
Il primo ruota attorno alle ragioni che rendono così rilevante l’emergere di una fase nella quale più di un centro di potere avanzi una credibile pretesa di governo sopra una data comunità, rompendo così il classico assunto weberiano dell’autorità statale come unica depositaria del monopolio della forza e della legittimità politica. La risposta che fornisco suona come un significativo allontanamento dalla generazione più recente di studi sulle rivoluzioni, la quale ritiene la presa del potere un elemento non necessariamente centrale nei fenomeni rivoluzionari. Dal mio punto di vista invece, la battaglia che ruota attorno all’organizzazione e all’utilizzo del potere statale deve essere considerata il cuore pulsante di ogni trasformazione rivoluzionaria. Se dovessi riassumere in estrema sintesi, direi quindi che nessuna rivoluzione può aver successo senza la conquista dello stato. Inoltre, proprio perché le strutture statali sono create per garantire e mantenere specifici rapporti di produzione e di dominio, queste non possono essere utilizzate dai rivoluzionari per trasformare profondamente l’esistente. Il successo della rivoluzione richiede perciò l’abbattimento degli apparati statali presenti e la creazione di nuovi. Come questo si realizzi in assenza di un conflitto esterno, ci porta dritti alla fase di potere duale. Questa non solamente crea un’autorità politica alternativa e reale che possa soppiantare quella esistente, ma favorisce anche la possibile disintegrazione degli apparati statali, che di fronte alla richiesta di reprimere l’unità politica antagonista possono disertare, passando così dalla parte dei rivoluzionari, oppure liquefarsi.
Il secondo quesito si incentra invece attorno alle ragioni dell’assenza di strutture alternative di potere politico nel corso della rivoluzione egiziana. In maniera del tutto sorprendente, non solamente questa non ha creato una fase di sovranità multipla, ma anche le esperienze di auto-governo sui luoghi di lavoro, nei quartieri, nelle università e nelle campagne sono state particolarmente limitate e deboli. Questo contrasta frontalmente con quanto successo dalla Comune parigina del 1871 in poi, quando ogni esperienza rivoluzionaria, anche di intensità inferiore a quanto vissuto dall’Egitto, ha dato vita ad organi di democrazia dal basso che hanno amministrato autonomamente vari ambiti della vita umana. Nel libro ho individuato due fattori principali che possono concorrere a spiegare questa anomalia: l’assenza di una forte organizzazione rivoluzionaria e la presenza di un contesto ideologico animato dai principi dell’orizzontalità, dal rifiuto della gerarchia e dal disinteresse verso la conquista del potere. Questi elementi hanno fatto sì che il radicale impulso dei subalterni rimanesse orfano di una cornice ideologica ed intellettuale alla quale ancorarsi, con un immaginario politico, anche per quanto concerne i gruppi rivoluzionari, di carattere riformista e legalista.
Qual è stata la genesi del processo rivoluzionario?
La rivoluzione egiziana è stata anticipata da oltre un decennio durante il quale una molteplicità di movimenti di protesta hanno favorito una poderosa accumulazione di energie radicali. Quest’ondata di discontento si è principalmente, per quanto in maniera non esclusiva, coagulata attorno ad un vitale movimento democratico e ad una lunga serie di scioperi operai.
Il cuore pulsante dei secondi sono state le fabbriche tessili statali del Delta del Nilo, iper-integrate verticalmente e caratterizzate da una fortissima concentrazione di manodopera. Ognuna di queste rappresentava un esempio manifesto delle contraddizioni dello sviluppo capitalistico in Egitto. Questi giganti statali erano infatti stati creati, oppure significativamente potenziati, nel periodo nasserista quando il processo di industrializzazione e modernizzazione del paese venne perseguito attraverso un capitalismo di stato sviluppato in partenariato con l’Unione Sovietica. L’esaurirsi di questo esperimento in una forte crisi finanziaria favorì il processo di liberalizzazione economica avviato da Sadat a metà degli anni settanta, che accelerò significativamente nei novanta. La punta di diamante di questa torsione neoliberista era la dismissione di 314 aziende statali, dove peraltro si concentrava il massimo grado di militanza e coscienza operaia. Il progetto riuscì alla perfezione nelle industrie di medie dimensioni, ma fallì miseramente, per la resistenza dei lavoratori, in quei centri che rappresentavano il cuore della fabbrica nasserista. In tal senso ritengo che non sia sufficiente affermare, come fatto da molti ricercatori, che il movimento operaio egiziano degli anni duemila sia stato una risposta ad un neoliberismo sfrenato. Per comprenderlo dobbiamo invece assumere una prospettiva storica di medio-lungo periodo, indagare le varie e contraddittorie fasi di sviluppo capitalista del paese ed evidenziare come le politiche neoliberiste siano state, allo stesso tempo, troppo radicali per non provocare una reazione da parte dei lavoratori, ma non sufficientemente forti per sconfiggere i bastioni di resistenza operaia.
Il movimento democratico invece – di natura strettamente urbano e guidato dalle classi medie istruite – è stato il portato di una convergenza larga in termini ideologici tra forze di opposizione che si erano strenuamente avversate nel recente passato. L’esordio del movimento deve essere fatto risalire alle proteste che sono seguite allo scoppio della seconda Intifada palestinese nel 2000. Questo, di riflesso, aiuta ad individuare alcune delle contraddizioni e debolezze che caratterizzavano il regime egiziano. Incapace di deflettere le pressioni economiche e militari provenienti dai paesi più avanzati – in virtù della sua non emersione come polo autonomo di accumulazione capitalistica – l’Egitto è stato costretto ad assorbire queste con la creazione di un ambiente interno favorevole alla valorizzazione del capitale transazionale e con la stipula di un duraturo accordo di pace con Israele. Questo ha determinato tre conseguenze di grande rilievo: il graduale assottigliarsi del blocco storico, che alla vigilia della rivoluzione non escludeva solamente i settori popolari e subalterni, ma anche le classi medie; la creazione di uno stato di terrore, con la chiusura degli spazi di dissenso ed una feroce repressione delle opposizioni, perciò maggiormente disposte a sviluppare una reciproca collaborazione anti-governativa; ed infine la presenza di un regime che, a causa della propria collocazione internazionale, non poteva presentarsi come il vero difensore degli interessi nazionali. La frustrazione sociale delle classi medie riemerse così per la prima volta in riferimento ad una tematica di grande sensibilità per l’intero mondo arabo – la Palestina – sulla quale il governo di Mubarak, a causa della sua più o meno esplicita vicinanza ad Israele, non poteva mostrare alcun grado di legittimità. Negli anni successivi, un’altra questione internazionale – la seconda guerra irachena – rinvigorirà ancora il movimento democratico, che con la fondazione di Kifaya prima e del Movimento 6 Aprile poi virerà con decisione verso questioni di politica interna.
Come si è sviluppata l’insurrezione di massa con epicentro in Piazza Tahrir, al Cairo e la caduta del regime di Hosni Mubarak?
Nelle ultime fasi dell’insurrezione di massa contro il regime di Mubarak la quasi totalità delle forze politiche e sociali erano attivamente mobilitate nelle strade e nelle piazze egiziane. Questa larghissima convergenza rivoluzionaria è emersa, tuttavia, gradualmente nel corso dei diciotto giorni della sollevazione. Il punto di partenza, come noto, deve essere considerato il 25 gennaio 2011, giornata nella quale si celebravano le forze di polizia in Egitto. Nel tentativo di capitalizzare sul diffuso risentimento nei riguardi di queste, una galassia di movimenti, gruppi, organizzazioni non governative e partiti della sinistra marxista chiamava infatti alla mobilitazione. Dopo il modesto risultato ottenuto da una speculare iniziativa l’anno precedente, le aspettative di molti militanti non erano alte. In maniera sorprendente però, una massa di 15-20 mila manifestanti invaderà le strade della capitale egiziana, riuscendo anche ad occupare per alcune ore la centralissima e simbolica piazza Tahrir. Simili dimostrazioni di forza da parte dell’opposizione si registreranno, inoltre, in tutti i principali centri abitati del paese. In questa prima giornata di proteste emerse immediatamente quello che, a mio giudizio, ha rappresentato il nucleo fondante della sollevazione: l’implicita collaborazione tra la classe media istruita ed il sottoproletariato urbano. Nei giorni successivi, queste due classi agiranno in contesti diversi – nelle piazze occupate la prima e nei quartieri popolari il secondo – ed attraverso modalità d’azione per certi versi opposte. Per quanto molti commentatori occidentali siano stati colpiti dai metodi largamente non-violenti utilizzati dalla classe media, se questa ha potuto parlare dalle piazze occupate con i giornalisti di tutto il mondo è stato in gran parte per la violenza politica sprigionata dalle classi subalterne, soprattutto contro le stazioni di polizia. Questa dinamica ha costretto il regime a disperdere le proprie forze in innumerevoli punti della città, prevenendo così la possibilità che venisse condotta un’operazione di repressione su vasta scala contro chi affollava le piazze.
In maniera didascalica, potremmo dire che l’allargamento della convergenza rivoluzionaria sia avvenuto in due fasi principali. La prima, in vista del 28 gennaio, ha riguardato un ampliamento dell’arco delle forze politiche impegnate nella mobilitazione. La forza delle masse e l’innescarsi di una situazione rivoluzionaria ha forzato molti partiti che erano stati ambigui, ed anche apertamente contrari, alle proteste di tre giorni prima a rivedere le proprie posizioni. Il secondo momento nel quale si è realizzato un ulteriore allargamento della convergenza rivoluzionaria è stato dopo il 6 febbraio, quando il regime, fallito il tentativo di sgomberare violentemente piazza Tahrir occupata attraverso l’utilizzo di un raccogliticcio battaglione di fedelissimi e criminali comuni, ha deciso di riaprire fabbriche ed uffici pubblici che erano rimasti chiusi a partire dal 28 gennaio. Il tentativo era quello di rivendicare un ritorno alla “normalità”. L’effetto sarà però opposto, fornendo al movimento dei lavoratori la possibilità di un intervento diretto negli eventi come soggetto collettivo. La capacità della rivoluzione di allargarsi anche da un punto di vista sociale sancirà la piena formazione di una larghissima convergenza contro il regime di Mubarak. In tale situazione, temendo che un tentativo di repressione del movimento sarebbe potuto costare la possibile rottura della disciplina interna, l’esercito decideva di abbandonare l’anziano autocrate per salvare se stesso ed il sistema nel suo complesso, attraverso un colpo di stato “blando” e “difensivo”.
Quali vicende hanno segnato le elezioni parlamentari sino alla vittoria di Mohamed Morsi ed il governo della Fratellanza?
Uno degli argomenti “forti” proposti dal libro è che l’unica vera e propria finestra di opportunità che poteva condurre alla seconda fase della rivoluzione – ovvero, quella che avrebbe dovuto determinare il passaggio dei poteri dai militari, che si trovavano de facto alla guida del paese dalla caduta di Mubarak, ai rivoluzionari – si sia data nell’autunno del 2011. In questa fase infatti, per la prima volta dai diciotto giorni della sollevazione, la dinamica degli eventi era tornata a favore dei manifestanti. Nonostante questo, al termine di 5 giornate di furiosi scontri tra rivoluzionari e polizia militare nel centro cittadino della capitale, divenuti noti come la battaglia di via Muhammad Mahmoud, il verdetto delle barricate assegnerà il pieno successo alla controrivoluzione. La radicalità delle proteste ed il rapido allargarsi di queste ad altre città aveva lasciato ipotizzare che per l’esercito si rendesse necessario schierare nelle strade, come nel corso della sollevazione, le proprie truppe di base, esponendole al rischio concreto di un contatto diretto con i rivoluzionari. Tale vicinanza fisica avrebbe potuto dar vita a scene di fraternizzazione tra insorti e ranghi inferiori delle forze armate, con la conseguente rottura della gerarchia militare. Nei fatti però, un simile scenario non si darà mai. L’incapacità del movimento ‘politico’ e di quello ‘economico’ di unirsi nuovamente in un momento unico di insurrezione generale limiterà la sollevazione del novembre del 2011 alla sola frangia più politicizzata della rivoluzione, mentre l’assenza della formazione di centri alternativi di potere politico sui luoghi di lavoro, così come in altri ambiti, renderà possibile un intervento mirato e selettivo da parte degli organi repressivi dello stato. Il fallimento della seconda fase della rivoluzione aprirà il campo al momento elettorale, dove la maggioranza qualitativa della piazza verrà ridotta in minoranza quantitativa, stritolata dalla contrapposizione tra islamisti e forze a-religiose e soverchiata dalle capacità organizzative della Fratellanza. Questa otterrà un indiscutibile successo nelle elezioni parlamentari, svoltesi in tre turni tra il novembre 2011 ed il gennaio 2012, raggiungendo quasi la maggioranza assoluta dei seggi. Il secondo blocco in parlamento era invece composto dai partiti salafiti, mentre le forze liberali ed ancor di più quelle di sinistra raggiunsero risultati modesti, in alcuni casi addirittura risibili. Lo strapotere degli islamisti nelle urne li spinse a fare pressioni sui militari per giungere alla nomina di un esecutivo di investitura parlamentare. Il rifiuto delle forze armate in tal senso determinò l’indebolimento dell’implicito patto controrivoluzionario che aveva legato Fratelli e generali fin dal giorno della rimozione di Mubarak, spingendo la Fratellanza in una direzione decisamente più assertiva. Questa si manifestò nella nomina di un’assemblea costituente dominata da esponenti islamisti, con le furiose proteste dei partiti che costituivano l’opposizione al precedente regime, e con la decisione, dopo che una tale eventualità era stata più volte rigettata dalla Fratellanza, di presentare un proprio candidato nelle imminenti elezioni presidenziali. La squalifica di Khairat al-Shater, espressione massima di quella frazione capitalista che aveva assunto un ruolo di primissimo piano all’interno dell’organizzazione, determinò la presentazione di quello che venne presto ribattezzato la “ruota di scorta”, Mohamed Morsi. Nel primo turno delle elezioni presidenziali, le preferenze degli elettori si concentrarono quasi interamente su cinque candidati, con quattro di questi vicinissimi l’uno all’altro. Il nasserista radicale Hamdin Sabahi e l’ex esponente della Fratellanza Abdel Moneim Aboul Fotouh sfiorarono il secondo turno, al quale giunsero però Mohamed Morsi e Ahmed Shafiq, espressione dei vecchi apparati di regime ed ultimo primo ministro di Mubarak. Con quasi il 52 percento dei voti raccolti al ballottaggio del giugno 2012, Morsi diveniva il primo presidente democraticamente eletto del paese.
Come si è giunti colpo di stato guidato da al-Sisi nel luglio del 2013?
Il colpo di stato guidato da al-Sisi nel luglio del 2013 ha rappresentato il pieno successo della controrivoluzione. Vi sono due aspetti di grande rilevanza qui. In primo luogo, e a differenza di altri episodi del passato più o meno recente, il trionfo della reazione non è avvenuto a dispetto della volontà delle masse, ma con il loro esplicito sostegno. Contro il governo della Fratellanza si era infatti creata una larghissima convergenza sociale e politica. In tale processo, vi sono stati due momenti salienti: la creazione, in seguito alla contestatissima dichiarazione costituzionale di Morsi nel novembre del 2012, del Fronte di Salvezza Nazionale, con la partecipazione di liberali, nasseristi, forze di sinistra ed anche settori vicini al vecchio regime; e l’avvio della campagna Tamarrod (ribellione, rivolta) il primo maggio 2013, quando il fronte anti-Fratellanza si allargherà anche ai gruppi rivoluzionari, come il Movimento 6 Aprile ed i Socialisti Rivoluzionari, ed al sindacalismo indipendente. Rapidamente co-optato dai vertici militari, Tamarrod diverrà lo strumento che legittimerà l’intervento delle forze armate, sulla scia delle oceaniche manifestazioni del 30 giugno del 2013. La controrivoluzione dei generali trionfava così mostrandosi all’apparenza come la mera esecutrice della volontà popolare.
Il secondo elemento concerne invece la natura delle forze armate. Nel contesto egiziano queste non solamente detengono, come tipico per qualsiasi regime, il monopolio dei mezzi coercitivi, ma figurano anche tra i proprietari dei mezzi di produzione. La graduale trasformazione dell’esercito in una borghesia in armi ha preso avvio a partire dagli anni settanta, quando il declino di importanza politica dei generali è stato compensato con la promozione di attività economiche sotto il loro controllo, nella speranza che questo potesse immunizzare il regime da colpi di stato interni. Tale processo ha conosciuto una decisa accelerazione sotto la leadership del feldmaresciallo Abdel Halim Abu Ghazala, ministro della difesa dal 1981 al 1989, quando molte fabbriche militari sono state riconvertite alla produzione civile, coprendo quasi ogni settore dell’economia egiziana. Le successive privatizzazioni degli anni novanta e duemila hanno poi aperto ulteriori opportunità per le forze armate egiziane, che hanno così sviluppato rilevanti collaborazioni con il capitale transnazionale, spesso proveniente dai paesi del Golfo.
Alla vigilia della rivoluzione, la tutela degli interessi di questa borghesia in armi derivava da due condizioni principali: la vendita attraverso canali protetti e privilegiati di prodotti alquanto modesti che difficilmente avrebbero potuto disporre di un loro mercato in un regime di maggiore concorrenza; e l’utilizzo di una manodopera docile e con salari bassissimi, in gran parte fornita da quegli uomini costretti a trascorrere fino a tre anni come militari di leva. In tal senso, questa frazione della classe capitalista non era solamente incompatibile con le istanze della rivoluzione, ma anche con il progetto della Fratellanza di stabilire un controllo civile sulla sfera militare.
Qual è la situazione sociale e politica attuale in Egitto?
Pochi giorni fa è giunta la notizia della morte in carcere di Mohamed Morsi. Dalle informazioni in nostro possesso, il decesso sarebbe giunto per cause naturali. Nonostante questo, le inumani condizioni alle quali era sottoposto l’ex presidente sembrano avvalorare il sospetto più volte paventato che le autorità egiziane abbiano volontariamente accelerato il processo che ha portato alla morte di Morsi. Dopo aver dato rapidamente la notizia in serata, i media egiziani hanno completamente oscurato qualsiasi riferimento alla vicenda la mattina seguente. Penso che tutto questo ben rappresenti la situazione attuale vissuta dall’Egitto, sprofondato sotto una cappa repressiva che non ha precedenti nella storia del paese. Alcuni numeri ci aiutano forse a fotografare meglio la situazione di tante parole. I 60 mila detenuti nelle carceri egiziane del 2011 sono diventati 106 mila circa nel 2016, oltre la metà dei quali trattenuti per reati politici, mentre il numero di quanti sono stati sottoposti al giudizio di un tribunale militare tra l’ottobre 2014 ed il settembre 2017 ha raggiunto l’esorbitante cifra di oltre 15 mila. Nel solo primo anno del presidente al-Sisi, dopo che nessuna sentenza capitale era stata eseguita a partire dalla sollevazione del 2011, 27 persone sono state giustiziate, spesso alla conclusione di processi farsa. Dal gennaio al dicembre 2016, il numero delle condanne a morte eseguite dal regime egiziano, secondo quanto ricostruito da Amnesty International, non sarebbe stato inferiore a 44. Proprio a partire dal 2016, dopo che il principale bersaglio del regime era stata l’opposizione politica, una ferocissima repressione si è abbattuta anche contro il movimento operaio organizzato. Tra il maggio 2016 e l’aprile successivo, ad esempio, ben 151 sindacalisti e lavoratori sono stati arrestati, mentre 26 operai dei cantieri navali di Alessandria, passati sotto la proprietà del ministero della difesa nel 2007, rimangono al momento sotto processo militare, dopo aver già perso il proprio posto di lavoro ed aver speso cinque mesi in carcere.
Senza alcun dubbio, la potenza e pervasività dell’azione poliziesca e militare ha annichilito la capacità di mobilitazione da parte delle opposizioni, con la Fratellanza Musulmana dichiarata organizzazione terroristica e le forze rivoluzionarie costrette alla clandestinità. Eppure, sotto la brace della dittatura militare appare ardere viva la scintilla della rivoluzione. Se questa riuscirà ad appiccare nuovamente il fuoco all’intera prateria rimane una domanda alla quale non è possibile fornire alcuna risposta. Con certezza però, possiamo affermare che se un nuovo processo rivoluzionario dovesse mettersi realmente in moto, questo partirebbe da una posizione politica decisamente più avanzata. Dopo tutto, quanto questi anni hanno svelato è il vero carattere delle forze armate – un soggetto che al momento non solamente governa detenendo il monopolio della forza, ma che rappresenta anche la principale frazione della borghesia egiziana. In un certo senso quindi, qualsiasi nuovo processo rivoluzionario non potrebbe far altro che mettere in discussione l’intero edificio del regime egiziano.