
L’emigrazione italiana è di fatto riconducibile a tre periodi. Primo periodo: la grande emigrazione, che ebbe inizio nel 1861, dopo l’unità d’Italia, e terminò nel 1920; Secondo periodo: la migrazione europea, tra la fine della seconda guerra mondiale (1945) e gli anni Settanta del Novecento; Terzo periodo: è quello del XXI secolo, con la fuga di cervelli.
Personalmente aggiungerei un quarto periodo, anche se dagli studiosi non tipizzato, che vede le migrazioni di ritorno dei discendenti di italiani nati all’estero.
Tra il 1861 e il 1985 circa 29 milioni di italiani hanno lasciato il nostro Paese. Mentre 18.725.000 (65 per cento) si sono stabiliti definitivamente nei Paesi di emigrazione, altri 10.275.000 (35 per cento) sono tornati. Attualmente ci sono quasi ottanta milioni di nativi italiani. La dimensione di questi numeri può essere ancora più chiara se si pensa che, al momento della proclamazione del Regno d’Italia, la popolazione residente nella penisola ammontava a circa 26 milioni di persone e che la popolazione italiana ha raggiunto i 56 milioni di abitanti solo nel 1981.
Parliamo, dunque, di un vero e proprio esodo, che colpì tutte le regioni della penisola.
Tra il 1876 e il 1900, l’esodo interessò principalmente il nord Italia, con tre regioni che fornivano da sole oltre il 47 per cento dell’intera quota migratoria: Veneto (17,9 per cento), Friuli-Venezia Giulia (16 per cento, ricordando però che il Friuli orientale, equivalente alla cosiddetta Contea di Gorizia e Gradisca, entro a far parte del territorio italiano solo dopo la prima guerra mondiale) e Piemonte (13,5 per cento). Nei due decenni seguenti, il primato migratorio passò invece all’Italia meridionale, con quasi tre milioni di persone che emigravano dalla Calabria, dalla Campania, dalla Puglia e dalla Sicilia, per un totale di quasi nove milioni da tutta la penisola.
L’insediamento di migranti italiani nel subcontinente latinoamericano, come già anticipato, vede il suo incremento a partire dal 1861. Il flusso di nostri connazionali verso l’America del Sud influenzò in modo significativo il commercio fluviale e le attività connesse, in particolare lungo le rive del Río de la Plata, dove i liguri entrarono per la prima volta.
Verso la fine del XIX secolo, grazie alla maggiore facilità dei trasferimenti transoceanici e all’inizio della globalizzazione, i flussi verso l’America Latina acquisirono una considerevole consistenza per il movimento dei nostri agricoltori, protagonisti scarsamente istruiti ma tenaci di quei primi viaggi.
Nel frattempo, l’industria che si stava sviluppando all’inizio del XX secolo attirò anche operatori qualificati, soprattutto in Uruguay e Argentina, ricordando che quest’ultimo Paese in quel periodo vantava i salari medi più alti al mondo.
Dopo la seconda guerra mondiale, questi Paesi hanno conosciuto molte difficoltà, sia economiche che politiche, e solo negli anni Ottanta in molti di loro ha fatto ritorno la democrazia, prima in Argentina, poi in Brasile e in Uruguay, quindi in Cile, dove nel commercio e nell’industria gli italiani di Liguria e Lombardia, allora regioni di forte emigrazione, sono stati i protagonisti indiscussi.
Quali speranze convinsero quei nostri connazionali della scelta di emigrare in America?
Certamente, il primo fattore rilevante fu per tutti rappresentato dal desiderio di un’ascesa sociale: c’era la possibilità di diventare proprietari terrieri, il che per i contadini rappresentava il premio per tutto il lavoro di una vita e per quello delle generazioni precedenti, mentre per coloro che già appartenevano alla classe media si trattava di un modo per consolidare il proprio status sociale.
A rafforzare la decisione di migrare in America Latina vi erano i racconti di chi era ritornato, che parlava di una terra ricca dove tutti avrebbero potuto raggiungere condizioni sociali migliori.
Le Americhe diventavano così il “Paese dell’oro e della Felicità” e pertanto l’unione di questi due fattori, insieme alla mancanza di una prospettiva di miglioramento delle proprie condizioni in patria, spingeva la gente a emigrare.
Chi erano gli emigranti?
Poveri contadini privi di terra da lavorare, specialmente nell’Italia meridionale, anarchici in contrasto con lo stato italiano, ma anche militari, scienziati e medici.
Che vita attendeva gli emigrati italiani in America?
Inizialmente una accoglienza diffidente ma dopo alcuni anni, grandi opportunità di lavoro, formazione professionale, istruzione sia per le donne che per gli uomini.
Certo, non tutti sono riusciti a raggiungere il traguardo tanto atteso, molti sono anche rientrati in patria, ma la maggior parte è riuscita a ricavarsi una vita più che dignitosa e certamente a garantire un futuro ai propri discendenti diverso da quello che li avrebbe attesi se fossero rimasti in patria.
Di quali imprese furono protagonisti tanti italiani nel Nuovo Mondo?
Beh delle più svariate, ne cito tre a titolo esemplificativo, Manuel Belgrano economista, politico e generale, nato da padre italiano, originario di Oneglia, provincia di Imperia, fu il creatore della bandiera Argentina.
José Serrato economista, ingegnere e politico, era figlio di un emigrato italiano originario di Giustenice, in provincia di Savona fu il primo presidente dell’Uruguay.
In Messico incontriamo un nobile esule italiano, Claudio Linati che fu il primo litografo del Messico, per gli altri bisogna leggere il libro…
Quali domande pongono oggi alla patria di origine i discendenti di quegli italiani?
Innanzitutto sono desiderosi di riscoprire le proprie radici ma sentono anche il desiderio di ottenere la cittadinanza italiana trasmessa per diritto di sangue dal proprio avo, partito cent’anni prima a cerca fortuna.
I discendenti oggi fanno parte del quarto periodo migratorio quello di ritorno verso l’Italia e l’Europa dove il conseguimento legale della cittadinanza italiana e del relativo passaporto apre loro le porte per la libera circolazione in tutta Europa.
A partire dal 2010, ondate sempre maggiori di oriundi iniziano a viaggiare verso il nostro Paese, nel quale. in tema cittadinanza, il diritto di sangue viene considerato un requisito senza limiti generazionali (come per altre normative europee); l’importante è riuscire a ricostruire l’albero genealogico corredandolo di tutti documenti necessari e dimostrando che i propri avi non abbiamo mai rinunciato alla cittadinanza italiana.
Pertanto, non starei troppo a ricercare quale siano le ragioni sociologico-culturali che spingono queste nuove generazioni di emigranti a ritornare in Italia, sforzandomi di trovare un fondamento storico o patriottico alle base dei nuovi viaggi, ma in modo molto realistico e pragmatico ritengo che questo ritorno sia orientato soprattutto a ottenere un passaporto italiano e quindi nel cercare un lavoro e una nuova vita, paradossalmente in qualche altro Paese diverso dall’Italia (che attualmente offre poco anche a noi).
Claudio Falleti, avvocato, classe 1980, Laurea Magistrale in Giurisprudenza presso l’Università del Piemonte Orientale A. Avogadro a pieni voti e con Menzione d’Onore, arricchisce il proprio percorso di studi in Spagna presso l’Università Cattolica di Avila conseguendo il Grado en Derecho ed iscrivendosi presso l’ICAM (Illustre Collegio degli avvocati di Madrid) e successivamente anche all’Ordine degli avvocati Europei di Bruxelles. Esercita la professione tra Italia e Spagna ed attualmente iscritto presso l’Ordine degli avvocati di Alessandria e Madrid. È Vicepresidente Generale della OMA (Organizzazione Mondiale degli Avvocati), già Alto Commissario per la Repubblica Italiana.