
Eppure, nel corso dei primi trent’anni dell’Italia unita, Pianell, Cosenz e Magnani Ricotti sono stati probabilmente i tre singoli personaggi ad esercitare l’influenza più decisiva sulla definizione delle sue istituzioni militari. O per meglio dire le influenze, perché fin dalla fine degli anni 1860 attorno ai nostri tre si coagulano tre concezioni del ruolo dell’istituzione militare distinte e spesso confliggenti. Infine, i loro percorsi biografici e professionali rispecchiano praticamente alla perfezione le tre anime del Risorgimento militare, quella piemontese, quella borbonica e quella garibaldina: e dal momento che il mio obiettivo era quello di scrivere una storia del Risorgimento assumendo il punto di vista di quegli ufficiali di professione cresciuti sotto la Restaurazione, e ritrovatisi poi colleghi nell’Italia liberale, la scelta dei loro profili mi sembrava in assoluto la più promettente.
Quale contributo offre lo studio del mondo militare italiano dell’Ottocento per la comprensione delle vicende di quel periodo?
Il Risorgimento italiano fu un processo culturale e politico, ma anche militare. Eppure dopo Piero Pieri, che al Risorgimento in armi ha dedicato un’opera tanto imprescindibile, quanto figlia di una concezione della storia politico-militare ormai sorpassata, nessuno ha più provato a proporre una rilettura complessiva di quell’aspetto della nascita dello stato italiano. L’aspetto militare del Risorgimento è stato di fatto abbandonato nelle mani degli uffici storici d’arma, e alle cure di una pattuglia piuttosto esigua di cultori della materia. Soprattutto è rimasto esposto alle incursioni dei nostalgici neoborbonici e lombardo-venetisti, che ne hanno trasmesso a buona parte dell’opinione pubblica una visione del tutto deformata, all’insegna della dietrologia e del vero e proprio falso storico. È vero che questo fenomeno si inquadra in una più generale contrazione degli studi sul Risorgimento, contrazione che è stata mascherata solo momentaneamente dal bicentenario del 2011. Ma è altrettanto evidente che tra tutti gli aspetti del Risorgimento, quello militare rimane di gran lunga il meno frequentato dalla storiografia contemporanea.
E invece lo studio del mondo militare italiano è una miniera d’oro per lo studio delle mentalità delle classi dirigenti coinvolte a vario titolo nel processo unitario. Stiamo parlando di un segmento delle élites di potere che agisce attivamente la transizione dalla Restaurazione all’Unità e poi quella, per certi versi ancora più traumatica, dalla fase eroica del Risorgimento, con la sua velocità vertiginosa e i suoi entusiasmi ardenti, ai lunghi anni dell’Italia liberale. Il dato che mi pare fondamentale è infatti la marcatissima agency dei militari ottocenteschi, specialmente in un contesto di state building come quello italiano, e la loro totale appartenenza allo spirito del loro tempo. Gli ufficiali ottocenteschi sono professionisti e amateurs, grands seigneurs e parvenus, conservatori e progressisti, cattolici e liberi pensatori, esattamente come le élites politiche della loro epoca, con le quali del resto intrattengono un dialogo continuo.
In questo senso, quella che ho scritto non è una storia militare del Risorgimento, ma una storia della mentalità dei militari nel Risorgimento: una storia dell’unità d’Italia dal loro punto di vista. E credo ci riveli una varietà di dinamiche e strategie di sopravvivenza, di successo e di caduta fin qui insospettata, e che non riguarda soltanto il mondo dei militari di professione, tutt’altro.
Quale universo culturale e ideale caratterizza la generazione dei militari dell’Ottocento?
Per prima cosa non c’è una generazione di militari dell’Ottocento: ce ne sono almeno cinque, e ciascuna di esse ha caratteristiche e mentalità proprie.
Ci sono coloro che hanno partecipato all’epopea napoleonica, e che danno vita alle rivoluzioni del 1820-21. Ci sono i nati all’inizio del secolo, che vivono sulla propria pelle gli anni peggiori della Restaurazione e sono spesso costretti all’esilio, o ad una faticosa e problematica resilienza – appartengono a questa generazione gli esuli Fanti, Cialdini e Durando, ma anche il monarchico costituzionale Alfonso Lamarmora.
Poi ci sono i nati attorno al 1820, e a quella specifica generazione appartengono i tre protagonisti del mio libro. Salvatore, Enrico e Cesare non hanno memoria del mondo prima della Restaurazione, se non dai racconti dei loro familiari e dei professori che incontrano in accademia. Loro e i loro coetanei, a differenza delle generazioni precedenti, sono in grandissima parte di origine borghese, e questo dato biografico-sociale ha un peso determinante nel loro rapporto con la professione delle armi e con le forme di governo degli stati nei quali vivono. Il punto di svolta delle loro vite è il biennio 1848-49, finestra di opportunità nel corso della quale compiono le scelte che ne determinano le identità per il resto delle loro esistenze.
Ma non finisce qui, anzi. Dopo la generazione del 1820 c’è quella del 1840, che salirà al vertice delle istituzioni militari nell’Italia umbertina: i Pelloux, i Baldissera, i Dal Verme, uomini che vivono solo l’ultima fase del Risorgimento, sono di norma immuni dai tormenti politici dei loro fratelli maggiori, e non hanno grosse difficoltà a calarsi nella nuova realtà post-risorgimentale e imperialista dello stato crispino. E infine la generazione nata dopo il 1850: nativi unitari, eppure vincolati, chi più chi meno, a memorie, a canoni di comportamento, ad una mentalità maturata nel corso delle vicende risorgimentali.
Poi, ovviamente, ciascuna di queste generazioni comprende una quota, spesso maggioritaria, di esponenti che non partecipano affatto degli entusiasmi unitari e costituzionali, e che restano invece fedeli ad una concezione di militare, e di stato, di tipo illiberale o addirittura assolutistico. Sono i repressori del 1820-21, coloro che nei vent’anni successivi aderiscono convintamente ai moduli repressivi messi in campo dalle monarchie assolute. E ancora, quelli che nel 1859-60 combattono non a favore ma contro l’unità nazionale, e che avversano ideologicamente le riforme di Magnani Ricotti nel 1870-76. Anche la loro storia meriterebbe di essere approfondita, un giorno: nel mio libro costituiscono una buona parte dei personaggi secondari che accompagnano le vicende dei tre protagonisti.
Quale rilevanza assume l’aspetto politico-culturale delle tre biografie? Quale peso ebbero i contesti ambientali, familiari e formativi sulle loro esistenze?
Un aspetto assolutamente centrale. Anzitutto, la politica militare è prima di tutto politica, anche se a volte ce ne dimentichiamo. Più in genetale non esiste, allora come oggi, una ragione tecnica che sfugga alle categorie della politica. E allora le esperienze rivoluzionarie e mazziniane di Enrico Cosenz sono cruciali, in negativo, per comprenderne la successiva azione da esponente di punta del garibaldinismo, e poi da gros bonnet dell’Italia umbertina. Allo stesso modo non si spiegherebbe l’entusiasmo per la politica parlamentare di Cesare Ricotti senza conoscerne la contiguità con una certa parte della Destra Storica piemontese. E ancora l’incrollabile antiparlamentarismo di Salvatore Pianell non si spiega senza le sue esperienze nella repressione dei moti calabresi e siciliani del 1848-49, e nei convulsi mesi della fine del Regno delle Due Sicilie.
Ma anche la politica non è solo politica. Gli stimoli culturali che Salvatore, Enrico e Cesare ricevono dalle rispettive saghe familiari, dagli insegnanti, dai colleghi più anziani e dai compagni di accademia, dai giornali e dai romanzi che leggono sono ugualmente fondamentali per comprenderne le mentalità. Cesare che in Crimea legge i romanzi di Georges Sand, pur trovandoli mortalmente noiosi, invece di andare a ubriacarsi coi colleghi francesi e inglesi è una delle immagini che più mi ha colpito, nel corso dello scavo archivistico che ha preceduto la scrittura del libro.
Quale lezione possiamo trarre dalle vicende di questi tre protagonisti su come i militari di professione agirono una fase storica contraddittoria e complessa come il Risorgimento italiano?
Sono sempre stato estremamente alieno da una concezione teleologica della storia, e in un certo senso proprio per questo amo trattare di piccoli uomini e donne in carne ed ossa, piuttosto che di grandi costruzioni ideali, di grandi teorie politiche o di grandi fenomeni di lungo periodo. Non che non sia necessario occuparsene, tutt’altro: semplicemente non è il mio pane, e in ogni caso c’è chi lo fa molto meglio di me. Tuttavia, almeno per quanto riguarda lo studio delle istituzioni politiche, fin qui non ho avuto motivo di ricredermi sul fatto che per comprenderne il funzionamento sia fondamentale conoscerne i concreti interpreti più che i regolamenti formali.
Da questo libro credo emerga la natura paurosamente, ma anche meravigliosamente incidentale del processo che ha portato all’unità d’Italia, per lo meno nei termini nei quali si è alla fine realizzata. In una molteplicità di occasioni, a Salvatore, a Enrico, a Cesare e a tutti i loro colleghi si presentano possibiltà di scelta che implicano assunzioni di responsabilità politiche, sociali e personali di assoluto momento. Scelte gravide di conseguenze non solo per la loro istituzione di riferimento, quella militare, ma per il futuro dell’intera penisola. E loro non si sottraggono, compiono le loro scelte, ne affrontano le conseguenze a breve e a lunga scadenza.
È proprio sulla base di questa partecipazione attiva degli ufficiali ottocenteschi ai processi storici che attraversano il loro tempo che si vengono ad aprire (e chiudere) finestre di possibilità che non riguardano soltanto la storia del Risorgimento – e già basterebbe per renderne interessante lo studio – ma anche la storia dello stato italiano dalla sua nascita ai giorni nostri. Per fare un solo esempio, le riforme promosse da Cesare Magnani Ricotti nella prima metà degli anni 1870 mettono l’istituzione militare italiana nella condizione di evolvere in un senso di maggiore apertura alla società, di maggiore integrazione e dialogo con le altre istituzioni politiche e culturali dello stato, oppure di intraprendere, per reazione difensiva, per arrocco corporativo, e per tanti altri motivi, una strada diametralmente opposta. Ecco, non credo che scelte di questo genere interessino soltanto la storia militare, o quella delle istituzioni militari.
Jacopo Lorenzini (Faenza 1986) ha studiato storia contemporanea e storia delle istituzioni a Bologna, Parigi e Siena. Dopo il dottorato ha trascorso due anni a Napoli presso l’Istituto Italiano di Studi Storici, studiando il corpo ufficiali del Regno delle Due Sicilie e la sua riconversione postunitaria. Ha pubblicato Uomini e Generali. L’élite militare nell’Italia liberale (1882-1915) (FrancoAngeli 2017), e L’Elmo di Scipio. Storie del Risorgimento in armi (Salerno 2020). Attualmente è ricercatore all’Università di Macerata, dove si occupa della mentalità del corpo ufficiali italiano nell’età della Guerra Fredda.