
Quale rielaborazione offre Descartes della prova anselmiana?
La prima cosa che colpisce nelle prove dell’esistenza di Dio di Cartesio è la presa d’atto che a partire da effetti finiti, come il mondo, sarà impossibile dimostrare che la causa prima coincide con il Dio della tradizione cristiana. Per questo la prova di Anselmo si impone come un punto di riferimento di estremo interesse. Anselmo, infatti, ha assunto come punto di partenza del suo argomento la definizione di Dio come ente perfettissimo, per poi dedurre che l’esistenza di questo ente non possa essere negata, pena il togliere una perfezione a quell’ente e quindi cadere in contraddizione rispetto alla sua definizione. Ma tra Anselmo e Cartesio si erge l’ombra della critica rivolta da Tommaso d’Aquino all’argomento del primo. La critica che Tommaso rivolge ad Anselmo è rimasta classica nella storia delle prove dell’esistenza di Dio. Anselmo, secondo Tommaso, avrebbe preteso di dedurre l’esistenza di Dio da una definizione che si trova solo nel pensiero, ma dal pensiero all’esistenza fuori del pensiero non c’è passaggio possibile. La mossa di Cartesio è sorprendente, perché dà ragione a Tommaso, ovvero concede che se la definizione di Dio fosse solo un atto del pensiero, non sarebbe possibile dedurne l’esistenza. Se si vuol salvare la prova di Anselmo bisogna sostenere che la definizione di Dio non è solo un atto del pensiero, ma si modella su qualcosa che già si trova fuori del pensiero, ossia l’essenza di Dio. Cartesio ha l’audacia di affermare che la definizione di Dio accessibile all’intelletto umano descrive quel che Dio veramente è fuori del pensiero. In questo modo non si potrà più accusare chi vuol dimostrare l’esistenza di Dio a partire dalla sua definizione di compiere un salto impossibile dal pensiero all’essere, perché il pensiero di Dio è già pensiero di qualcosa che è reale indipendentemente dall’essere pensato.
Come viene elaborata nel pensiero moderno la prova ontologica?
Lo straordinario successo dell’operazione cartesiana è il frutto di due spinte: una negativa, ossia l’aver affermato con assoluta nettezza e lucidità l’impossibilità di pervenire all’esistenza del Dio della tradizione cristiana, ossia un Dio unico, infinito, dotato di tutte le perfezioni, a partire dall’esistenza del mondo; e una positiva: aver fornito gli strumenti concettuali per rilanciare l’argomento anselmiano. L’indizio più evidente del successo di Cartesio in questa sua operazione si misura sulle trasformazioni che le prove dell’esistenza di Dio tratte dall’osservazione del mondo subiscono per mantenersi in vita. Invece di terminare la propria ricerca di una causa del mondo in un ente eterno o incausato, come era nella tradizione tomista, queste prove pretendono di raggiungere un ente la cui essenza implica l’esistenza, ossia l’ente di cui parlava la prova ontologica. Leibniz sarà il maggior teorico di questa modifica.
A quale stringente critica sottopone Kant la prova ontologica?
Da quanto ho appena detto, si capisce che il mio libro dà ragione a Kant quando sostiene che tutte le prove dell’esistenza di Dio finiscono nella prova che lui stesso chiamerà ontologica, avendo in mente proprio la prova cartesiana e la sua pretesa di conoscere l’essenza di Dio. Per demolire questa prova Kant non deve far altro che guardarsi alle spalle e riprendere gli argomenti di chi l’aveva respinta anche nella sua versione cartesiana. Non si tratta quindi di tornare a Tommaso contro Anselmo. La sfida è abbattere la prova nella sua versione cartesiana. Per questo non c’è che da riprendere quanto un acuto critico di Cartesio, Pierre Gassendi, gli aveva già a suo tempo obiettato: il problema non è passare dall’esistenza pensata all’esistenza fuori del pensiero. Quello che è inaccettabile è ritenere che l’esistenza sia una proprietà che si aggiunge alle altre proprietà di Dio, e che Dio non sarebbe più l’ente perfettissimo se fosse privo di esistenza. Questo è il punto che accomuna veramente Cartesio ad Anselmo, e che Gassendi prima e Kant poi mettono in discussione. La definizione dei cento talleri inesistenti non è diversa in niente rispetto alla definizione dei cento talleri esistenti, come la definizione di Dio non si modifica se Dio non esiste, quindi non c’è nessuna contraddizione a negare che Dio esista, pur avendolo definito come l’ente perfettissimo. A me sembra che la forza dell’analisi e della critica kantiana non sia nell’argomento utilizzato contro la prova ontologica, che, come ho detto, Kant non elabora per primo, ma nell’aver coinvolto nella rovina della prova ontologica ogni tentativo di dimostrare in via razionale l’esistenza di Dio. Se è vero che ogni prova dell’esistenza di Dio termina nella prova ontologica, e se questa è fallace, allora, semplicemente, si dovrà abbandonare il tentativo di dimostrare razionalmente che Dio esiste e percorrere altre vie, se si vuol continuare a includere Dio nell’ambito della ricerca filosofica. Quella di Kant, notoriamente, sarà una via morale. Se si accetta l’analisi kantiana -e il mio libro la avalla pienamente- si dovrà anche ammettere che il trionfo della speculazione razionale in teologia rappresentato dalla pretesa cartesiana di dimostrare l’esistenza di Dio a partire dalla sua idea ha prodotto il fallimento di quella stessa speculazione. E non è un risultato da poco.
Emanuela Scribano è professoressa emerita di Storia della filosofia all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Si è occupata prevalentemente di storia del pensiero moderno. Tra le sue pubblicazioni: Da Descartes a Spinoza. Percorsi della teologia razionale nel Seicento (Franco Angeli, 1988); Angeli e beati. Modelli di conoscenza da Tommaso a Spinoza (Laterza, 2006, trad. fr. Vrin 2021); Macchine con la mente. Fisiologia e metafisica tra Cartesio e Spinoza (Carocci 2015). La prima edizione de L’esistenza di Dio. Storia della prova ontologica da Descartes a Kant (Carocci 2021) è stata pubblicata da Laterza 1994, ed è tradotta in francese da Seuil 2002.