“L’enigma di Dante. Il significato di Pape Satàn, pape Satàn aleppe: un’interpretazione” di Giampaolo Sasso

Dott. Giampaolo Sasso, Lei è autore del libro L’enigma di Dante. Il significato di Pape Satàn, pape Satàn aleppe: un’interpretazione edito da Pendragon: quali diverse interpretazioni sono state fornite, nel corso del tempo, del verso di apertura del VII canto dell’Inferno?
L'enigma di Dante. Il significato di Pape Satàn, pape Satàn aleppe: un’interpretazione, Giampaolo SassoLe interpretazioni sono davvero moltissime, dipendendo dal significato oscuro delle parole “pape”, “satan”, “aleppe”. La maggior parte tende a interpretare “Satan” come Satana e “pape” come un’interazione latina di meraviglia, mentre “aleppe” come aleph, prima lettera dell’alfabeto ebraico e simboleggiante, secondo la tradizione medioevale, il primo, il principe, il dio. Questi significati portano all’interpretazione più nota e consolidata, di Guerri, «Oh Satana, oh Satana Dio». Ma i commentatori del verso sono numerosissimi, e l’enciclopedia dantesca ne cita un’ottantina raggruppandone le interpretazioni in cinque tipi; un grido di meraviglia; di dolore; d’invocazione a Satana; d’ira; di minaccia. Ne riporto solo qualche esempio, relativi alla lingua che si suppone Pluto adotti. Lanci vi rintraccia aspetti della lingua ebraica («Splendi, aspetto di Satana, splendi, aspetto di Satana primaio»), come Venturi («Qui, qui, Satana è imperatore»). Vi riconosce invece tracce della lingua greca Olivieri («Ah, ah, Satàn, ah, ah, Satàn invitto) mentre Scarfoni un’espressione della lingua araba o semitica (“La porta dell’Inferno ha vinto”), così come Troni (“È la porta di Satana, è la porta di Satana, fermati”). Ma vi sono studiosi che vi riconoscono la lingua francese, come nella nota interpretazione di Cellini (“Paix, paix, Satan, paix, paix, Satan, allez! paix”) o in quella di Ventura (“Paix Satan, paix Satan, à l’épée”). Si hanno anche moltissime interpretazioni più personali, come quelle di Rossetti (“Al papa Satànno, al papa Satànno, aiuto») o di Scherillo (“Olà nemico, olà nemico, oh!”), di Picci (“Pesa, pesa tante pene al papa”), di Porena («Al Papa nemico, al Papa nemico primo). L’ultima di queste, di Porena, è quella che più si avvicina alla interpretazione cui guida rapidamente lo studio anagrammatico del verso, come spiego nel libro che ho dedicato al verso. Da questo breve spoglio delle varie interpretazioni, si può però comprendere come l’enorme loro varietà possa legittimamente spingere ad una tesi scettica su significato del verso.

Come si sviluppa l’analisi dei flussi anagrammatici di un testo?
Lo studio anagrammatico dei testi poetici mi ha portato a individuare alcuni criteri fondamentali. Innanzitutto va precisato che non si tratta di anagrammi di tipo enigmistico, che mutano una parola in un’altra (ad esempio paradiso in diaspora), ma di sequenze di lettere che, da un punto del testo, rimandano alla ricombinazione delle medesime lettere, ma in un altro punto del testo. Un esempio si ha proprio nella frase introduttiva di questo paragrafo (lo stu-dio an-agrammatico dei testi poetici mi ha portat-o a ind-ividuare alcuni criteri fondamentali) in cui l’anagramma di cinque lettere dioan-oaind rinvia da “stu-dio an-agrammatico a “portat-o a ind-ividuare”. Tale anagramma può essere ritenuto casuale, prodotto cioè soltanto dall’inevitabile ripresentarsi delle lettere di enunciato: ma potrebbe essere ritenuto non casuale (cioè intenzionale, ma comunque inconscio) se di tipo semantico-concettuale. In questo esempio, in effetti, non lo si potrebbe del tutto escludere, poiché nella frase il concetto di “studio” viene puntualizzato proprio dal verbo “individuare”, il cui oggetto sono appunto i “criteri fondamentali” di studio. Il problema di definire un metodo valido per accertare un effettivo contributo dell’anagramma al testo è reso però difficile proprio dalla numerosità degli anagrammi. Questa è la ragione storica per cui di Saussure, il fondatore della linguistica, ma anche il primo che ha studiato gli anagrammi, dopo tre anni di intensa ricerca (dal 1908 al 1910) vi ha rinunziato, per l’impossibilità di disporre di un quadro completo della combinatoria anagrammatica. Ma è anche interessante notare che, quando si è entrati nell’era informatica, nessun linguista ha provato a servirsi di un computer per rintracciare tutti gli anagrammi di un testo. O, se ha provato, ha trovato un sistema combinatorio scoraggiante, per la straordinaria numerosità degli anagrammi, tali far subito supporre una loro semplice casualità. Si pensi, ad esempio, che in un normale sonetto è possibile rintracciare già 200-300 anagrammi (a partire da quelli di tre lettere), e che il canto VII di Dante, se ci si limita ai soli anagrammi uguali o maggiori di quattro lettere, ne ha più di 4000. In realtà, studiando la combinatoria completa di anagrammi ottenuta da un computer, si arriva alla conclusione che il poeta adotta alcuni criteri fondamentali per mantenere un ordine in questa immensa combinatoria, e che proprio per questo ordine gli anagrammi vi svolgono un ruolo semantico e tematico ben preciso, rivelatore dei processi mentali che generano il testo. E che inoltre è possibile dimostrare statisticamente anche la particolare rarità (quindi significatività) di molti di questi processi.

Tra questi criteri è ad esempio fondamentale lo studio degli anagrammi generati dal primo verso, in particolare dal suo inizio e dalla sua fine, di cui proprio il verso iniziale del canto settimo “Pape Satàn Pape Satàn aleppe” rivela dei processi subito persuasivi di come Dante si serva degli anagrammi in modo coerente. Proprio il primo anagramma del verso, di quattro lettere, generato da “pape, rimanda infatti a “e pap-i e cardinali”, nel verso 47, cioè al primo tema del canto, la punizione di prodighi ed avari, tra cui spiccano proprio i “papi”, cioè i rappresentanti di maggior rilievo della Chiesa. Per comprendere perché questa relazione anagrammatica appaia subito convincente, bisogna appunto tener conto che nel canto si hanno circa 4000 anagrammi, che mantengono quindi un tessuto estremamente fitto. È dunque come se avessimo un dado con 4000 facce, e cominciando a “tirare il dado” proprio dal primo anagramma, cioè da “PAPE”, constatassero subito che non indirizza a una parola qualsiasi, ma proprio a “e pap-i”, cioè l’intero “il papato”, il cui comportamento, come è noto, è ripetutamente stigmatizzato da Dante nella Commedia. È dunque un tema così importante che subito depone a favore di un contributo significativo del primo anagramma del verso iniziale del canto VII, cioè che esso indirizzi effettivamente il papato. Ma, seguendo questa traccia anagrammatica, risulta subito altrettanto interessante l’anagramma apiec-icaep che da “e p-api e c-ardinali” indirizza nel verso 86 a “giud-ica e p-ersegue”, associandovi un giudizio. In sostanza il primo anagramma rimanda sinteticamente al “papato” e questo a un “giudizio” invitando quindi subito a ritenere che l’inizio del verso, “pape”, riguardi proprio un giudizio sul papato, un concetto del tutto attinente alla severa opinione di Dante sul comportamento della Chiesa nelle vicende politiche dell’Italia.

Ma altrettanto significativa è la linea di anagrammi generata proprio dalla parola conclusiva del verso “al-eppe”, che rimanda prima a “s-eppe”, vincolando poi da “tutt-o seppe/di-sse” l’anagramma “oseppedi-dopesipe” che rinvia nel verso 27 a “voltan-do pesi pe-r forza di poppa”, proprio la pena degli avari e dei prodighi. In sostanza il primo e l’ultimo anagramma del verso svolgono un tema unitario nella punizione di avari e prodighi: essi sono appunto condannati alla pena di “voltar pesi”, e tra i dannati vengono subito indicati quelli più significativi, i papi, cui Dante indirizza subito il famoso verso. Ma c’è anche di più. L’anagramma di “volta-ndo pesi” rimanda nel verso 42 a “con misura null-o spendi-o ferci”, motivando quindi la pena proprio con la colpa di avari e prodighi, il loro uso erroneo del denaro: ci si può accorgere allora che “voltando pesi” è una pena che corrisponde esattamente alla etimologia di “spendio”, che vuol dire “misurare a peso”. In sostanza l’anagramma chiarisce come Dante si attenga strettamente, nella pena dei pesi, alla sua concezione del contrappasso, cioè commisurare la pena a stretta somiglianza della colpa: poiché avari e prodighi non sanno spendere correttamente, cioè non sanno “misurare bene il peso del denaro”, essi sono condannati alla pena dei pesi. Tengo a sottolineare che l’origine etimologica della pena dei pesi da “spendio” non è mai stata rilevata in ambito critico, cioè è sfuggita allo studio filologico ordinario: ma caratterizza la tipica precisione che l’anagramma permette di rilevare nel linguaggio poetico e, in questo caso, la specifica conoscenza di Dante della lingua italiana, cui infatti egli dedica il trattato De vulgari eloquentia. Di queste prime relazioni, tutte subito indicative di una a intenzionalità di Dante nell’indirizzare alla colpa del papato, la più convincente è stata per me proprio la scoperta di questa derivazione etimologica, che mi ha subito persuaso della estrema precisione con cui Dante si stava servendo di relazioni anagrammatiche nel canto.

Vi sono moltissime altri relazioni anagrammatiche che gradualmente delineano l’enorme campo metaforico sotteso tra due canti, ma mi limito ad indicare quella che assolutamente non può venire messa in discussione proprio per la previdenza dimostrativa statistica che se ne può dare, cioè il flusso di anagrammi originato dalle parole “pena” e “colpa” pronunciate da Ciacco nei versi 56-57 del canto VI nel suo dialogo con Dante (55E io anima trista non son sola, /56ché tutte queste a simil pena stanno /57per simil colpa». E più non fé parola), flusso che, dopo 58 versi con ben otto anagrammi confluisce nel primo verso del canto VII, interessando per intero “Pape Satàn, pape Satàn alepp-e”. La significatività statistica di questo flusso è così elevata da non poter essere in alcun modo messa in dubbio. Proverò a chiarire questo punto fondamentale in modo semplice. Il flusso di anagrammi di “pena” e “colpa” è fatto complessivamente di 24 anagrammi, di cui 16 si distribuiscono negli ultimi 58 versi del canto VI e 8 si concentrano sul primo verso del canto VII. Ciascuno dei 58 versi finali del canto VI raccoglie perciò mediamente 0,27 anagrammi (16/58), mentre ben 8 anagrammi convergono sul verso iniziale del canto VII: su questo quindi la raccolta anagrammatica è 8/0,27 volte maggiore, cioè circa 30 volte più densa. Per capire la rarità di questo processo, si immagini, ancora più semplicemente, un dado con 59 facce e di tirarlo 24 volte: 16 giocate si distribuiscono a caso tra 58 facce, mentre otto invece si concentrano su una sola di queste. Chi non riterrebbe che il dado è truccato, cioè costruito appositamente proprio per dare questo risultato? Ma l’aspetto più sconcertante del flusso di “colpa” è come chiarisca che “pape” non indirizza genericamente al papato, ma proprio a Bonifacio VIII. Mentre da “col-pa e p-iù” si genera l’anagramma che rinvia a “pape”, da “colp-a e pi-ù” (cioè dallo spostamento di un solo carattere) si genera l’anagramma che rinvia nel verso 69 a “di tal che test-e pia-ggia”, con cui Ciacco profetizza a Dante la politica oscillante di Bonifacio VII responsabile delle guerre intestine di Firenze. E “test-e pia-ggia”, a sua volta rinvia, a “e p-api e cardinali”: la prima parola del verso, “pape”, dunque non indirizza semplicemente al papato, ma proprio a Bonifacio VIII, e nella precisa dipendenza dalla parola “colpa”.

In conclusione, questi accertamenti guidano rapidamente ad una interpretazione dell’inizio“Pape Satàn” del verso. Il flusso del primo anagramma rimanda da “pape” a “i papi” e da “i papi” a “giudica”, segnalando che il verso si riferisce al papato e a un giudizio su di esso. Il flusso dell’ultimo anagramma del verso, contemporaneamente, puntualizza la pena dei pesi dei dannati e il suo significato di contrappasso rispetto alla etimologia di “spendio”. Il flusso di “pena” e colpa”, in particolare, ribadisce sistematicamente che la relazione tra pena e colpa deve necessariamente caratterizzare il verso, e ancora nel senso di un contrappasso (“a simil pena stanno per simil colpa”). Il flusso di “colpa”, infine, rimandando a “teste piaggia” precisa che la colpa non si riferisce genericamente al papato, e al giudizio su di esso, ma proprio a papa Bonifacio VIII. Poiché “pape” rimanda dunque espressamente a Bonifacio VIII che viene giudicato colpevole e subisce una pena, il verso deve esprimere altrettanto chiaramente anche il concetto di giudizio: è cioè la forte relazione mantenuta dal flusso di “pena” e “colpa” che pone in una necessaria prospettiva interpretativa il significato di Satàn, così strettamente dipendente da “pape”. L’originario significato di Satàn, infatti, è proprio quello di “nemico-giudice” (significato che permane nel latino “satan”), non dunque Satana, nome che peraltro Dante non utilizza mai nella Commedia per il re degli inferi, ma proprio il giudice che giudica la colpa e commina la pena. Ciò porta quindi a interpretare il sintagma “Pape Satan”, come il grido rabbioso di Pluto che riconosce nell’arrivo di Dante il nemico-giudice di Bonifacio VIII “(tu) del papa giudice”: e a interpretare il secondo sintagma “pape Satàn” come rivolto a Virgilio, alleato di Dante per la sua funzione etica di guida nel viaggio infernale. In che lingua dunque si esprime Pluto? Pluto nella mitologia greca è il dio Plutos della ricchezza, perciò posto a guardia del cerchio in cui sono gli avari e prodighi, ma è anche Plutone, la divinità latina signore dell’Ade: dunque “pape satàn” può essere ritenuta a ragione l’espressione in latino di “del papa giudice”, il significato su cui converge questa fitta rete di relazioni anagrammatiche.

Cosa rivela lo studio anagrammatico del VI e del VII canto dell’Inferno?
Ben al di là di questo nucleo concettuale, lo studio rivela un quadro metaforico estremamente complesso distribuito nei due canti, e un’accusa sistematica ribadita punto per punto nei confronti di papa Bonifacio. Questo intreccio costituisce una narrazione nella narrazione, e rivela pian piano altri aspetti straordinariamente importanti del verso e la sua funzione di vero vertice concettuale-tematico che unifica il due canti. Ad esempio il semplice anagramma che rinvia a “test-e pia-ggia” indicando proprio in Bonifacio VIII colui che Dante giudica, rivela un potente tema metaforico diffuso nel canto. Il significato di “piaggia”, infatti, non è semplicemente quello del tatticismo politico del papa, che oscilla ambiguamente tra le fazioni fiorentine dei Bianchi e dei Neri ma, nella sua origine metaforica, quello di una nave che si muove avvicinandosi e allontanandosi da una costa. Ciò ci rivela come lo scenario marino iniziale del canto VII sottintenda, sballottata tra Scilla e Cariddi, la nave che rappresenta Bonifacio, e allusa proprio nella “forza di poppa” con cui il Papa è costretto a “voltare i pesi”. Ma ci spiega anche perché Pluto, redarguito da Virgilio, subito cada a terra come l’albero di una nave a cui si afflosciano le vele. Lo stesso movimento oscillatorio avanti-indietro dei dannati lungo il cerchio del girone riprende l’oscillazione della bilancia sottintesa nello “spendio” dei pesi e l’oscillazione della nave-Bonifacio che si barcamena tra le fazioni dei Bianchi e Neri. Il tessuto metaforico dell’ingerenza papale nella vita fiorentina pervade ampiamente i due canti. Un esempio, è ancora, lo strano gesto di Virgilio che nel canto VI butta la terra dell’inferno nelle fauci di Cerbero, acquetandolo. Solo se si studia attentamente lo straordinario flusso che connette la descrizione di Ciacco delle lotte fiorentine con la fame di Cerbero che sbrana i dannati si coglie il senso della strana metafora: l’avido Bonifacio-Cerbero ha continuamente cercato di impadronirsi della terra di Firenze, e perciò Virgilio sfama Cerbero con la terra dell’inferno. Il diavolo del canto sesto, Cerbero, e il diavolo del canto settimo, Pluto, sono dunque raffigurazioni metaforiche di papa Bonifacio, e immettono nel tema più complesso dei due canti, di Bonifacio equiparato al re dei diavoli, Lucifero, il significato più recondito dell’enigmatico verso.

Si rifletta innanzitutto che nel verso “Pape Satàn Pape Satàn aleppe” Pluto si riferisce implicitamente al potere di Lucifero, poiché Virgilio risponde a Pluto proprio ricordando la vittoria dell’arcangelo Michele su Lucifero che si è ribellato a Dio. La risposta stessa di Virgilio perciò chiarisce che Pluto nel verso non si riferisce con Satàn a Satana, poiché evoca il potere di Lucifero. Ma cosa caratterizza la ribellione di Lucifero? È la prima “lotta di potere” del creato, e avviene tra angeli contro angeli, cioè tra membri dello stesso gruppo. È questa lotta che illumina sul senso delle lotte fiorentine pronosticate da Ciacco a Dante: anche queste avvengono tra membri dello stesso gruppo, e inoltre in un continuo alternarsi di vittorie e sconfitte, in cui si invertono i ruoli di chi giudica e di chi è punito: e questo è lo stesso significato raffigurato da Dante nel reciproco dilaniarsi di accidiosi ed iracondi alla fine del canto VII. I due maggiori anagrammi del canto sesto e del canto settimo hanno appunto questa singolare caratteristica, il primo di porre in rapporto l’ingordigia di Cerbero con le lotte autodistruttive fiorentine, il secondo con la forza autodistruttiva di accidiosi ed iracondi, che reciprocamente si scambiano il ruolo di coloro che dilaniano e vengono dilaniati. È questo sistema di relazioni che pone quindi in rapporto Cerbero-Bonifacio con l’autodistruttività dei fiorentini e questi con l’autodistruttività dei dannati posti alla fine del canto VII: e, quindi, con la prima lotta fratricida del creato. In sostanza Dante pone in relazione la prima lotta fratricida del creato, di cui è responsabile Lucifero, con la lotta fratricida di Firenze di cui è responsabile Bonifacio, sottintendendo in questo modo che Lucifero stesso, il re dell’Inferno, è alleato di Bonifacio VIII, addirittura Bonifacio stesso.

Ma questo è appunto il motivo, a mio parere, per cui Dante nasconde il suo complesso disegno metaforico, che possiamo ricostruire solo dalle relazioni anagrammatiche mantenute dal verso nei due canti. Accusare Bonifacio di essere come Lucifero, e di essere responsabile, come Lucifero, di aver disseminato il male non semplicemente in Firenze ma nella stessa Chiesa, evoca infatti un tema eretico cruciale in quell’epoca. Nell’eresia catara, infatti, Lucifero non è semplicemente l’angelo ribelle a Dio, gettato nell’inferno per punizione, ma è il principio generatore del male, che egli diffonde sulla terra. Porre Bonifacio come uguale a Lucifero o come suo diretto emissario in terra poteva quindi esporre al sospetto di eresia, sistematicamente perseguitata in quell’epoca, un rischio che Dante in esilio, alla continua ricerca di una protezione, non poteva certamente permettersi.

Quale interpretazione è dunque possibile fornire dell’esclamazione di Pluto?
L’interpretazione nella sua forma più aderente al contenuto lessicale del verso, è dunque, sostanzialmente, un’esclamazione rabbiosa di Pluto, alla vista di Dante e Virgilio nel cerchio, che si erge a difesa di Bonifacio: “(tu), del Papa giudice, (e anche tu) del Papa giudice, (del papa che è) Lucifero”. Nella sua forma più ampia, sottintesa, è: “(tu, Dante) che ti permetti di venire qui a giudicare il Papa e (tu, Virgilio), che ti permetti anche tu di giudicare il Papa, colui che ha lo stesso il potere di Lucifero”. Nel verso, il primo “pape Satan” è quindi riferito a Dante, e il secondo a Virgilio, mentre “aleppe” ha significato di “primo” ma in senso opposto a quello positivo di “aleph”, proprio ad indicare come Lucifero, il primo e più amato dei serafini, è ora degradato ad “aleppe”, il primo degli angeli trasformati in diavoli, il loro re nell’inferno.

Naturalmente la funzione dell’anagramma nel mantenere questo straordinario tessuto metaforico può apparire al lettore assai poco verosimile, ma ha come spiegazione la naturale cooperazione dell’anagramma già nel linguaggio ordinario e la funzione eminentemente strutturale che assume in poesia. Per comprendere questa funzione si pensi a come avviene il processo compositivo in qualsiasi modalità artistica, ad esempio in pittura. Quando un pittore immagina un quadro fa inevitabilmente riferimento a processi che non sono semplicemente ideativi, ma regolati da proprietà formali radicate necessariamente nel suo sistema cerebrale. Disponendo una figura in rapporto un’altra figura, definendone i contorni o le ombreggiature o i colori, considera attentamente le innumerevoli loro relazioni che vengono a formarsi durante il processo compositivo, e verifica se soddisfano alla sua intenzione ideativa: queste relazioni però dipendono da elaborazioni molto specialistiche di aree cerebrali di cui non è consapevole, che però lo guidano incessantemente nel valutare la composizione.

Lo stesso accade al poeta quando intende tradurre un contenuto concettuale in un testo. Nel tradurre il pensiero in linguaggio, deve cioè trovare le parole esatte e disporle in frasi. All’atto pratico egli crede di “estrarre” le parole da una specie di dizionario di termini lessicali già compiuti e disponibili ma, in realtà, forma le parole accedendo a una matrice cerebrale combinatoria di fonemi e grafemi: scrivendo, cioè, compone le parole come fa un tipografo, ponendo l’una dopo l’altra le lettere, e con la particolare attenzione, inoltre, richiesta dalle esigenze dalla versificazione, cioè dalle caratteristiche timbriche e ritmiche che vuole ottenere dalla successione delle lettere e dei corrispondenti fonemi. Nel comporre, contemporaneamente, deve valutare se i significati che le parole assumono reciprocamente nell testo corrispondono al proprio pensiero, e quindi cerca di tenere conto delle innumerevoli relazioni semantiche e metaforiche che la grammatica e la sintassi mantengono tra tutte le parole.

Ma, nel disporre le lettere delle parole nella loro ordinata successione nell’enunciato si formano necessariamente anche ricombinazioni di sequenze di lettere, cioè anagrammi, che mantengono anch’essi relazioni tra le parole. In un genere, in un testo ordinario, queste relazioni rimangono nello sfondo dell’attenzione, che è tutta rivolta alle relazioni grammaticali e sintattiche. Ma in un testo poetico il poeta è, appunto, particolarmente attento alle relazioni ritmiche e timbriche che dipendono strettamente dalla successione di grafemi e fonemi, e quindi diviene inconsapevolmente attento anche alle relazioni anagrammatiche che entrano a far parte del processo compositivo. Ogni relazione anagrammatica, di fatto, pone in relazione due parole, come si è visto in tutti questi esempi, e sollecita il poeta ad un esame assai meticoloso anche dei significati mantenuti da queste relazioni. Più esattamente è proprio la disponibilità di queste numerose relazioni che attrae inconsapevolmente il poeta, poiché permette di puntualizzare il significato di una parola con estrema esattezza rispetto alle altre parole del testo. Il poeta, perciò, proprio mentre accede alla matrice combinatoria tramite cui ricompone le parole del testo, viene continuamente sollecitato a “comporre” cioè a “pensare direttamente” tramite relazioni anagrammatiche. Ciò spiega un tema teorico su cui da sempre si interrogavano gli studiosi del testo poetico: chiaramente, non è il campo grammaticale-sintattico ordinario che mantiene il senso di un testo poetico, ma qualcosa di inafferrabile, che è distribuito nell’intero testo, che lo caratterizza in modo specifico, ma non è riconoscibile. E, di fatto, può venire riconosciuto solo se si adotta un criterio componenziale radicale, diverso da quello organizzato nella lingua dalle parole, ma quello della struttura combinatoria cui si ancorano le parole, la struttura componenziale delle lettere e dei corrispondenti fonemi.

Ciò comporta, naturalmente, un processo compositivo più difficile che però, quando riesce in modo soddisfacente, permette una straordinaria precisione semantica o metaforica del significato di ogni parola. All’atto pratico, il poeta compone il testo tenendo conto sia delle relazioni grammaticali e sintattiche, sia di quelle anagrammatiche, ma soprattutto di queste che sono molto più numerose e permettono una concertazione molto raffinata del significato del testo. Proprio questa numerosità sfugge all’attenzione cosciente, come accade peraltro in tutti i processi creativi artistici, che si svolgono affidandosi a relazioni la cui grande numerosità non permette un accesso chiaro alla coscienza, ma solo una loro valutazione intuitiva. Ciò spiega come l’anagramma concorra in modo naturale al significato di un testo poetico: mantiene relazioni che possono contribuire al significato che si vuole esprimere in un testo, ma solo a condizione che si possa utilizzare al meglio le potenzialità del campo combinatorio, ciò che quindi richiede una particolare sensibilità e competenza del poeta nel farsi guidare da un’enorme intreccio di relazioni inavvertibili alla coscienza. Nel caso di Dante proprio questo enorme intreccio ci spiega come egli abbia prodotto l’enigmatico verso.

Evidentemente Dante aveva ben chiaro in mente il disegno metaforico che intendeva produrre, e che aveva come vertice principale il giudizio di condanna di Bonifacio, assimilato a Lucifero: e, contemporaneamente, voleva esprimere la cornice metaforica delle lotte fratricide distruttive di Firenze, cioè addirittura la prima lotta fratricida del creato, lo scenario ideale in cui collocare la propria vicenda umana di esule bandito dal proprio paradiso proprio per colpa di Bonifacio-Lucifero. Dante però rinuncia per prudenza a esprimersi nel consueto linguaggio, e condensa questo intero disegno metaforico nelle tracce anagrammatiche che dipendono dall’enigmatico verso, ma costruendo l’intreccio anagrammatico con la particolare esattezza che permette di ricostruire in ogni dettaglio questo disegno. Ciò ci rivela la straordinaria coerenza e capacità della mente poetica di Dante, riassunta nel significato enigmatico di un solo verso, sul cui mistero cui ci si interroga da sette secoli.

Giampaolo Sasso, psicoanalista e linguista, studia da anni le strutture del pensiero inconscio. Al metodo di analisi del testo poetico basato sulle orditure anagrammatiche ha dedicato Le strutture anagrammatiche della poesia (Feltrinelli, 1982), La mente intralinguistica (Marietti, 1993), Il segreto di Keats (Pendragon, 2006), Il dialogo segreto d’amore tra due sonetti di Dante (Aracne, 2019) e L’enigma di Dante (Pendragon 2021). Tra i suoi testi di argomento psicoanalitico La struttura dell’oggetto e della rappresentazione (Astrolabio, 1999), Psicoanalisi e neuroscienze (Astrolabio, 2005), The Development of Consciousness: An Integrative Model of Child Development, Neuroscience and Psychoanalysis (Karnac, 2007), La nascita della coscienza (Astrolabio, 2011).

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