
Ma sarebbe ben modesta e riduttiva un’attività che cincischiasse nel rintracciare soltanto altri esempi di errori palesi, spigolando ripetutamente su campi di indagine in buona parte già attentamente percorsi e ripercorsi; e se è ben vero che il panorama epigrafico non cessa mai di arricchirsi anno per anno – approssimatamente sono intorno al migliaio ogni anno gli oggetti iscritti ‘nuovi’, venuti alla luce o riscoperti o riesaminati, diligentemente raccolti e divulgati nel meritorio annuario L’année Épigraphique – non sarà da queste novità, talvolta ridotte a frammenti lacunosi, che verrà nuovo e significativo incremento a un panorama che, di fatto, è già tanto vario quanto – non diremo completo, perché in nulla e mai potrà dirsi completa la ricerca storica – certamente onnicomprensivo.
Dunque, deludente o, peggio, conclusiva una simile prospettiva per l’epigrafista d’oggi? A titolo personale tutt’altro, se esse – sì, proprio le pietre iscritte – hanno colmato pienamente e con grande soddisfazione i miei primi sessant’anni di attività, dall’età della ragione all’oggi (diciamo dai vent’anni in poi), e se altrettanto promettono per quanto mi rimane.
Perché di ogni gesto operativo, intellettuale o manuale che fosse, non so mai rinunciare a individuare, o persino a supporre, o, al meglio, a riconoscere un ‘perché’. Ma è un ‘perché’ riccamente non ambiguo ma ambivalente: un ‘perché’ a monte, o con quali motivazioni in tutta una loro gamma infinita di variabili; ma anche un ‘perché’ a valle, o con quali finalità o intenzioni o velleità.
Che è un po’ l’arcanum, il segreto, di una nuova vita – non come nuova interpretazione, ma come concreta disponibilità di documenti di fatto nuovi sotto questa luce – da riconoscere all’epigrafia, come scienza autonoma dalla storia (quanto tempo e quanta fatica nell’impetrare questa dignità dall’essere stata a lungo sottovalutata come sua modesta ancilla, ausiliaria); perché essa tiene conto di una massa incalcolabile di documenti (dal mezzo a ben oltre il milione a seconda dei parametri con cui li si vogliono considerare): con caratteristiche sorprendenti di spontaneità e/o originalità, se sopravvissute – e tuttavia sempre poche in un naufragio irrecuperabile di altre moltissime – fin qui, esattamente come le vollero e come seppero e ne furono capaci i loro esecutori, proprio come se lo scalpello vi fosse appena stato abbandonato accanto; e di identità diretta, senza gli adattamenti o i ripensamenti o i fraintendimenti, attraverso i quali, in modo pur meritorio, la nobile tradizione filologica trasferì di mano in mano o di penna in penna i più antichi documenti ‘letterari’ fino all’oggi, e cui pure non si sottrassero anche le numerose iscrizioni giunte a noi solamente in trasmissione ‘cartacea’: insomma documenti scritti diretti, di prima mano, e dunque impagabili, nonostante i duemila anni che ce ne separano.
Tanto che, qui giunto, mi permetterei non di ribaltare, ma di estendere la domanda che mi si è posta: quale importanza possa avere lo studio degli errori epigrafici non tanto per la comprensione delle iscrizioni antiche in sé, ma del mondo di cui esse furono espressione diretta, immediata, originale, efficace, e straripante: non come fine della ricerca in sé, ma strumento per penetrare, magari un po’ retoricamente, nell’anima di chi ne fu utente, attivo e passivo, promotore o autore, lettore o ricettore. Con cui anticipo quanto vorrei segnalare: che un’epigrafe trae ragione e forza espressiva da una simbiosi strettamente interdipendente tra i due termini del rapporto comunicativo, l’emittente (genericamente l’autore) e il destinatario (impropriamente il lettore o chi ne prendeva atto).
Come operavano i lapicidi e in che modo ciò contribuiva alla genesi di errori?
Proprio nell’ottobre scorso (2019) in un gratificante incontro a Barcellona – lo scopo era molteplice, rigorosamente scientifico come si conviene, ma anche di confronto dialettico, e pure didattico e persino promozionale, per quel tanto di cui l’epigrafia, scienza oggi non propriamente ‘glamour’, ha sempre bisogno – proposi agli organizzatori un tema che mi stava a cuore, “il lapicida questo sconosciuto”.
Che ne è la realtà esatta. Perché si fa presto a dire ‘lapicida’, che non si intende essere soltanto chi impugnava lo scalpello e portava a compimento l’epigrafe: a parte che la definizione non è neppure d’uso classico latino, ma è piuttosto un neologismo composito di invenzione moderna, il termine non può ridursi alla semplice operazione finale dell’incisione ‘cruenta’ (neppure poi troppo semplice, perché ci vuole del bello e del buono in energia fisica e in abilità esperta per giungere ad un risultato apprezzabile) di tutto un processo creativo elaborato e complesso: nel quale il cosiddetto lapicida svolgerebbe una sola azione operativa finale (fraintendendo il lapicida non come il ‘tagliatore’ di pietre, ma più propriamente il loro incisore), o piuttosto si propone in una serie successiva di operazioni, che potrei osare di definire volta a volta come morali intellettuali fisiche.
Che poi in tutte queste successive e necessarie fasi il presunto lapicida fosse sempre lo stesso, in azione con competenze diverse – troppe! improbabile – o si avvicendasse con altri pari ma diversamente esperti, eppure non qualificabili, compete appunto con l’essere egli di fatto ‘uno sconosciuto’.
Una premessa o due… a questo punto, dopo già tante parole? Sì, ma opportune proprio qui.
Non si giustificherebbero tanta attenzione e tanto impegno per il soggetto ‘epigrafia – e me meschino, che vi ho dedicato tutta la vita – se non si avesse ben chiara e netta l’importanza in tutto il mondo antico delle epigrafi o, altrimenti dette, delle iscrizioni ‘esposte’; e segnatamente nel mondo romano e, in esso, di uno spazio temporale circoscritto quali i primi secoli dell’impero (dal I secolo a.C. allo stemperarsi verso il IV d.C.): quando coincidenze fortunate sociali e politiche ne fecero un, se non unico, indispensabile ed efficace e universale mezzo di comunicazione: in breve, le epigrafi come veri e propri ‘mass-media’ dell’epoca: stessa diffusione e stessa insistenza dei nostri d’oggi, stessa attenzione nell’usarli al meglio (se posso permettermi, mi sono persino divertito nel riconoscervi tante regole abusate della pubblicità di oggi, segno che è proprio vero che ‘niente di nuovo sotto il sole’…).
La seconda premessa (e ultima, garantito) che annunciavo: che in nessuna epoca in tutto il corso della storia la comunità umana, specialmente nelle sue forme più concentrate e urbane ma in ogni angolo dell’impero – anche questa della globalizzazione un’altra anticipazione, che però ci porterebbe troppo lontano – trovò mai da fervere e fremere, da ribollire, di altrettanta frenesia sociale. Tutti a cercare di mettersi in mostra, di emergere, di farsi valere, nei confronti del vicinato o dei concittadini, o delle autorità e poi via via delle amministrazioni fino all’imperatore: che se non è un’anticipazione dell’oggi anche questa…
E le epigrafi? Niente televisione allora, niente stampa periodica, né tanto meno i canali ‘social’ (per fortuna o purtroppo? Lo decida ciascuno…): nella comunicazione sociale tutto era affidato alle epigrafi e alla loro capacità di rendersi visibili e di convincere una sedicente opinione pubblica, sempre tutt’occhi e pronta a criticare, a sottovalutare, più raramente a esaltare secondo parametri discutibili.
Già, ma se oggi qualcuno volesse usare le epigrafi come cassa di risonanza, ben grami risultati ne ricaverebbe. Chi guarda più le epigrafi? E quando e dove mai le si vedono o se ne fa uso? Tranne le targhe stradali, la loro sorte è una e una sola, l’uso funerario, un uso riduttivo e appartato, che non sarebbe neppure il meglio per farsi propaganda.
Tutto un altro panorama il mondo romano specialmente in città: dai molti manifesti elettorali dipinti sui muri e presto sostituiti; ai segnali orgogliosi di beneficenza pubblica (arredo urbano, miglioramento stradale, bagni pubblici, templi spesso erano finanziati dai privati cittadini) dei ‘v.i.p.’ danarosi e dunque ossequiati e dunque coinvolti nelle carriere politiche; o, di rimando ma con gli stessi effetti finali, alle testimonianze di riconoscenza da parte dei beneficati; per non dire anche dell’ambito sacro, in cui la devozione privata si manifestava bene spesso in forma di solidi altari in pietra da distribuire lungo gli spazi pubblici: per esporre, ovvio, il nome di una fra le tante divinità disponibili ma insieme anche il nome del devoto generoso con lo stesso o poco inferiore risalto. Per finire con i monumenti funerari, che però, ricordiamo, non erano reclusi nei cimiteri, ma esposti anch’essi al meglio lungo le vie di traffico intorno alla città, con una concorrenza spietata fra i più appariscenti o stravaganti e proiettati per tempi lunghi: per lo più non individuali ma di famiglia e per più generazioni, sui quali emergevano insieme il nome del singolo e la ‘nomea’ della famiglia o del casato. Una elencazione un po’ lunga, questa, ma che ci riporta al centro della domanda. Di fronte a tante opportunità e possibilità, come si comportava l’interessato, il promotore, il cliente? A forza doveva ricorrere al lapicida, l’unico o l’unica categoria in grado di destreggiarsi fra tante scelte e attenzioni e cautele. Chi proponeva la scelta della pietra più conveniente? Il lapicida. A principiare dalle forme scrittorie e dalle formule da impiegare chi suggeriva le più adatte? Il lapicida. E a chi toccava di realizzare l’idea magari vaga del cliente? Al lapicida o a uno dei lapicidi specializzato in uno dei diversi compiti. E a ogni passo una possibilità di errore o di fraintendimento. Troppo dispendioso l’intervento di tanti specialisti? Possibile, cui porre rimedio con diversi gradi di ‘bricolage’, fino alle povere e incerte prove delle volonterose ma rudimentali epigrafi ‘fai da te’ sperdute nelle campagne lontano dagli atelier meglio attrezzati.
E qui gli errori o le improprietà si addensavano: l’uso di pietre neppure squadrate, ma al naturale, irregolari; l’impiego di strumenti inadatti (preziosi gli scalpelli affilati, ci si arrangiava con un punteruolo, un coltello); scarsa la pratica dell’alfabeto (talvolta con sagome provvidenziali, ma non di rado confondendo lettere simili, fra C e G, fra E ed F); persino una traballante conoscenza della lingua (le declinazioni non erano molto rispettate nella lingua quotidiana, o piuttosto la flessione dei casi non era ben scandita, ma confusa); per non dire della pronuncia impropria di certi suoni, incisi sulla pietra… a orecchio (BIXIT per VIXIT).
Tutte imperfezioni che, in certi ambienti più sempliciotti, potevano passare persino inosservati: sempre che tutti fossero in grado di leggere davvero, il che non era proprio, ciò che era esposto per iscritto. Altrove fuori città lapicidi itineranti (ma qualcuno è tuttora in funzione anche oggi) provvedevano a evitare le imperfezioni più madornali. Ma le officine di città, quanto più esperti erano i loro lapicidi, miravano a risultati ben diversi e migliori. A dire il vero le poche insegne rimaste di ‘epigrafisti’ dell’epoca non brillano certo per perfezione: disordinata e scomposta una a Roma per una clientela modesta, un ‘campione’ per attirare clienti, in realtà un guazzabuglio di ‘a capo’ disordinati; più pretenziosa una bilingue grecolatina a Palermo per produzioni di tono più ricercato, eppure sgrammaticata del suo. Ma lo standard generale della infinita produzione si manteneva elevato, merito di tanti scalpellini che erano ben padroni del loro mestiere. Effetti davvero efficaci erano ottenuti persino con un sapiente ‘lay-out’ che, variando dimensioni spazi posizioni delle lettere e delle righe di scrittura, operava una selezione di ciò che c’era scritto, mettendo in risalto le parti più importanti, cadenzando le informazioni riga per riga, di fatto indirizzando alla lettura più sensata ed efficace; e poi un uso quanto più sapiente o tradizionale delle abbreviazioni. Le abbreviazioni…, croce e delizia dell’epigrafista: ma non un intralcio alla lettura, ma piuttosto una facilitazione e una semplificazione per chi ne avesse esperienza. Come oggi, in fondo: chi mai starebbe a sciogliere per disteso una sigla come ‘la’ NATO (che nel mondo francofono è OTAN), invece di leggerla tutt’insieme come un sostantivo? E chi si attarderebbe oggi a compitare la sinistra sigla Covid19? Perché in breve la sigla ci dice tutto, in breve e senza equivoci, se ne siamo consapevoli, se c’è qualche complicità fra chi scrive e chi legge. È il meccanismo trasparente di certe sigle onnipresenti. Due sole, fra le tante più frequenti. DM (dis Manibus, agli dei Mani) era sigla tanto diffusa da diventare quasi emblema o simbolo canonico dell’uso funerario del monumento, anche se poi fu fraintesa ma tollerata: correttamente i Mani erano divinità multiple e indefinite dell’aldilà, sotto la cui protezione era messo il monumento; ma quel che conta per gli utenti era il riferimento personale al defunto, e il passo era breve nell’equivocarli come suoi ‘protettori’ diretti e personali: gli dei Mani ‘di’ sono un abuso interpretativo madornale, ma accettato spesso. Probabilmente i lapicidi erano consapevoli dell’errore, ma se ai clienti stava bene così… Come è diffusa un’altra formula, VF (vivus fecit, il monumento se lo è fatto da sé, ancor vivo, il titolare), che testimonia tante cose: la pratica diffusa di prepararsi in vita e ben in vista il monumento funebre – eccone l’effetto promozionale dove meno lo si aspetterebbe – l’orgoglio di avere provveduto da sé, senza attendere le buone grazie degli eredi, magari qui anticipati, l’intento di far risaltare il ‘peso’ della famiglia nel suo complesso. Sarà dunque un errore logico trovare insieme le due sigle in sé contrapposte, il vivus fecit legato all’attualità e il dis manibus riferito alla memoria. Per non dire poi dei casi – rari ma ci sono anche questi, come tutto si trova nel mare magnum delle epigrafi che si conoscono – di DM accanto a simboli cristiani: la massima contraddizione, ma quando la sigla non è più intesa come riferimento sacro, ma è un grafema di identificazione dell’uso funerario del monumento.
Tutti errori da addebitare ai lapicidi – nessuno è perfetto – che certamente si assumevano il compito, se capaci, di instradare, condizionare, adattare con la loro esperienza le scelte del cliente, disposto ad accettare i suggerimenti dell’esperto, di fronte a un rischio sempre incombente: l’opinione pubblica onnipresente, attenta e critica, come avrebbe accettato la novità del nuovo ‘messaggio’ epigrafico, nel momento della sua esposizione e a lungo anche dopo, perché le epigrafi erano destinate a durare nel tempo? Meglio affidarsi alla competenza di chi quel mondo lo conosceva bene per esperienza professionale. Insomma, di nessun lapicida conosciamo in nome, ma tutti insieme erano il sale, il fermento dell’intrico complessivo delle pubbliche relazioni.
Quali erano le tipologie di errore epigrafico più comuni?
No, non è facile mettere insieme una classifica di tipologie, variabile secondo gli ambienti umani e le congiunture temporali e culturali; e tanto meno stilare un elenco di casi che sono numerosi e vari quante possono essere le imprecisioni della mente umana, a dirla un po’ retoricamente.
Forse numericamente prevalgono quelli che oggi sarebbero gli ‘errori di stampa’ (scomparsi ormai anche questi con l’uso dei correttori automatici): come lo scambio fra lettere simili (si diceva prima di E/F o di C/G), qualche volta complicato dalla confusione con le linee-guida, talvolta tracciate leggermente per ‘andare diritti’ e poi fraintese come parti di lettere diverse (I che diventano L o viceversa); oppure le lettere omesse specialmente quando doppie (PISSIMVS per PIISSIMVS) e talvolta in sovrappiù (AEIUS per EIUS), specialmente di uso insolito (VICXIT o VIXSIT per VIXIT). Un caso universale e d’ogni tempo, la dimenticanza, di cui, per alleggerire il tono, propongo un esempio gustoso di oggi, quando le epigrafi sono ormai rarissime e controllate, eppure… Nel 2000 si inaugurò nel Duomo di Milano una grande lastra con l’elenco dei sinodi diocesani dal XVI secolo ad oggi e… ai futuri. Ne avevo composto e calibrato un testo complesso, di cui avevo fornito un fac-simile a grandezza naturale; eppure, quando ne cadde il drappo, la prima parola mostrava un errore, DIOCESIS per DIOECESIS: imperdonabile! Risolto l’indomani inserendo una E nana nel tondo di O. Perché, come si dice, la pietra non perdona. Ogni solco – prima l’ho definito ‘cruento’ – è indelebile. Per cancellare ogni traccia di errore bisogna eradere la superficie, scavandola un po’ e magari confonderla con la sovrapposizione di altro.
Ma qualche traccia ne sopravvive sempre: talvolta di proposito, per perpetuare la damnatio memoriae di un personaggio, dunque l’annullamento a spregio del suo ricordo, oppure per aggiornare l’informazione: un amico è accuratamente cancellato su un’epigrafe privata milanese dopo chissà quale litigio. Al contrario altrove si aggiunge a margine o nell’interlinea qualche indicazione dimenticata o non prevista: visto che ogni epigrafe era destinata a durare anche per più generazioni, pur fissando sulla pietra la realtà del momento della sua esposizione, tant’è vero che spesso i nominati sulla pietra (a parte il caso ovvio del Vivus Fecit) neppure si specifica se già defunti o sopravvissuti.
Infine, più raramente, ci sono pure errori di sostanza, preventivi anzi, per cattiva informazione o per troppa fretta: il caso singolare è una base a Como, con iscrizione a lettere metalliche applicate di cui rimangono solo i rari fori di fissaggio: tanta fatica per connetterli fino ad intuirvi una dedica all’imperatore Tiberio: peccato che Tiberio non gradisse il titolo di imp(erator) in prima posizione nel suo nome. E dunque? Forse nei primi mesi del suo potere i Comaschi troppo frettolosi, ignorando le sue decisioni, ne fecero uso abituale e se ne trovarono spiazzati: tant’è che la pietra fu fatta scomparire rapidamente nelle fondamenta di una porta nelle mura!
Insomma, anche sotto l’aspetto degli errori, tante vicende varie e intricate che rispecchiano propriamente la natura estrosa di tutta l’epigrafia, uno dei suoi migliori motivi per meritare l’attenzione. Di cui peraltro si ha una ricca esemplificazione nei diversi contributi contenuti in questo volume.
In che modo l’errore si produce anche nella tradizione e nelle lezioni delle pietre iscritte?
Ma non è mai finita, è proprio vero. Perché se la presenza di errori è una costante nella pratica epigrafica, tanto più lo è nella lunga tradizione della trasmissione e dello studio a cui le iscrizioni sono state soggette fino ai giorni nostri. E lo si può ben capire per una serie di motivi: nei secoli molte epigrafi finirono per subire le ‘offese del tempo e degli uomini’, rese spesso sempre più illeggibili e gli studiosi del tempo vi si cimentarono con le difficoltà della lettura per consunzione o per scomparsa di anche larghi frammenti; ma anche perché in una certa parte del Medioevo, erano le lettere capitali romane (il nostro ‘maiuscolo’ per semplificare) a non essere capite, frastornate dall’uso di altre forme di scrittura; così come si ignoravano o si fraintendevano realtà o istituzioni del mondo romano, chiarite solo più di recente: proverbiale l’equivoco di Cola di Rienzo, il tribuno di grande sentire civile e politico che, attivo a Roma nel XIV secolo, interpretava il pomerium, il confine più sacro di Roma, come un pomarium, e dunque come il prospero spazio agricolo di un frutteto; ma altrettanto proverbiale l’equivoco delle sigle per le tribù elettorali, correttamente inserite nei nomi dei soli cittadini romani, ma a lungo fraintese con altre formule strampalate, ignorandosi il funzionamento di quelle. Un solo esempio: la tribù elettorale dei milanesi, la Oufentina, abbreviata come ovf, veniva scambiata come la formula o(ro) v(os) f(aciatis), presente e valida sì ma in tutt’altro contesto e significato, e ingiustificata fra nome e cognome. Esempi ‘speciali’ ma di una serie di errori davvero infinita in una ormai lunghissima tradizione di studi epigrafici, intralciati a volte da ostacoli tecnici e pratici: epigrafi difficili da raggiungere per un controllo personale; o trasmesse, quando scomparse, da una tradizione spesso incerta fra chi le lesse malamente per primo, e poi passate di trascrizione in trascrizione spesso poco curate; o iscrizioni semplicemente incrostate da licheni o da male, a cui solo un’accurata e tecnologica pulizia moderna ha ridato vita e una nuova faccia, che hanno permesso nuove o più sicure lezioni e informazioni, come ho potuto con soddisfazione nel Catalogo delle epigrafi del Museo Archeologico di Milano, finalmente in stampa nel 2020 (il precedente risaliva… al 1901!). Per non dire infine degli errori… dolosi. Errori, modifiche piuttosto o fantasie perpetrate da veri e propri falsari di iscrizioni: integralmente (nel concreto di un testo inciso su una pietra) per motivi anche commerciali; altrettanto integralmente con l’ideazione di iscrizioni mai esistite se non sulla carta per sostenere realtà storiche prive di prove vere e reali, di cui si può bene immaginare l’infinità dell’esistente. Un solo modestissimo esempio, ingenuo del suo: una pietra di Aosta, interessante perché consacra e offre doni preziosi alla ‘triade’ di divinità, Giove Giunone Minerva, ma in cui il nome della donna devota ha una parte estranea e incomprensibile, *libo. Ed ecco la soluzione: la pietra appartenne un tempo (XVII secolo) alla famiglia locale dei Lyboz che in modo rudimentale finsero che fosse una gloria di famiglia di suoi presunti antenati, aggiungendo ad Antonia (Marci) lib(erta) Aphrodisia, e cioè semplicemente una Antonia Afrodisia, liberta di Marco Antonio, una abusiva ‘o’ finale, anche incisa malamente, per appropriarsene. Un falso trasparente e smaccato: un errore anche questo, ma… di comportamento.
Ma su questa strada non si finirebbe più: tant’è vero che dopo questo volume sugli errori ho pubblicato anche Spurii Lapides, risultato di un colloquio appunto delle ‘pietre false’, che anticipò un altro convegno importante a Venezia sempre sui falsi.
Insomma, chi mai volesse dubitarne ancora, forse potrebbe essere convinto da queste poche considerazioni: che l’epigrafia latina oggi, dopo radicali innovazioni interpretative, tutto può essere tranne che stantia o noiosa o monotona. E questo benché il mondo d’oggi dimostri globalmente scarsa propensione a sostenere le ‘magnifiche sorti e progressive’ dell’epigrafia…
Antonio Sartori, cavaliere al Merito della R.I., si è occupato ‘da sempre’ di Epigrafia Latina, di cui è stato docente presso l’Università degli Studi di Milano dagli anni ’70 fino al 2011, insieme con alcuni incarichi contemporanei di Storia Romana e di Numismatica. Incaricato di stage all’estero, merita d’essere segnalato il corso di ‘evangelizzazione’ (proprio il primo) dell’Epigrafia Latina in Giappone (Tokyo, Waseda University e Istituto Italiano di Cultura), da cui la stampa di un manuale di avvio in lingua giapponese. Dopo il congedo, incaricato di Storia Romana nell’Università telematica Uninettuno. Autore di alcuni volumi – fra cui Guida alla sezione epigrafica… di Milano (1994), Gente di sasso (2000), Parlano anche i sassi (2001), Loquentes lapides (2014), Pietre che parlano (2020) e di numerosi contributi specifici, autonomi o a seguito della partecipazione a oltre un centinaio di convegni internazionali (di più di una decina dei quali è stato personalmente l’organizzatore). Accademico dell’Accademia Ambrosiana, svolge tuttora attività di consulenza aperta e volontaria per Enti pubblici e privati.