“L’elefante di Carlo Magno. Il desiderio di un imperatore” di Giuseppe Albertoni

Prof. Giuseppe Albertoni, Lei è autore del libro L’elefante di Carlo Magno. Il desiderio di un imperatore edito dal Mulino, in cui narra un episodio storico poco noto ma carico di significato: l’arrivo ad Aquisgrana di un elefante per l’imperatore Carlo Magno. Come si svolse la vicenda?
L'elefante di Carlo Magno. Il desiderio di un imperatore, Giuseppe AlbertoniQualche anno prima dell’incoronazione imperiale avvenuta il giorno di Natale dell’800 Carlo Magno decise di volere un elefante. Lo narra il suo primo biografo, Eginardo, a lungo suo stretto collaboratore. Lo fa in un brano della sua Vita di Carlo Magno (Vita Karoli) dedicato ai rapporti tra l’imperatore franco e i sovrani del tempo. In questo contesto egli scrisse che l’amicizia e l’intesa di Carlo Magno «con Haron, re dei persiani, padrone di tutto l’Oriente esclusa l’India, fu così stretta che quel re privilegiava il favore verso di lui all’amicizia di tutti i sovrani e principi della terra». In realtà i rapporti tra questi due sovrani non furono mai diretti, ma si svilupparono attraverso l’invio ripetuto di ambasciatori che portavano con sé magnifici doni. Solo uno di questi doni fu però un dono su richiesta. Eginardo scrisse infatti che pochi anni prima di inviare a Carlo Magno «vesti, spezie e altri prodotti delle terre d’Oriente» Haron «gli aveva spedito, dietro sua richiesta, anche un elefante, l’unico che in quel momento aveva».

Quando raccontò quest’episodio Eginardo sovrappose degli eventi reali a dei modelli letterari, secondo un uso molto diffuso al tempo. I suoi modelli erano costituiti da alcune importanti opere storiche dell’antichità, prima fra tutte le Vite dei Cesari (e in particolare la Vita di Augusto) di Svetonio. In esse frequenti erano i racconti dei rapporti privilegiati tra imperatori romani e imperatori persiani, i signori d’Occidente e d’Oriente. In questa prospettiva il califfo Harun al-Rashid (Haron per Eginardo) fu ritratto come il “re dei persiani”, che non avrebbe potuto aver amicizia maggiore se non col nuovo “imperatore romano”, Carlo Magno. Questa rievocazione dei modelli dell’antichità non agiva solo sul piano letterario. Influenzava anche i comportamenti di Carlo Magno, che come i suoi predecessori dell’antichità volle dunque ricevere un elefante, «l’animale che adora il re» secondo una tradizione che risale sino ad Aristotele.

Per sapere come questo desiderio si fosse trasformato in realtà dobbiamo rivolgerci a un altro testo, i cosiddetti Annali regi (Annales regni Francorum), scritti in ambienti molto vicini a Carlo Magno da autori anonimi, quasi in presa diretta con gli eventi narrati. Essi non menzionano il desiderio di Carlo Magno, ma raccontano come l’elefante fosse giunto in Europa. Il suo arrivo fu annunciato a Carlo Magno quando aveva abbandonato da poco Roma, dove si era fermato fino alla Pasqua dell’801 dopo l’incoronazione imperiale. Quando gli arrivò la notizia, si trovava tra Ravenna e Pavia. Qui gli fu annunciato che erano entrati nel porto di Pisa i legati del “re dei persiani”, con cui si incontrò tra Vercelli e Ivrea. Non voleva infatti interrompere il suo ritorno, che già era iniziato male a causa di un terremoto che lo aveva sorpreso in Umbria. Delegò quindi a un suo uomo di fiducia, il notaio Erchembaldo, l’organizzazione dell’arrivo dell’elefante. In questo contesto, come in un flash back, veniamo a sapere che quattro anni prima – quindi nel 797 – egli aveva inviato da Harun al-Rashid per prendere l’elefante una piccola delegazione di tre uomini, capitanata da un ebreo di nome Isacco. Fu sempre Isacco a guidare l’elefante sulla via del ritorno, mentre i suoi compagni di viaggio erano morti lungo il tragitto. Quando Carlo Magno fu avvisato del suo arrivo, Isacco aspettava d’imbarcarsi sulle coste della Tunisia con l’elefante Abul Abbas.

Purtroppo le nostre fonti sono molto stringate e poco descrittive, per cui nulla ci dicono in particolare di Isacco, del suo elefante, del loro itinerario. Partiti da Baghdad molto probabilmente erano giunti via terra sino a Gerusalemme. Da qui non poterono imbarcarsi o procedere verso la Grecia o l’Adriatico a causa dei rapporti tesi tra il califfato abbaside e l’impero bizantino. Procedettero quindi via terra, molto probabilmente lungo le vie carovaniere che sul tracciato delle antiche vie romane collegavano le principali città del nord Africa. Giunti nell’odierna Tunisia si fecero preannunciare, affinché fosse Carlo Magno ad accollarsi la logistica dell’attraversamento marino. Come abbiamo ricordato, l’imperatore assegnò quest’arduo compito al notaio Erchembaldo, che lo portò a termine, in modalità che però purtroppo non sono descritte da alcun testo. Gli Annali regi ci raccontano, tuttavia, che Isacco e il suo prezioso seguito sbarcarono nel golfo di La Spezia, a Porto Venere. Ma l’autunno e l’inverno erano ormai alle porte e si fermarono a Vercelli sino a primavera quando, valicato il Gran San Bernardo, dopo un lungo tragitto giunsero il 20 di luglio ad Aquisgrana, la località termale che Carlo Magno si era prefissato di trasformare in una “seconda Roma”.

Quali erano le ragioni di quell’inconsueto desiderio di Carlo?
In passato gli storici che si sono occupati dell’elefante di Carlo Magno hanno spesso trascurato il fatto che il suo arrivo fosse frutto di un desiderio del sovrano franco, come testimoniano due fonti indipendenti l’una dall’altra, la già ricordata Vita di Carlo Magno di Eginardo e un testo agiografico meno noto, dedicato alla traslazione delle reliquie di san Genesio da Gerusalemme a una piccola località presso il lago di Costanza, posta non lontano dall’importante abbazia di Reichenau (Miracula sancti Genesii). Nel ricostruire l’avventuroso viaggio di coloro che erano stati incaricati di prelevare le importanti reliquie, l’anonimo autore di questo testo agiografico afferma che costoro prima di imbarcarsi nell’alto Adriatico alla volta di Gerusalemme incontrarono «i messi del signor imperatore Carlo, che dovevano chiedere un elefante» a Harun al-Rashid, qui definito come “re dei saraceni”.

Ma perché Carlo Magno pochi anni prima dell’incoronazione imperiale avrebbe voluto un elefante? Uno dei pochi storici che in tempi recenti ha provato a rispondere a questa domanda, Paul E. Dutton, ha proposto una tesi suggestiva. Carlo Magno avrebbe voluto costruire ad Aquisgrana un “nuovo Eden” in un parco che avrebbe affiancato il suo palazzo e che avrebbe rappresentato simbolicamente il suo potere come “re degli animali” e “re del mondo”. Ma fu veramente così? Purtroppo non abbiamo fonti coeve che lo attestino e che descrivano il parco. Solo per l’epoca del figlio di Carlo Magno, Ludovico il Pio, sappiamo che presso il palazzo di Aquisgrana si estendeva una riserva di caccia. Ma la caccia, come si sa, è ben poco compatibile con un luogo paradisiaco. Forse questa riserva era già presente negli anni di Carlo Magno. Tuttavia, ciò che è certo è il fatto che egli tenesse presso il suo palazzo un “alloggiamento” per il suo elefante, al quale lasciò il nome Abul Abbas che gli era stato dato da Harun al-Rashid forse per ricordare il suo omonimo antenato e fondatore della sua dinastia, gli Abbasidi. Anche il mantenimento di questo nome esotico appare poco compatibile con la ricostruzione di un paradiso in terra.

Non dobbiamo dimenticare, d’altra parte, che la simbologia cristiana dell’elefante era ambigua e ambivalente. Ciò trova conferma in una lunga tradizione che ebbe una prima formalizzazione nel Fisiologo, una sorta di antecedente dei futuri bestiari, già diffuso nella tarda antichità. In esso in un primo momento l’elefante è rappresentato come un animale puro, poiché non avrebbe posseduto la «concupiscenza dell’accoppiamento». I maschi si sarebbero accoppiati con le femmine solo dopo aver mangiato la mandragola, offerta dalla femmina al maschio. Nel far ciò elefanti ed elefantesse sarebbero stati una rappresentazione di Adamo ed Eva, prima puri, poi peccatori. E proprio come peccatore l’elefante fu ritratto da uno dei maggiori intellettuali carolingi, Rabano Mauro.

Un’immagine positiva più coerente aveva invece l’elefante nella tradizione classica greco-romana, in gran parte sintetizzata e trasmessa agli inizi del medioevo alle generazioni successive da Isidoro di Siviglia in un testo enciclopedico destinato a grande diffusione, le Etimologie. Questa tradizione, al contempo naturalistica e politica, aveva come principali autori di riferimento Aristotele e Plinio. Essa trasmetteva una rappresentazione dell’elefante come un animale particolarmente “vicino” all’uomo: esso sarebbe stato virtuoso, onesto, prudente, dotato addirittura di una propria religiosità. Tutte queste qualità si sarebbero espresse nel suo particolare riconoscimento dell’autorità regia: «piegando le ginocchia di fronte» al re, aveva scritto Plinio, «gli offrono corone». Questa particolare immagine dell’elefante come animale “regio” giunse agli intellettuali carolingi attraverso le opere dei grandi autori dell’antichità o dei loro compendi. Fu quest’immagine che, a mio avviso, sta alla base della richiesta di Carlo Magno il quale, ottenuto l’elefante – assai probabilmente un elefante indiano – lo tenne nella “nuova Roma”, ad Aquisgrana in un luogo non precisato, dove però poteva essere facilmente visto e poteva celebrare simbolicamente il suo potere imperiale.

Fu proprio osservando Abul Abbas che un erudito d’inizio secolo IX, il monaco irlandese Dicuil, poté constatare che, al contrario di quanto allora spesso sostenuto, gli elefanti potevano piegare le ginocchia. D’altra parte già Aristotele aveva sostenuto che gli elefanti erano animali così intelligenti da imparare a inchinarsi davanti ai re.

Animale regio, l’elefante sin dall’antichità era considerato anche un animale guerriero – si pensi ad Annibale o ad Alessandro Magno – un aspetto conosciuto alla corte di Carlo Magno. Purtroppo nuovamente non sappiamo se egli lo portasse con sé nelle poche campagne militare che intraprese dopo il suo arrivo ad Aquisgrana. È tuttavia probabile che così fosse accaduto nell’810, quando Abul Abbas morì improvvisamente forse proprio mentre seguiva Carlo Magno in una spedizione contro i danesi.

Che significato dare allo scambio di doni fra l’imperatore e il califfo?
I doni tra sovrani erano centrali nei rapporti diplomatici tra la fine del secolo VIII e l’inizio del secolo IX. Si trattava per lo più di un’azione sociale e politica che, più che creare nuovi rapporti, confermava una simmetria o un’asimmetria politica già esistente. I doni quindi riconoscevano simbolicamente uno status già presente e dei rapporti che, a seconda dei casi, potevano essere tra pari o gerarchici. I doni, di conseguenza, non implicavano necessariamente un controdono. In questo contesto, però, il dono poteva assumere talvolta un significato di sfida: sia quando si trattava di un dono di grande valore, sia, soprattutto, quando era di valore non adeguato alla persona alla quale era inviato. Molto rari erano, poi, i casi di doni richiesti, che di fatto creavano una tensione latente. Cosa sarebbe successo, infatti, qualora ci fosse stato un diniego? Ma ciò avveniva raramente fra pari. Per Carlo Magno l’unico sovrano al suo livello era il califfo o, meglio, per usare la terminologia delle fonti, il “re dei persiani”. Perché avrebbe dovuto dire no alla sua richiesta di un elefante?

Quale fu poi la sorte di Abul Abbas?
Le nostre fonti non dicono una parola di cosa accadde ad Abul Abbas negli anni che separarono il suo arrivo dalla sua morte. Ma questa circostanza non deve stupirci. Per lo stesso periodo sappiamo poco o nulla anche dei familiari di Carlo Magno o dei suoi più stretti collaboratori. Molto probabilmente, come abbiamo accennato, egli viveva presso il palazzo regio, forse in una riserva di caccia o in uno spazio recintato, dove poteva essere ammirato. Dicuil, il monaco irlandese di cui abbiamo già parlato, per esempio poté appurare che giaceva come un bue, «come comunemente videro i popoli del regno dei franchi al tempo di Carlo Magno».

Poco sappiamo anche sulla sua morte, avvenuta come ricordato nell’810, molto probabilmente sul fronte con i danesi. Forse cadde vittima di un’epidemia (peste bovina?) che in quel periodo falcidiò molti animali al seguito dell’esercito di Carlo Magno.

Giuseppe Albertoni insegna Storia medievale all’Università di Trento. Tra i suoi libri: L’Italia carolingia (Carocci, 1997), Il feudalesimo in Italia (con L. Provero, Carocci, 2003), Vassalli, feudi, feudalesimo (Carocci, 2015). Ha inoltre curato con T. Lazzari e S. Collavini Introduzione alla storia medievale (il Mulino, nuova ed. 2020).

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