“L’enigma inesistente. Lettura iconografica della Flagellazione di Piero della Francesca” di Caterina Zaira Laskaris

Prof.ssa Caterina Zaira Laskaris, Lei è autrice del libro L’enigma inesistente. Lettura iconografica della Flagellazione di Piero della Francesca pubblicato dalle Edizioni dell’Orso: quale importanza riveste, tra le opere d’arte del Rinascimento italiano, la Flagellazione di Cristo di Piero della Francesca?
L’enigma inesistente. Lettura iconografica della Flagellazione di Piero della Francesca, Caterina Zaira LaskarisPiero della Francesca è uno degli artisti che esprimono in modo più evidente il carattere universale del linguaggio figurativo rinascimentale fiorito in Italia nel XV secolo: il Quattrocento italiano ha infatti dato forma attraverso l’apporto di percorsi artistici differenti eppure tra loro coerenti a una rappresentazione del mondo attraverso le arti visive che ancora oggi parla a un pubblico estremamente vario di entusiasti spettatori. Quel linguaggio nasceva, in piena continuità con il secolo precedente, dalla combinazione tra acuta indagine percettiva della natura e ripresa consapevole della classicità, in termini tanto materiali quanto ideali, avendo come obiettivo la ricerca e la resa di un equilibrio strutturale interno delle immagini, di un’armonia proporzionale tra i corpi e lo spazio in cui agiscono. La prospettiva matematica è la traduzione scientifica di questa ricerca estetica, che unisce il piano dell’osservazione empirica a quello della speculazione intellettuale, secondo quella sintesi tra arte e scienza, con la prima a trainare e sospingere la seconda, che è uno dei tratti più affascinanti del panorama culturale quattrocentesco. La Flagellazione di Piero della Francesca è da questo punto di vista, dalla nostra prospettiva di osservatori, un’opera emblematica di quel clima di elaborazione figurativa, caratterizzato da un intersecarsi fittissimo e fecondo di percorsi e sperimentazioni formali e tecniche, che superano i confini geografici. Questo dipinto è divenuto un’icona del Rinascimento italiano, dell’arte del Quattrocento, perché ne condensa tutti i valori a cui istintivamente siamo portati a collegarlo: armonia formale, perizia grafica, vivacità cromatica, compostezza classica, precisione prospettica. È un frutto maturo e affascinante di quel clima artistico dei decenni centrali del secolo.

Come si è espresso l’«accanimento interpretativo» di cui il dipinto è stato oggetto, specialmente negli ultimi decenni?
Si è espresso sotto forma di una grande quantità di articoli, saggi, monografie dedicate al dipinto, con un crescendo soprattutto dagli anni Novanta del secolo scorso. Forse nessun’altra opera di Piero della Francesca, ma anche di molti altri artisti, ha suscitato una simile “gara” interpretativa e la chiave sta proprio nella parola “interpretazione”: si è consolidata l’idea che questo dipinto sia “enigmatico”, che celi in sé un mistero da svelare, che sia una sorta di rebus da sciogliere, una serratura da far scattare con l’apposito chiavistello. Questo approccio, però, ha finito per condizionare la considerazione critica dell’opera (vista sempre meno come oggetto e sempre più come pura immagine, con un criptico messaggio in codice incorporato) e anziché diradare dubbi e rispondere alle domande ha portato a letture improbabili, ricostruzioni fantasiose, interpretazioni spericolate. Questo libro, come dichiara già il titolo, vuole liberare la Flagellazione di Piero da un’aura enigmatica che non le appartiene.

Quali proposte di lettura dell’immagine sono state avanzate?
Impossibile riassumerle tutte, ma possiamo individuare alcuni tratti comuni, tenendo conto di una questione preliminare importante: la Flagellazione di Piero della Francesca presenta una composizione apparentemente bipartita, tra una zona sinistra che contiene in profondità la scena evangelica e una destra che contiene tre personaggi in primo piano. Questa struttura dell’immagine ha portato a enfatizzare il ruolo dei tre uomini sulla destra, che sono stati variamente collegati (o forse sarebbe meglio dire scollegati) al soggetto iconografico sacro. Si è originata l’impressione di un dipinto dimidiato e la scena della Passione di Cristo è stata nella maggior parte dei casi interpretata come un elemento accessorio, solo simbolicamente e allegoricamente connesso al presunto soggetto principale, che sarebbe incarnato dai tre uomini. Questi sono stati interpretati secondo due approcci prevalenti: come veri ritratti di uomini coevi al dipinto, o come personaggi variamente e spesso simbolicamente legati al tema evangelico o alla lettura complessiva dell’opera. Innumerevoli i tentativi di identificazione dei presunti ritratti con principi, umanisti, uomini di chiesa e di corte del tempo di Piero, alla ricerca del possibile committente o destinatario del dipinto. La presenza della tavola per secoli a Urbino ha portato a legarla alla figura di Federico da Montefeltro o a vicende familiari a lui riferibili che vi sarebbero adombrate, mentre l’impiego di costumi bizantineggianti ha suggerito un legame con la caduta di Costantinopoli in mano turca nel 1453.

Che tipo di lettura dell’opera propone nel Suo libro?
Ciò che mi è sempre sembrato chiaro leggendo le molte, anche acute, dense e importanti, pagine dedicate al dipinto è la scarsa considerazione dedicata alla sua coerenza iconografica. Su questa, invece, ho puntato la mia attenzione, considerandola base imprescindibile per ogni indagine e rapportandola agli aspetti formali, alla costruzione dell’immagine. Osservando il dipinto mi è balzata agli occhi in modo molto evidente, data la fedeltà alla sua specifica tradizione iconografica, la presenza in primo piano di un personaggio della storia sacra perfettamente integrato nella narrazione della Passione di Gesù: l’apostolo ed evangelista Giovanni. Da qui e dalla considerazione delle fonti scritte di riferimento relative alla narrazione del processo di Gesù è venuto il resto, ossia l’identificazione iconografica degli altri due uomini in primo piano, coprotagonisti della stessa storia – Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea – e il riconoscimento di un dato di fatto formale: la composizione del dipinto è unitaria. Non c’è una divisione né spaziale né temporale tra zona sinistra e zona destra dell’immagine, non c’è separazione di secoli o di contesto geografico tra la scena canonica della Flagellazione di Cristo e il terzetto di uomini: i due campi visivi non solo sono contigui ma tra loro integrati, comunicanti e contemporanei. La scena è una sola e l’iconografia è una sola, quella con cui siamo abituati da decenni a definire il dipinto; non vi è alcuna forma di subordinazione del soggetto sacro evidente rispetto a un “altro” enigmatico soggetto dell’opera. La modalità di presentazione dei personaggi evidenzia, inoltre, come vi sia un unico ritratto: l’uomo di profilo sulla destra, identificabile con il committente. Aver chiarito la lettura iconografica del dipinto ha messo in luce come la sua funzione non sia politica ma religiosa, destinata alla devozione privata: l’opera dipinta e firmata da Piero della Francesca è stata concepita come “manifesto” delle convinzioni religiose del suo committente e insieme è espressione della sua cultura, del suo ruolo sociale, della sua personalità, che lo porta ad affidarsi a un pittore di tale qualità e a farsi includere nella scena nelle vesti di uno dei protagonisti della narrazione sacra (Giuseppe d’Arimatea). Restano ancora aperte varie questioni – dall’identificazione del committente alla datazione dell’opera alla sua presenza a Urbino – che ho affrontato fornendo cautamente proposte, con la consapevolezza di un lavoro non definitivo e condizionato dall’assenza di appigli documentari, ma anche con l’auspicio che proprio grazie alla nuova base iconografica fornita possano aprirsi inedite e magari fruttuose piste di ricerca.

Quali sono le caratteristiche stilistiche dell’opera?
Come si è detto, la Flagellazione può essere considerata un emblema del clima culturale e artistico in cui nasce e non a caso tanti commenti critici tendono a scavalcare la questione iconografica (come se fosse secondaria) per evidenziarne soprattutto le caratteristiche formali. Queste sono pienamente coerenti con il linguaggio di Piero della Francesca: la solidità scultorea delle sue figure, che suggeriscono effetti di monumentalità anche in un dipinto di dimensioni ridotte come questo; la sapienza e qualità quasi musicale degli accordi cromatici; l’attenzione per l’equilibrio tra masse di colore e volumi, tra elementi strutturali e figure; la capacità di declinare in modo specifico la costruzione prospettica in base al soggetto e alla tipologia delle singole opere. Qui la prospettiva è chiaramente al servizio di una concezione unitaria dell’immagine, che ne metta in relazione reciproca tutte le componenti e che guidi lo sguardo dello spettatore verso il fulcro compositivo e semantico del dipinto: il Cristo alla colonna, che pure è la figura più arretrata. Altra caratteristica interessante è quella della variatio interna: Piero include, qui come in altre sue scene, riferimenti visivi diversi – dalle architetture classicheggianti a quelle di un paesaggio urbano contemporaneo, vesti occidentali e orientali, antiche e moderne – selezionandoli perché fungano da connotati sia di un preciso contesto narrativo, storico, ambientale (in questo caso la Gerusalemme del tempo di Cristo, che il devoto doveva visualizzare efficacemente per potervisi calare spiritualmente) sia di una altrettanto precisa concezione estetica, quella umanistica. L’approccio del grande pittore è razionale ma anche libero, nella combinazione di elementi linguistici e suggestioni stilistiche diverse e nella formulazione di dettagli sorprendenti, come per esempio i capitelli del loggiato, un vero unicum, frutto dell’invenzione pierfrancescana.

In che modo il dipinto si rapporta con la cultura figurativa fiamminga e con modelli iconici e rappresentativi familiari per l’occhio quattrocentesco?
Viene spontaneo accostare certi elementi della Flagellazione di Urbino al mondo fiammingo: certamente quest’opera segnala la conoscenza da parte di Piero di esempi figurativi nordici, che hanno lasciato il segno nella sua personalissima visione pittorica sia sul piano tecnico e stilistico sia su quello iconografico. L’attenzione per i valori materici delle superfici, la perizia nella resa dei lustri e delle trasparenze e nella riproduzione di tessuti sontuosi, che rivaleggiano con quelli dipinti da Van Eyck o Van der Weyden, si accompagna alla ricezione di influenze nordiche anche nella rappresentazione dei personaggi, in particolare quelli legati alle scene della Passione di Cristo, san Giovanni apostolo, Nicodemo, Giuseppe d’Arimatea, questi ultimi specialmente resi in modo naturalistico e talvolta impersonati dai committenti stessi, secondo una modalità di inclusione diretta del devoto nella scena sacra che doveva contemplare. Ritengo importante la tangenza figurativa con la coeva produzione di scene di Compianto e Deposizione di area fiamminga e italiana. La Flagellazione nasce infatti da un’esperienza visiva abituata a riconoscere il ricorrere di determinati elementi iconici e schemi rappresentativi, dalle arti figurative alle sacre rappresentazioni. Piero non solo ha attinto alla lunga e ricchissima tradizione iconica di questo specifico episodio evangelico, ma ha tratto suggestioni significative per la definizione della sua soluzione compositiva, da un lato, dall’iconografia del Credo, particolarmente esemplificata a Siena, che proprio nella Flagellazione davanti a Ponzio Pilato, saldata figurativamente al momento finale della sepoltura di Cristo, ha un elemento identificativo del quarto articolo della professione di fede; dall’altro, dalla pratica rappresentativa del teatro sacro, definendo un congegno visivo unitario secondo criteri di simultaneità d’azione e di costruzione scenica dello spazio. Tali modelli di traduzione della storia sacra in immagini, funzionali a sollecitare il sentimento religioso nei riguardanti, erano ben radicati nell’esperienza quotidiana del sacro degli uomini del Quattrocento, il cui occhio era ben allenato a leggerli con prontezza e facilità.

Caterina Zaira Laskaris, dopo la laurea a Pavia, si è specializzata in storia dell’arte all’Università Cattolica di Milano e ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia e conservazione dei beni culturali presso l’Università di Macerata. Insegna Storia delle tecniche artistiche per l’Università Cattolica di Milano e l’Università degli studi di Pavia ed è responsabile della biblioteca e dell’archivio storico dell’Almo Collegio Borromeo di Pavia. I suoi interessi vertono soprattutto sulla storia della miniatura, la trattatistica tecnico-artistica, l’iconografia. Tra le sue pubblicazioni: Il Ricettario Diotaiuti. Ricette di argomento tecnico-artistico in uno zibaldone marchigiano del Quattrocento, il prato, Saonara (PD), 2008; Un monumento da sfogliare. Il Messale de Firmonibus di Fermo, Aracne, Roma, 2013; Trattati tecnici per le arti, in L’arte rinascimentale nel contesto, a cura di E. Villata, Jaca Book, Milano, 2015, pp. 101-116; Grammatiche della percezione, Mimesis, Milano-Udine, 2017; L’esperienza per immagini: condizionamento e possibilità dello sguardo fotografico nella percezione dell’arte, in “Aisthesis. Pratiche, linguaggi e saperi dell’estetico”, 11/2, 2018, pp. 145-164; Dalle pagine agli astri. Saperi, arte e meraviglie nella biblioteca dei Visconti e degli Sforza, a cura di C.Z. Laskaris, Pavia, Decumano Est, 2019.

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