
Se noi consideriamo non solo gli accademici, e fra questi non solo i professori ordinari, non solo gli strutturati universitari, le dimensioni del fenomeno si allargano moltissimo; e si ha una percezione del fenomeno e della perdita enorme di risorse imprecisata ma più realistica. È bene ricordare che gli elenchi degli espulsi dalle università per l’applicazione delle leggi razziali del 1938 sono stati redatti solo nel 1997 grazie alle ricerche di Roberto Finzi per gli ordinari e di Angelo Ventura per altri docenti di vario grado. Per sessant’anni non avevamo neppure questi, tanto lungo e spesso è stato il silenzio. Questi elenchi non sono però definitivi, ed un recente convegno a Roma che chiedeva ai relatori di aggiornare la situazione per ciascuna università ha mostrato quanto ancora ci sia da fare.
Da parte mia ho cercato di porre, anche in quel convegno, una problematizzazione: chi stiamo contando? Gli ufficialmente espulsi per ogni ateneo nel 1938? Il criterio di contare gli espulsi per ateneo comporta una minimizzazione e anche il contarli solo per l’anno 1938. Gli ‘allontanati’ per ragioni politiche c’erano anche prima (e non solo i pochi che nel 1931 si rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo); quelli per ragioni razziali erano di più e altri dei professori espulsi: per esempio gli studenti fuori corso, o quelli che pur continuando gli studi non avrebbero poi potuto cercarsi un lavoro, gli stranieri cui si toglieva persino la cittadinanza acquisita. E i neolaureati? Non risultano espulsi da nessuna parte ma di fatto lo erano, così come i più giovani che avevano conseguito la licenza liceale e non potevano immatricolarsi all’università. I liberi docenti vennero non espulsi ma “decaduti” dal titolo, che era un’abilitazione all’insegnamento universitario, ma non necessariamente una posizione di effettiva docenza. Un libero docente poteva insegnare in più atenei, quindi si rischierebbe di conteggiarlo più volte. Le dimensioni del fenomeno sono comunque sottostimate. Dobbiamo cercare le perdite in più direzioni, in più modi. Ecco perché accanto a quel libro ho progettato un sito web ad accesso aperto e in progress dedicato agli Intellettuali in fuga di più tipologie, settori, età, uomini e donne, http://intellettualinfuga.fupress.com/
Il volume che lei ha curato si riferisce però ad un ateneo, perché ha per sottotitolo: Studenti e studiosi ebrei dell’Università di Firenze in fuga all’estero.
È vero. Quel volume, che raccoglie saggi di vari studiosi, circoscrive il fenomeno ad una precisa istituzione universitaria, ma al contempo lo allarga molto pur considerando solo un sottoinsieme degli espulsi, ossia solo chi decise di lasciare l’Italia. Questo proprio perché si è cercato di studiare il fenomeno ragionando con categorie nuove che necessariamente comportano una de-minimizzazione delle perdite. Francesca Cavarocchi e Alessandra Minerbi in un loro saggio del 1999 hanno calcolato 39 espulsi a vario titolo dall’ateneo di Firenze. Possiamo dire che furono molti di più, anche se non sappiamo il numero preciso. In questo volume del 2019 Cavarocchi indaga sugli studenti stranieri ebrei, che per la maggior parte scapparono dall’Italia. Anna Teicher sugli studiosi stranieri ebrei che avevano in genere posizioni da precari all’università di Firenze e che si trovano costretti a ripartire. Ma non c’erano solo gli ebrei ad andarsene; tanti antifascisti se ne erano andati silenziosamente, e altri con clamore come il notissimo Gaetano Salvemini. Prima di andarsene dall’Italia, diversi si erano spostati in altre sedi universitarie, quando non tirava per loro una buona aria. Non è l’ordinaria mobilità accademica, è una mobilità dettata dalle condizioni ambientali della fascistizzazione, quindi precedente alle leggi razziali. Oppure una mobilità successiva, nel dopoguerra quando le possibilità di recuperare una carriera interrotta sono poche per chi aveva un incarico temporaneo, era un precario, e non aveva una cattedra dove poi tornare. Come ad esempio, per fare un nome famosissimo, Rita Levi Montalcini che a Firenze si era nascosta sotto falso nome. Per studiare l’emigrazione intellettuale sotto il fascismo non si può partire dal 1938, né fermarsi lì. Nel volume in questione Simone Turchetti lo ha mostrato guardando alla comunità della fisica nell’ateneo di Firenze, quindi assumendo un criterio disciplinare. Io ho cercato di farlo seguendo le decisioni forzate di tre studiosi della stessa famiglia, due donne e un uomo.
Gli intellettuali non sono solo uomini, e non sono solo accademici. Quali sono state le perdite tra i professionisti di ambo i generi, in ambiti diversi di ricerca e attività qualificata?
Cosa accadde ai professori espulsi dall’Università con le leggi razziali del 1938?
Domanda cruciale. Nel ’38 non era ancora una questione di vita e di morte ma di futuro, di lavorare e mantenersi. Chi era già avanti con la carriera e con l’età poteva magari scegliere di ritirarsi anticipatamente con la propria pensione, dopo l’umiliazione di essere stato cacciato dagli stessi colleghi. Non tutti. Giuseppe Levi aveva 67 anni quando ancora cercava di andarsene dall’Italia. Non era uno che volesse rinunciare alla ricerca di laboratorio, ed effettivamente aveva molto ancora da insegnare e da dare. I più propensi a partire erano certamente i giovani studiosi e scienziati e professionisti – molti non avevano ancora una posizione strutturata da cui quindi non furono ufficialmente espulsi-, dovevano cercarsi lavoro per avere un futuro per sé per le loro famiglie. Andare all’estero comportava tante difficoltà che variano a seconda dell’età, del genere, della situazione familiare, della disciplina e della conoscenza di un’altra lingua o di rapporti pregressi con colleghi o conoscenti in altri paesi. C’è chi si sposta in Francia o in altri paesi vicini da cui poi deve scappare più lontano, nelle Americhe, quando arriva l’occupazione nazista. E chi rimasto in Italia è costretto a nascondersi o a cercare di attraversare il confine con la Svizzera, nel 1943 quando tutto precipita.
Il quesito importante è anche cosa accadde dopo la fine del fascismo e della Guerra. La prima normativa per il reintegro è datata gennaio 1944, ma cosa accadde nelle singole comunità accademiche e professionali, nelle industrie private e nei vari casi individuali va visto con molta attenzione.
Cosa fecero gli studenti cui venne negata l’iscrizione all’università o i neolaureati senza più prospettive per il futuro?
Appunto. Di questi non c’è traccia negli elenchi accademici. Ma il problema va posto. Non erano più, o non erano ancora studenti universitari, su cui ha richiamato l’attenzione la storica Elisa Signori. I neolaureati e i neodiplomati ebrei del 1938 spariscono invisibilmente. Quasi per caso mi sono imbattuta in un giovane laureato in fisica a Firenze nel 1938, proveniente dunque da una scuola scientifica prestigiosa. Sua sorella laureata in Lettere nello stesso anno torna a casa, perché sono italiani di Alessandria d’Egitto. Lui invece va in Inghilterra, raccomandato da un suo professore e diventa poi il direttore di un importante osservatorio astronomico britannico, nonché traduttore di Margherita Hack. Ma questo avviene dopo tormentatissime e rischiose vicende che ho cercato di ricostruire (http://intellettualinfuga.fupress.com/scheda/barocas-vinicio/315). Si chiama Vinicio Barocas e visse fino a 104 anni; nessuno qua lo conosce. Di casi così ce ne sono tanti, tante le perdite di risorse. Se seguiamo gli studiosi emigrati con la famiglia, ci imbattiamo nei loro figli giovani, adolescenti o bambini. Frequentano l’università all’estero; espulsi dalle scuole italiane vanno in quelle inglesi o statunitensi, si fanno gli amici là, parlano la lingua meglio dei loro genitori e magari non scrivono bene in italiano. Questi vogliono tornare in Italia? Anche queste sono state perdite, in conseguenza alle leggi razziali.
Chi erano quelli che forzatamente partirono in cerca di libertà, lavoro, e poi salvezza?
È un dato di fatto che coloro che avevano più futuro davanti e meno possibilità nel presente sono i più propensi, come oggi del resto, a cercarle altrove, ad andare all’estero, tanto più se avevano una famiglia da mantenere. Sono anche più adattabili alle novità. Senza fermarci ai casi individuali più famosi, si possono individuare alcuni profili in base all’età, alla generazione e al genere. Le donne che partono da sole cercano lavoro qualificato e le troviamo, benché minoranza, negli elenchi delle organizzazioni che si proponevano di aiutare gli studiosi in fuga dal nazismo e dal fascismo. Quelle che partono con il marito e magari i figli non appaiono, non fanno domanda come i loro coniugi, ma spesso si mettono a lavorare all’estero, ricominciano a studiare, spesso insegnano. Poi ci sono le studiose non sposate che sarebbero volute partire, hanno persino inviato il loro curriculum e fatto domanda, ma poi rimangono qua, spesso per non lasciare i genitori anziani.
Le aspettative più o meno realistiche, e gli esiti effettivi, dipendevano anche dalla disciplina o professione, dal dove andavi, dall’averci o no dei contatti utili, dal conoscere bene la lingua. Sono tutti fattori che si intrecciano fra loro; un professore abituato alla propria autorevolezza, male sopporta di ritrovarsi poi a fare il supplente temporaneo in una lingua di cui non ha padronanza, davanti a studenti che non sanno chi è e che lui non capisce. In Svizzera invece nei campi universitari per profughi, professori di alto livello insegnarono agli studenti italiani rifugiati là con estrema soddisfazione da ambo le parti.
Quali difficoltà incontrarono nei paesi di accoglienza?
Molte difficoltà in genere, su cui in genere si sorvola, persino da parte dei protagonisti. Si tende a mostrare i risultati positivi conseguiti, i successi avuti dopo tanto tribolare. Questa narrazione sminuisce le responsabilità di chi aveva contribuito attivamente alle perdite e di chi aveva assistito; ma anche attenua la sofferenza di chi ha vissuto tante difficoltà e cerca la normalità, o la riconciliazione senza fare polemiche come dicono spesso. Così è nelle memorie scritte e pubblicate a distanza di anni; ma nelle lettere di allora, nei diari, nelle richieste di aiuto emergono disagi, sconforto, l’angoscia del non avere notizie da casa, la difficoltà di procurarsi i documenti per emigrare, l’incubo della ricerca di un lavoro stabile. Alcuni ci mettono dieci anni a sistemarsi, pur essendo dotati di invidiabili curricula. Molto spesso invece, leggendo frettolose biografie degli accademici, si ha l’impressione che perdano una cattedra in Italia e la ritrovino in un altro paese. Non fu così semplice. I displaced scholars dall’Italia arrivavano circa cinque anni dopo i colleghi tedeschi, in un mercato saturo, e si imbattevano negli stereotipi tipici sugli Italiani, ed in più nell’antisemitismo, non ben accolti neppure dalle comunità degli emigrati italiani, tanto meno se erano antifascisti, come racconta nel volume Stefano Luconi a proposito delle Little Italies negli Stati Uniti. Non c’è da dimenticare poi che dopo la dichiarazione di guerra dell’Italia, gli Italiani diventano enemy aliens, arrestati, internati o costretti comunque a gravi limitazioni. O che si recano in paesi da cui poi devono fuggire una seconda volta, come gli stranieri rifugiatisi in Italia o gli Italiani in Francia, o dove ci sono gravi situazioni politiche e militari di cui rimangono vittime, come nella Palestina mandataria, oppure in Argentina con il peronismo.
Quali furono i percorsi e le reti di aiuto di quanti decisero di lasciare l’Italia?
Gli studiosi e i professionisti italiani ricorsero in parte alle organizzazioni internazionali di aiuto che erano sorte per gli intellettuali tedeschi nel 1933, soprattutto all’Emergency Committee di New York e alla Society for the Protection of Science and Learning di Londra. Va detto che queste organizzazioni si aprirono presto ai foreign scholars non soltanto ai Germans, che però furono i primi e i più numerosi a beneficiarne. Varie associazioni scientifiche e professionali americane, per es. degli psicologi, e di medici, crearono dei comitati di aiuto per i refugees del loro campo, ai quali chiedevano quali destinazioni preferissero e quali non fossero accettabili. Alcuni sono disposti ad andare in qualsiasi paese, o comunque ne indicano un elenco, non una sola scelta.
Ma naturalmente non tutti coloro che espatriarono si rivolsero a quelle organizzazioni, che in realtà non riuscirono a risolvere molti casi, e che funzionavano non solo a scopo umanitario ma come enti di reclutamento di risorse qualificate a basso costo. Contarono altre reti; quella dell’antifascismo che si attivò particolarmente per fare scappare i fuoriusciti dalla Francia occupata, e quella del sionismo che era una rete internazionale. Ma soprattutto contarono i pregressi contatti personali di tipo professionale, con colleghi di altri paesi, con colleghi italiani partiti prima, e contatti amicali e familiari, come nell’emigrazione comune. Gli elenchi degli espulsi sono elenchi di individui, ma a partire furono coppie e famiglie, seguendo il capofamiglia i percorsi comuni talvolta si interrompono e divergono: il figlio partito con i genitori si dirige poi in un altro paese dove confida di avere più opportunità di lavoro; oppure le sorelle si separano ciascuna accompagnando il proprio marito, ed i genitori poi o più spesso un genitore vedovo farà la spola, nel dopoguerra dall’Italia, tra la propria casa e quella di un figlio in Brasile e di un altro negli Stati Uniti.
Quanto soffrì la cultura italiana di quelle perdite?
Qualcuno ha detto che le conseguenze delle leggi razziali sulla cultura e la scienza sono state irreparabili. Il fascismo naturalmente negava che fossero perdite in senso qualitativo, perché la scienza giudea era da abbattere e cancellare, e persino in senso quantitativo perché gli espulsi venivano sostituiti. Ma qui si pone un altro problema. Da chi e a quale prezzo? Non sempre c’erano gli allievi ariani che sostituivano i maestri ebrei in piena continuità; la rappresentazione di lineari passaggi va accertata di caso in caso. Ci furono rotture personali, ma anche di programma scientifico, visto che degli espulsi in quanto ebrei non si potevano leggere i libri, né nominarli e visto che il miglior titolo dei sostituti era l’obbedienza alle direttive del regime, come si vede nei casi in cui c’erano più candidati per un posto. Non solo, vennero istituiti degli insegnamenti tipicamente fascisti, come quelli di biologia della razza; e forti erano le pressioni e le profferte di piegare la disciplina a servizio del fascismo, come accade alla psicologia divenuta psicotecnica. C’è stata più continuità alla fine del fascismo, giacché la prevista epurazione dei più compromessi è finita abbastanza a tarallucci e vino. E i giovani erano allievi loro, mentre chi cercava di rientrare dopo otto dieci anni spesso non aveva più protezioni, di maestri scomparsi o troppo vecchi o emarginati.
Perché molti degli espatriati nel dopoguerra decisero di non rientrare?
Tra quelli che sappiamo furono espulsi (molti meno degli effettivi allontanati, come si è detto) , sappiamo di chi è rientrato, ma non di quanti avrebbero voluto farlo e non l’hanno fatto. Talvolta furono decisioni forzate, come lo era stata quella di partire dall’Italia. Ho trovato diversi casi di professori o professionisti che vennero in Italia nel ‘46-‘47 per rivedere i propri familiari e per rendersi conto della situazione: c’era possibilità di ritrovare il lavoro che avevano? C’era la volontà da parte delle comunità scientifiche e accademiche da cui erano stati espulsi nel 1938-39 di accoglierli? Alcuni trovarono degli aiuti e ci riuscirono, per esempio Alessandro Seppilli che era tornato dal Brasile e che vista la possibilità di ottenere un posto all’università si fece raggiungere dalla moglie e dal figlio Tullio, poi professore di antropologia. Ma tanti altri vennero e tornarono indietro nel paese che li aveva accolti, come Enzo Bonaventura a Gerusalemme, Renata Calabresi a New York, suo fratello Massimo a New Haven, perché in Italia furono esplicitamente o indirettamente respinti. Alcuni temporeggiarono perché pur reintegrati, negli ultimi anni della loro carriera non volevano tornare in una posizione marginale, in sovrannumero, in un clima tutt’altro che positivo. Altri ancora declinarono proprio l’invito a tornare che gli era stato rivolto, come il fisico Racah dell’università di Pisa. E poi c’era chi aveva figli che si erano sistemati all’estero e ci volevano stare. Insomma che non volessero tornare perché avevano fatto successo e fortuna all’estero è un’altra narrazione frequente e di comodo che non prende in considerazione le molte difficoltà del ritornare.
Cosa fece l’università per cercare di recuperarli?
Mi baso su pochi casi, ma direi che le industrie private fecero di più. La Montecatini si riprese subito un suo chimico, Roberto Coen Pirani, che era emigrato a New York. Colsero subito il fatto che tornando dagli Stati Uniti acquisivano una risorsa potenziata, con maggiore esperienza e nuove competenze. Nelle comunità accademiche invece per lo più prevalse l’autodifesa di chi c’era; e si sprecarono le opportunità di recuperare non solo le risorse perdute, ma di recuperarle potenziate. Non è solo un’ottica di giustizia, di riparazione dei danni subiti da chi era stato discriminato e perseguitato, ma un’ottica di convenienza che avrebbe dovuto spingere le università italiane ad attrarre gli intellettuali emigrati ed i loro figli quando lo meritavano perché avrebbero portato un valore aggiuntivo proprio per quanto avevano imparato all’estero, a contatto con altri scienziati e studiosi, con un’apertura su altre realtà. La circolazione delle idee è essenziale alla cultura e alla scienza, il ritorno degli espatriati alcuni dei quali hanno dato grandi contributi intellettuali in altri paesi sarebbe stata un vantaggio per la vita culturale dopo un ventennio di autarchia e isolamento internazionale della cultura e della scienza che si è trovata così in ritardo anche in ambiti di cui aveva l’eccellenza. Ma come diceva Augusto Colonnetti, futuro presidente del CNR, sarebbe stata necessaria una duplice politica di rinnovamento: epurare chi si era compromesso e reintegrare le perdite sulla base del merito, e delle esigenze della scienza e della cultura. Quanti appartenevano al primo fronte, e gli allievi da loro sistemati o in attesa di sistemazione non erano i più adatti a richiamare i secondi, i quali si ritrovavano in mezzo a chi li aveva espulsi, e a chi li aveva sostituiti.
A quali fonti avete attinto per il Vostro lavoro?
Questa ricerca per me è iniziata diversi anni fa. E le fonti che mi hanno convinto della importanza di questo tema finora trascurato sono state le domande di aiuto per ritrovare un lavoro qualificato all’Emergency Committee in Aid of Displaced Scholars. Oltre alle domande presentate dai diretti interessati, che raccontano le loro vicende e difficoltà, ci sono le segnalazioni indirette da parte di colleghi e conoscenti. Ma come ho detto questo archivio e quello della SPSL di Londra non possono dar conto di tutti, né in genere dicono cosa accadde ai loro assistiti dopo i primissimi contatti. Servono altre fonti, delle istituzioni e luoghi dove poi questi studiosi approdarono; le loro eventuali memorie e corrispondenze. E poi le testimonianze degli eredi, che sono fonti preziose e difficili perché trasmettono ricordi personali che risalgono a quanto hanno sentito dire o capito da bambini, e che talvolta contrastano con i documenti.
Con il sito web Intellettuali in fuga dall’Italia fascista, che ha anche una versione inglese, abbiamo la possibilità di raggiungere e di essere contattati dai parenti, da chi abbia informazioni, documenti e foto. Grazie alla generosità di tanti, abbiamo una crescente documentazione, delle foto bellissime, delle storie di difficoltà, ma anche di resistenza, tenacia, capacità, di resilienza. È una grande soddisfazione, poterle far riemergere dal silenzio e dall’oblio.
Patrizia Guarnieri è stata Fulbright Visiting Scholar alla Harvard University, Jean Monnet Fellow all’European University Institute e docente a tempo indeterminato a Stanford University-Overseas Program. Dal 2004 all’Università di Firenze è professore ordinario di Storia contemporanea. Tra i suoi libri, Italian Psychology and Jewish Emigration under Fascism. From Florence to Jerusalem and New York (New York, Palgrave – MacMillan, 2016).