
Quando e come nasce il genere eroicomico?
La nascita ufficiale è la pubblicazione della Secchia rapita di Alessandro Tassoni nel 1622, ma bisogna considerare che l’opera circolava manoscritta già dal 1616. Si indica Tassoni come iniziatore del genere perché è il primo autore che realizza con piena coscienza la coesistenza nella stessa pagina di alto e di basso, di eroico e di ridicolo. Tassoni spiega la propria idea di eroicomico nell’introduzione dell’opera, una scelta che mostra l’alta consapevolezza dell’operazione da lui compiuta. Ma, naturalmente, le premesse di una simile invenzione erano già vive in tanta letteratura comica, burlesca, macaronica, nonché nella stessa tradizione cavalleresca più tarda dei secoli XV e XVI. Parlo sia delle premesse stilistiche, sia dei presupposti storico-culturali che spiegano una simile creazione letteraria.
In che modo le esperienze burlesche, epiche e cavalleresche del Quattrocento e del Cinquecento ne hanno costituito le premesse?
L’eroicomico nasce proprio dall’esaurirsi, dal consumarsi dell’ideale eroico che era stato il modello ideale dell’aristocrazia europea per molti secoli. Un modello già morto con la rinascita economica dell’Occidente dopo le guerre barbariche: lo sviluppo dell’economia cittadina, la diffusione dei commerci su scala internazionale, la nascita del sistema bancario avevano di fatto scalzato il valore sociale e civile dell’arte militare relegandola a un ruolo secondario. Ricorderete la famosa polemica sulla nobiltà che comincia con gli autori del Duecento, e alla quale partecipa attivamente anche Dante con la sua idea della nobiltà del cuore, una polemica che continuerà nei secoli successivi: quella polemica nasconde appunto la sfida della civiltà borghese a quella aristocratica e feudale. Come sappiamo, questo sviluppo della società in Italia conosce una drammatica e lunga interruzione prima per le guerre interne ai liberi comuni, con la nascita delle signorie, e poi con l’invasione delle armate iberiche. La civiltà borghese e comunale stava elaborando il concetto di dignità personale del cittadino, con la fondazione dell’identità come valore incentrato sulle proprie capacità operative nel mondo (è la concezione umanistica dell’homo faber), valorizzando soprattutto quindi il merito individuale. Le signorie invece si configurano come associazioni a delinquere che stabiliscono il potere di una casata: i grandi delle città rinunciano alla democrazia in cambio del monopolio di alcune attività produttive, per eludere quindi il principio della concorrenza, delegando in cambio la gestione della polis a un capobanda, ovvero il signore. È a questo punto che un potere che non risponde più alla moderna concezione della società deve tirar fuori dal ripostiglio della storia gli ideali della gloria militare, dell’onore guerriero, della superiorità ontologica del cavaliere, della tradizione nobiliare, etc. La tragedia non detta, o meglio appena allusa, del Cortegiano del Castiglione sta tutta qui: il letterato, l’uomo di stato, l’intellettuale devono blandire, consigliare, suggestionare l’uomo di potere perché non possono sostituirlo quando è tirannico e incapace. La comunità non gestisce più coloro ai quali delega il potere, ma li subisce come il prodotto di una famiglia detentrice del comando. Una famiglia che quindi deve giustificare il proprio predominio anche quando i propri rampolli sono incapaci, alcolizzati, distrutti dalla sifilide, ritardati mentali, o tirannici e sanguinari, e per farlo rispolvera (o spesso inventa) una tradizione di gloria familiare, il mito della superiorità del sangue nobiliare, l’eredità di una stirpe i cui antenati conquistarono e difesero il territorio con la spada in pugno. La letteratura comica, burlesca, eroicomica dei secoli XV-XVI si fa carico di esprimere questa scollatura tra gli ideali propagati da un’aristocrazia avviata a una decadenza fisica e morale (basterebbe ricordare come si esaurirono le dinastie dei Gonzaga e dei Medici…) e la pretesa che questo ceto avevo di essere l’unico col diritto di detenere il potere in nome di quegli ideali guerrieri dei quali si è detto. Questo apre la porta alla parodia, all’ironia, al sarcasmo e anche all’inserimento nel testo cavalleresco di elementi di rottura, che provengono in genere dalla civiltà contadina e dalla sensibilità plebea. Pulci mette in campo degli eroi veri ma il protagonista del suo poema è Morgante, un buffo gigante, rozzo e manesco, che per fedeltà a Orlando si impegna in azioni eroiche, che però compie a suo modo, ovvero a colpi di randello e trattando i nemici come insetti da spiaccicare. E quando Pulci non si sente soddisfatto il suo desiderio di irriverenza, di sovversione e di comicità, fa entrare in campo una delle invenzioni più straordinarie della nostra tradizione letteraria, Margutte, il semi-gigante, un po’ demonio un po’ bambino, di fatto un piccolo criminale dedito al gioco, al cibo e al vino, che proclama un credo ateistico che irride spietatamente i dogmi del cristianesimo e che muore scoppiando per le risate. Non molto diverso è il Baldus di Folengo. E lo stesso Furioso di Ariosto corre sul crinale tra serietà e ridicolo: i suoi eroi sono burattini del grande gioco delle passioni e di veramente eroico, nella loro smania machista di combattere, c’è davvero poco, e il lettore – appena all’inizio del poema – inciampa subito in quel sarcastico avvertimento: oh gran bontà dei cavalieri antiqui con il quale il poeta irride appunto il falso mito di un’età gloriosa della cavalleria commentando l’accordo di Rinaldo e Ferraù che decidono di rapire Angelica insieme prima di decidere chi dei due potrà violentarla…
Quale fortuna ha conosciuto l’eroicomico in Italia e in Europa?
Ci sono state importanti filiazioni dall’eroicomico italiano, e le ha ben illustrate Clotilde Bertoni in un libro di qualche anno fa, Percorsi europei dell’eroicomico (1997). Scrittori di livello, come il Boileau di Le Lutrin, il Pope di The Rape of the Lock, ma anche il Voltaire di La Pucelle d’Orleans sono chiaramente debitori nei confronti dell’esperienza letteraria dell’eroicomico italiano. Ovviamente questi autori hanno operato in specifici contesti e avevano peculiari finalità e quindi hanno rielaborato in maniera personale i modelli di riferimento.
Quale funzione rivestono il corpo e il cibo nella tradizione dell’eroicomico?
Dobbiamo partire da un dato storico: stiamo parlando di una letteratura fiorita durante la prima età moderna, prima delle grandi trasformazioni dei sistemi di coltivazione e dell’innesto del volano produttivo indotto dall’aumento delle esportazioni di grano tra territori europei. Stiamo quindi parlando di un’epoca in cui letteralmente mancava il pane, un tempo in cui la produzione dei beni alimentari di base era drammaticamente scarsa rispetto al fabbisogno della popolazione. I ceti dominanti erano abituati a un consumo eccessivo di cibo e in particolare della carne, vero status symbol dell’alimentazione del tempo, e ne pagavano le conseguenze con la tipica malattia dei ricchi, ovvero la gotta, per non dire di infarti, ictus e altre patologie indotte dal poco amore per la frutta e per la verdura. Ma il novanta per cento della popolazione era costantemente denutrito e oltre ad avere occhi, pelle, capelli ed unghie fortemente danneggiati, correva continuamente il rischio di morire di inedia. Bastavano un paio di annate con i raccolti scarsi per causare una mortalità impressionante tra la popolazione. Le cronache del tempo raccontano di scene degne di un film horror, con turbe di zombi che battevano le porte delle case o si cibavano di cortecce e di erba per cercare di sopravvivere. Nelle città del tempo, la raccolta mattutina dei mendicanti morti di fame nel corso della notte era una pratica normale. Per gestire questa sperequazione la cultura dell’epoca aveva rielaborato il messaggio evangelico ai propri scopi, fino a falsificarlo. In quest’ottica il cibo e il gusto del mangiare venivano condannati come un peccato che veniva continuamente ribadito ai poveri, decisamente meno ai ricchi. Si cercava di nobilitare come valore morale e civile una patologia psicologica di autoannullamento, una vocazione al sacrificio e alla rinuncia, alla sofferenza e alla privazione. In questo quadro anche la sessualità ovviamente doveva essere rifiutata, vissuta come una colpa, come una vile condanna alla materialità indotta dal peccato originale. In questo modo le patologie mentali private venivano elevate al rango di una nevrosi collettiva che cooperava al mantenimento degli squilibri sociali. In questo contesto appare chiaro quale possa essere la risposta di un genere prudente ma intimamente sovversivo quale l’eroicomico: celebrare fino all’eccesso il corpo quale fulcro di un piacere che costituisce gran parte della coscienza individuale e del gusto dell’esistenza. Per questo i personaggi dei poemi eroicomici rivendicano il piacere del cibo, mangiano e bevono in continuazione, esibiscono in maniera divertita e soddisfatta tutta la carica erotica dell’essere umano.
Quali caratteristiche presenta la lingua dell’eroicomico?
Nel volume ospitiamo anche un contributo di Luigi Matt, docente di Storia della lingua all’Università degli studi di Sassari, che illustra bene i tratti principali della lingua dell’eroicomico. E sono tratti molto vari perché le strategie linguistiche di questi autori sono molto differenziate. Si pensi a Folengo che elabora il macaronico, ovvero una lingua mescidata fatta di italiano e di latino. Oppure si pensi al Malmantile racquistato di Lippi, scritto nella lingua furbesca della plebe fiorentina del Seicento, un testo che in diversi passaggi sarebbe del tutto incomprensibile se non disponessimo dei ricchi commenti linguistici scritti dagli eruditi delle generazioni immediatamente successive all’autore. Lo stile che compie perfettamente lo spirito dell’eroicomico è ovviamente la brusca alternanza dei registri linguistici, quando un’ottava comincia con uno stile alto, appunto con la lingua adatta al poema eroico, e poi improvvisamente decade al gergo plebeo, proprio per sottolineare l’inversione, la sovversione, l’irrisione degli ideali eroici e quindi anche della lingua che li veicolava. Più in generale nella lingua dell’eroicomico abbondano tutte quelle soluzioni che destavano il ribrezzo del grande normalizzatore della lingua italiana, ovvero Pietro Bembo: per lui la lingua degna della cultura e della corte era una lingua piatta, liscia, levigata, incentrata su quella di Petrarca, fatta di un repertorio controllato e verificato di vocaboli tutti improntati alle alte idealità morali e spirituali. In opposizione a questa lingua della vacuità e dell’ipocrisia, gli scrittori dell’eroicomico si sforzano di produrre testi dall’alto gradiente di espressività linguistica: e quindi trivialismi, voci dialettali, voci latine storpiate, abbondanza di alterati di ogni tipo, ovvero forme come asinaccio, ribaldone, sbravazzone, o astratti giocosi come buaggine (‘l’essere stupidi come un bue’), la minchioneria o la scapestratura.
Quali ricadute ha avuto fino ai nostri giorni il genere eroicomico?
L’eroicomico è rimasto nella sensibilità culturale italiana come un modello, una formula, che può essere attualizzata per ogni occorrenza, ogni qual volta ci si trova di fronte a un potere ributtante ma contro il quale è impossibile svolgere un’aperta e decisa opposizione. Il prof. Guido Arbizzoni, che credo sia l’unico studioso che abbia avuto la pazienza di seguire gli sviluppi di questo genere fino alla recente contemporaneità, segnala una serie di testi che documentano questa riattualizzazione del modello anche in tempi recenti: c’è una Cavoureide del 1854, una Negusseide del 1937, una Montedisoneide del 2001 e persino una Berlusconeide del 2010.
Massimiliano Malavasi (Roma, 1969) insegna Lingua italiana e Storia della lingua italiana all’Università di Banja Luka (BiH). È docente abilitato di seconda fascia per l’insegnamento della letteratura italiana generale. Ha studiato la storiografia barocca nel volume «Per documento e per meraviglia». Storia e scrittura nel Seicento italiano (2015) e si è occupato di Dante, Burchiello, Ficino, Parini, Pasolini, Fenoglio, della letteratura resistenziale, della tradizione italiana del genere satirico (da Vinciguerra ad Ariosto, a Rosa e Abati) e, soprattutto, della cultura di inizio Seicento (Marino, Bracciolini, Tassoni, Boccalini, Strada). È membro del comitato scientifico del periodico «L’Ellisse. Studi storici di Letteratura italiana» e della direzione di «Filologia e Critica».