica che ne consegue facilita l’impressione secondo cui, mentre lo Stato nazione deve rendere conto al popolo sovrano, l’UE ne sia esente.
Quali sono le cause del parziale smarrimento del legame tra cittadinanza e welfare che affligge il continente europeo?
Il legame tra cittadinanza e welfare è l’altro grande tema emerso da molti dei nostri studi. Forse possiamo addirittura parlare di un cambio di paradigma che parzialmente ha trasformato finalità e significato dell’integrazione europea dopo il 1990. Per capirne la portata storica, è utile osservare i tempi più lunghi. Fino alla Grande guerra un chiaro concetto di diritto sociale emanante dalla cittadinanza non era emerso. Mentre gli antichi istituti di tutela sociale e caritatevoli si stavano indebolendo, l’accesso ai primi rudimentali benefici dello Stato sociale restava legato a una titolarità conferita dal lavoro e non dalla cittadinanza. Lo scenario cambiò per reagire alle conseguenze della crisi economica del 1929 e per avere successo nella competizione dei sistemi durante la Seconda guerra mondiale. Come ricorda nel nostro libro un’analisi di lungo periodo del welfare europeo, il processo di integrazione europea avviato nel 1951 è stato anche una scelta di campo geopolitica. E il campo occidentale, sin dall’Atlantic Charter del 1941, era caratterizzato dalla concezione dei diritti sociali come diritti di cittadinanza. Questo paradigma è stato indebolito e parzialmente superato dopo il 1990.
Ovviamente, parlare di ‘paradigma’ vuol dir parlare di un orientamento concettuale e non già della reale prassi sociale e giuridica. Da un lato, l’espansione postbellica dello Stato sociale è stata forte ma non in tutti i paesi europei ha seguito i principi di Beveridge. Dall’altro, smantellare o privatizzare lo Stato sociale dopo il 1990 non è stato possibile nella misura auspicata dai suoi detrattori, poiché il welfare si è mostrato essere un collante imprescindibile del consenso democratico. E tuttavia il paradigma egemone ha di volta in volta ispirato politiche e legislazioni condizionando, così, la direzione generale dello sviluppo. Quando nel 1957 venne fondata la CEE, essa operava in un contesto ancora incline alla pianificazione, alla presenza del settore pubblico nell’economia, al rafforzamento del welfare state. Quando negli anni Ottanta i diritti dei lavoratori e lo Stato sociale cominciavano a retrocedere in vari paesi, molti cittadini credevano che ‘l’Europa’ potesse tutelare i diritti sociali meglio dell’ordinamento nazionale. Rispetto a quell’attesa, oggi la prospettiva sembra essersi invertita. L’attacco ai diritti sociali è percepito provenire soprattutto da Bruxelles, e quindi si spera che almeno l’ordinamento nazionale possa offrire qualche scudo protettivo.
Anche in questo caso la percezione non risponde sempre alla realtà. Come emerge da un’altra delle nostre analisi, alcuni diritti sociali sono meglio tutelati dalle istituzioni comunitarie o dalle giurisdizioni sovranazionali che non da singoli ordinamenti nazionali. È il caso in particolare di diritti che non influenzano direttamente gli equilibri tra capitale e lavoro, a meno che non sia necessario intervenire su di essi per ristabilire la simmetria nelle regole di mercato; e quindi riguardano anche il mercato del lavoro comunitario e la tutela dei diritti sociali della forza lavoro circolante all’interno dell’Unione europea. D’altra parte, però, le prestazioni e le garanzie del rapporto di lavoro, benché regolate dalla disciplina legislativa nazionale, sono lo stesso finite sul tavolo negoziale della gestione degli squilibri finanziari tra gli Stati membri. Così i diritti sociali dei lavoratori sono diventati una variabile dipendente di dinamiche perlopiù ispirate all’austerità. L’UE e gli organi dell’Eurogruppo sono facili a esprimere ‘raccomandazioni’ di aggiustamento fiscale che non di rado insistono sulla flessibilità del mercato del lavoro e sulla riduzione della spesa per le prestazioni sociali. Il dibattito che ne consegue si ritorce spesso contro i supposti ‘privilegi’ di un gruppo di lavoratori su un altro, o di una coorte d’età su un’altra, mentre il crescente divario tra capitale e lavoro esce un’altra volta dal fuoco dell’attenzione.
Non sarebbe comunque giusta l’idea che la politica concentrata a ottimizzare le prospettive di remunerazione del capitale, vista come panacea dello sviluppo economico, sia tutta originata a Bruxelles. Quando il processo di integrazione europea ha accelerato verso l’Unione monetaria, il welfare e la presenza del settore pubblico in economia erano già da tempo sotto un fuoco concentrico di critiche. Poi, sotto l’impatto dell’implosione dei governi comunisti nell’Est Europa e sotto l’influsso delle preferenze di alcuni governi e ambienti economici forti, le ricette liberiste hanno in effetti ispirato le regole fissate nel Trattato di Maastricht e dell’Unione monetaria. Ed è diventata, questa, almeno così mi pare, non solo una delle concause importanti del parziale smarrimento del legame tra cittadinanza e welfare, ma anche del calo dei consensi che il progetto di integrazione europea sta riscuotendo tra i cittadini.
Quali mutamenti sono intervenuti nelle costellazioni geopolitiche globali nelle quali ruota l’Europa?
Anche in questo caso è utile assumere una prospettiva di lungo periodo. L’Europa era entrata nel Novecento come l’assoluta dominatrice del mondo. Poi il secolo è stato segnato dalla decolonizzazione e dall’emergere e affermarsi degli Stati Uniti come nuova metropoli economica, culturale e anche militare. In termini economici, il ruolo predominante degli USA è stato schiacciante all’indomani della Seconda guerra mondiale, anche se per quasi un mezzo secolo la sua potenza militare ha trovato un argine nell’Unione Sovietica.
Durante il periodo della divisione tra i blocchi guidati da queste due superpotenze, gli USA hanno spinto per l’avvio del processo di integrazione europea e lo hanno coadiuvato specialmente durante i primi decenni. Dopo il 1990, hanno favorito l’allargamento dell’Unione europea verso sud e verso est. Al contempo, in ambito militare e in quello geopolitico la precedenza accordata dalla maggioranza degli Stati membri dell’UE ai legami con la NATO continua a far apparire limitata la possibilità dell’Unione di sviluppare un profilo collettivo indipendente in tema di politica estera e di sicurezza, nonostante il peso economico dell’UE sia oggi paragonabile a quello americano. Assistiamo anche al ritorno dell’Asia orientale e in particolare della Cina come grande potenza economica e alla sua crescente intesa con la Russia, facilitata dai contrasti di quest’ultimo paese con l’Alleanza atlantica. Alleanza, questa, in cui, come si nota nel libro, si sono aperte delle fessure sin dall’abbandono americano, nel 1971, della convertibilità aurea del dollaro. Nei venti anni successivi le unilaterali politiche finanziarie e monetarie americane hanno continuato a creare tensioni. L’unilateralismo americano si è poi manifestato negli anni ’90 in occasione delle guerre jugoslave e nella mancata ratifica del Trattato di Kyoto. Dissidi sono infine emersi sui conflitti armati iniziati dopo l’11 settembre 2001 secondo un’agenda militare quasi esclusivamente americana, se non nell’esecuzione, nella decisione. L’attuale tasso di conflittualità tra paesi europei e l’America non si può pertanto ridurre agli aspetti di incomprensione personale tra alcuni leader. Ha una dimensione strutturale che non sparirà dopo un ricambio di persona o di partito nell’esecutivo americano.
Secondo l’analisi del quadro geopolitico condotta nel nostro libro, all’orizzonte si sta stagliando un nuovo ordine multipolare privo di egemonia occidentale, un processo contro cui gli Stati Uniti sembrano volersi opporre con tutte le loro forze. In questo scenario l’Europa deve decidersi se è nell’interesse dei suoi cittadini interpretare l’ormai tradizionale ruolo d’ausilio alle iniziative americane oppure elaborare una posizione autonoma. Questa, a volte, viene formulata a parole, anche forti, ma se poi non seguono i fatti la perdita di credibilità è tanto più grande. In questo senso la vicenda attorno al Joint Comprehensive Plan of Action sul nucleare iraniano non mi pare promettere bene.
Quale futuro, a Suo avviso, per le istituzioni europee strette tra grandi ambizioni sovranazionali e costituzionali e una consistente dimensione ancora governata dal diritto internazionale?
Dato il carattere di questa domanda, rispondo ad essa, più ancora che non alle precedenti, a titolo personale. Nella misura in cui l’attuale crisi dell’Unione europea possa essere ricondotta davvero al disegno istituzionale, direi che le istituzioni europee avrebbero una migliore prospettiva se da un lato i processi soprannazionali venissero affidati, nel recinto definito dall’accordo tra gli Stati-nazione, a una effettiva sovranità della rappresentanza parlamentare dei cittadini europei; e se, dall’altra, la dimensione del diritto internazionale, laddove è ritenuta indispensabile, venisse palesata per quella che è, in modo che i cittadini di ciascuna nazione possano poi giudicare i risultati ottenuti dai loro rappresentanti. Chi teme che nella maniera testé delineata non si possano tenere insieme ventisette nazioni, dovrebbe anche chiarire a cosa servano istituzioni che non si fidano del consenso dei cittadini che ne sono in teoria i titolari. E parlando di consenso, occorre spostare il focus dalle procedure ai contenuti delle decisioni. Si può infatti dubitare che il futuro delle istituzioni europee dipenda da ulteriori ingegnerie istituzionali. «Il dibattito sulle istituzioni – scrive una delle nostre autrici – anche se importante, è stato l’albero che ha nascosto la foresta». E di quella foresta fanno parte le «scelte politiche, in particolare quelle economiche» dell’Unione europea.
Questo è, secondo me, il punto decisivo. Personalmente, mi riesce difficile immaginare che l’UE possa mai aver incontrato tanto scetticismo tra i cittadini se si fosse dimostrata un baluardo di lavoratori, consumatori e detentori di diritti sociali contro le temperie della globalizzazione. Se, in questi decenni di politiche liberiste, avesse arginato la precarizzazione del lavoro e l’erosione dei salari reali, dei sistemi sanitari pubblici e così via. Se avesse difeso i controlli imposti ai flussi di capitale e la presenza del settore pubblico in economia così come erano in vigore, a mio avviso non a caso, durante gli anni migliori di crescita economica e di maggiore equità sociale in Europa. Invece, come una studiosa delle politiche regionali ha scritto, in questi anni ‘europeizzazione’ si è ridotta a una traduzione regionale di ‘globalizzazione’ facendo prevalere l’orientamento delle liberalizzazioni e della così detta austerità. La fatica enorme delle istituzioni dell’UE di pervenire a una posizione netta contro la privatizzazione delle risorse idriche nonostante la contrarietà palese della maggioranza dei cittadini europei, la dice lunga sul fatto che, come scrive un altro dei nostri autori, a dominare il governo dell’economia e del mercato in Europa siano «le grandi imprese, i grossi gruppi industriali, finanziari e le loro lobby».
E quel che è peggio, anche per le stesse istituzioni europee, è a mio avviso il fatto che un conflitto che di sua natura è sociale viene rappresentato, per convenienza politica, come conflitto tra nazioni, ad esempio tra quelle ‘spendaccioni’ e quelle ‘frugali’. Similmente, come prima reazione alla pandemia da Covid-19, gli Stati nazione hanno reagito con misure de-solidarizzanti, reciprocamente percepiti come egoismi nazionali. In realtà, in termini sociali, dopo anni di ‘riforme’ della sanità pubblica, quasi tutti gli Stati membri hanno condiviso una simile difficoltà nel fornire ai propri cittadini mascherine, guanti e abbastanza letti in reparti di medicina intensiva. E com’è che anche dopo due, tre mesi di pandemia, Stati industriali come quelli europei dovevano ancora affidare la produzione di mascherine alla possibilità per qualche impresa di ricavare profitti sul libero mercato lasciando molti cittadini per settimane disarmati di fronte a una minaccia reale, quando durante gli stessi mesi si continuavano a spendere miliardi dei loro tributi in armamento ipertecnologico contro minacce immaginarie?
Queste sono, secondo me, alcune delle variabili da cui dipende il futuro delle istituzioni europee, futuro su cui come storico mi guarderò bene dal fare previsioni. Questo perché, come sempre, il futuro non è ancora deciso: sta a noi deciderlo fattivamente.
Rolf Petri è ordinario di Storia contemporanea presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Si è addottorato all’Istituto Universitario Europeo di Fiesole e ha lavorato all’Istituto Storico Germanico di Roma e alle Università di Bielefeld e Halle-Wittenberg. Tra le sue monografie, A Short History of Western Ideology (2018), Storia economica dell’Italia, 1918-1963 (2002), Von der Autarkie zum Wirtschaftswunder (2001), La frontiera industriale (1990) e Storia di Bolzano (1989).