
di Margherita Guarducci
Istituto Poligrafìco e Zecca dello Stato
«Epigrafia è la scienza delle epigrafi e le epigrafi, termine traslitterato dal greco ἐπιγραφαί e connesso al verbo ἐπιγράφειν (= «scrivere su [qualche cosa]»), sarebbero, stando all’etimologia, i testi iscritti in qualsiasi modo, su qualsiasi materiale. Ma questa definizione è ovviamente generica e troppo vasta. Per giungere a capire che cosa gli epigrafisti intendano parlando di epigrafi, occorre precisarla e delimitarla. Anzitutto poi bisogna riflettere, nel nostro caso, che accanto alle epigrafi greche esistono anche epigrafi pertinenti ad altre civiltà e che perciò, accanto all’epigrafia greca, esistono anche altre epigrafie, alcune delle quali esigono, anzi, non solo cognizioni ma altresì metodi differenti da parte di coloro che le coltivano. Importante fra le altre è, per noi, l’epigrafia latina che, per appartenere essa pure all’antichità classica, è strettamente legata all’epigrafia greca.
Nel primo volume della mia Epigrafia greca, giunsi, per le epigrafi greche, a formulare la seguente definizione: «Le epigrafi greche sono tutti gli scritti coi quali gli antichi Greci fissarono il proprio pensiero sulle pietre, sulle tavole (o lamine) metalliche, sui più svariati oggetti di creta, di metallo, di vetro, di avorio; sulle stoffe, sulle gemme, ed anche sulle monete. Non sono da considerarsi epigrafi gli scritti greci assegnati comunemente alla papirologia (scritti su papiri, su ostraka, e via dicendo), i quali però – ai fini della storia della scrittura – rientrano anch’essi, in certo modo, nel numero delle epigrafi greche».
Da tale definizione che, con qualche variante, potrebbe essere applicata anche alle epigrafi di altre epigrafie, emergono due caratteri propri delle epigrafi, caratteri che distinguono i testi epigrafici da quelli che la tradizione manoscritta ha fatto pervenire fino a noi. Voglio dire la unicità e la genuinità; due prerogative grazie alle quali si stabilisce subito un diretto contatto fra noi e gli ambienti, lontani nel tempo e nello spazio, in cui le singole epigrafi vennero create.
Prima di osservare più da vicino quel tesoro immenso e infinitamente vario che sono le epigrafi greche, sarà utile ricordare che nella stessa antichità greca, a cominciare dal V secolo av. Cr., esse vennero considerate oggetto di studio e fonte di attendibili notizie da parte di storici e di oratori, e – soprattutto nell’età ellenistico-romana – di periegeti, autori – questi ultimi – di «guide» (si potrebbe dire, con un termine moderno, di «Baedeker») per i turisti antichi; che molto più tardi le epigrafi greche s’imposero, specialmente in Italia, all’attenzione viva e talvolta appassionata degli umanisti; che, dopo essere rimaste per secoli – insieme alle epigrafi latine – nella cerchia dei dilettanti e dei collezionisti più o meno dotti, esse entrarono finalmente – nel XIX secolo – nel campo della scienza vera e propria. Di questo sviluppo, che certo non è privo d’importanza per la storia della cultura, ho cercato di seguire le linee generali nella mia Epigrafia greca, e a quelle pagine rimando chi voglia approfondire l’argomento. Aggiungerò qui che il felice ingresso delle epigrafi greche e latine nel campo della scienza è segnato, in sostanza, dalla comparsa di due opere monumentali, il Corpus inscriptionum Graecarum e il Corpus inscriptionum Latinarum: ambedue realizzate a Berlino, sotto gli auspici dell’Accademia berlinese delle scienze, per impulso, rispettivamente, di due grandi studiosi, August Boeckh e Theodor Mommsen. Ciò avvenne, come ho detto, nel XIX secolo, e fu il passo decisivo. Sarebbe però ingiusto dimenticare che, circa la trattazione delle epigrafi con metodo scientifico, un primo passo era stato compiuto in precedenza da Scipione Maffei (1675-1755). Questo geniale e dotto gentiluomo veronese, appassionato viaggiatore e collezionista di epigrafi (egli fondò a Verona il primo Museo epigrafico), aveva infatti dimostrato, nella sua Ars critica lapidaria, rimasta incompiuta, di avere intuito certi princìpi fondamentali per lo studio scientifico del materiale epigrafico.
Sul Corpus inscriptionum Graecarum, che a noi soprattutto interessa, e sulle altre imprese dell’Accademia di Berlino nel campo dell’epigrafia greca, mi riservo di tornare quando parlerò della bibliografia. Qui desidero di fissare l’attenzione sulle epigrafi stesse.
Le epigrafi greche a noi pervenute sono straordinariamente numerose. Ciò dipende sia dalla molteplicità e dalla diversità dei monumenti che ce le hanno tramandate, sia dall’ampiezza del periodo storico cui esse appartengono (si tratta di oltre due millenni di storia intensamente vissuta, fra il XIV secolo av. Cr. e il VII d. Cr.), sia dalla grande estensione geografica del mondo greco che, fra Grecia vera e propria, zone effettivamente colonizzate e zone d’influenza culturale, giunse a comprendere tutto il bacino del Mediterraneo, sia dall’indole stessa dei Greci che, portati alla chiarezza ed alla concretezza, desideravano più di altri popoli fissare con la scrittura gli atti più memorabili della loro vita pubblica e privata. Il numero enorme delle epigrafi greche a noi note salirebbe poi ad una cifra astronomica se ad esso potessimo aggiungere, sia pure per approssimazione, quello dei testi andati perduti nel corso dei secoli. Bisogna altresì calcolare la probabilità (o, meglio, la certezza} che nuovi incrementi vengano da ulteriori esplorazioni e scavi nelle più diverse località dell’antico mondo greco.
All’enorme numero dei testi si allinea l’infinita varietà dei loro argomenti. Nelle epigrafi greche infatti si rispecchia in tutti – si può dire – i suoi aspetti la vita degli antichi Greci, ed anche, in certa misura, quella dei popoli coi quali essi vennero a contatto nel corso della loro lunga storia; fra gli altri, in primo luogo, i Romani. Proprio l’infinita varietà degli argomenti che affiorano nelle epigrafi greche fa sì che l’epigrafia greca abbia relazione con tante altre discipline: oltre l’epigrafia latina, anche l’archeologia, la topografia antica, la numismatica, la storia politica, la storia del diritto, la storia della religione, la storia delle istituzioni pubbliche e private, la storia letteraria, la linguistica, e via dicendo. Tutte queste discipline possono dar luce all’epigrafia e, viceversa, ricevere luce da essa. È poi quasi superfluo accennare all’importanza che, nello studio delle epigrafi greche, assumono spesso le fonti letterarie e papirologiche e, viceversa, al contributo che non di rado le epigrafi offrono all’intelligenza di quelle stesse fonti.
Venendo ora ai compiti dell’epigrafista, e riferendomi non soltanto all’epigrafia greca ma in generale a tutte le epigrafie, dirò succintamente ch’essi sono, in sostanza, i seguenti: lettura del testo, eventuale integrazione delle parti mancanti, eventuale correzione di errori antichi, datazione, esame approfondito del contenuto. Si tratta, del resto, di momenti così strettamente legati fra loro da non potersi quasi concepire neppure la mancanza di uno solo di essi. Lo studio incompleto di un’epigrafe è, insomma, un assurdo. Le doti che all’epigrafista si richiedono sono poi: accuratezza e pazienza nell’esame dell’epigrafe e anche del monumento che la reca; prudenza nelle integrazioni e nelle correzioni; cultura il più possibile vasta, non soltanto nello specifico campo epigrafico ma anche in quello di altre discipline che, volta per volta, possano contribuire all’intelligenza del testo epigrafico, naturalmente per quel tanto che basta a rendere efficace il loro aiuto; e infine – di somma importanza – capacità d’intuito e padronanza del metodo. Parlando di metodo intendo, naturalmente, alludere a quel metodo sano e fecondo, unico per tutte le discipline, che si basa, come scrivevo nella mia Epigrafia greca, «sulla obiettiva considerazione del documento, sul rispetto di qualsiasi elemento ch’esso ci offra, sulla deduzione rigorosamente logica delle conseguenze dalle premesse».
Da ultimo vorrei mettere in particolare evidenza il dovere che incombe all’epigrafista di non staccare mai l’epigrafe dall’ambiente geografico, storico e monumentale che ce l’ha tramandata. Tale distacco si dimostrerebbe infatti contrario proprio a quello che è lo scopo del lavoro epigrafico: rivivere nelle epigrafi la vita stessa degli antichi e, rivivendola, progredire sulla via della verità.»