
Quali sono le caratteristiche del testo?
Come ci è stato insegnato da generazioni di autorevoli filologi, il testo letterario può essere definito solo in relazione alle modalità della sua diffusione e ricezione nelle varie epoche, cioè in rapporto ai tanti modi in cui è stato pubblicato, letto, interpretato; il testo di un’opera letteraria può e deve essere dunque definito a partire dai concreti documenti che ne hanno permesso la sopravvivenza (manoscritti, edizioni a stampa ma anche “tradizione indiretta”, ovvero citazioni del testo in altre opere). Se dunque il restauro di un testo presenta molti tratti di analogia con il restauro pittorico, che rimuove la patina del tempo riportando alla luce i colori originali, occorre fare una fondamentale distinzione: solo in rari casi il testo da pubblicare si identifica con il documento che ce lo ha tramandato (situazione normale – ad esempio – per le pergamene d’archivio), e dunque l’originalità e antichità di un testo deve essere valutata da altri fattori, di ordine storico, letterario o contenutistico. Del poeta duecentesco Dante da Maiano, ad esempio, conosciamo l’opera solo grazie a una stampa di oltre due secoli successiva, la Giuntina di Rime antiche del 1527, così definita dall’editore fiorentino che la pubblicò: nonostante si sia a lungo dubitato della sua stessa esistenza, la fisionomia letteraria di questo Dante “minore” è oggi tale che un illustre filologo, Pasquale Stoppelli, ha potuto attribuirgli il cosiddetto Fiore, un poemetto solitamente annesso alle opere di Dante Alighieri.
Quale viaggio affronta il testo?
Per giungere fino a noi, il testo attraversa non solo una distanza temporale che può essere molto lunga, ma una serie di circostanze non sempre prevedibili, legate ai documenti che lo tramandano: eventi collettivi (incendi, alluvioni, eventi bellici) o personali (viaggi, successioni di proprietà) possono determinare la scomparsa anche totale di un’opera affidata a un numero esiguo di esemplari. D’altra parte, anche un grande successo di lettori può essere – paradossalmente – motivo di dispersione: delle prime edizioni di due best-sellers del Quattrocento, il Morgante di Luigi Pulci e l’Orlando Innamorato di Matteo Maria Boiardo, non ci resta nemmeno una copia! È l’opera di circolazione elitaria, il libro di studio conservato in biblioteca e ivi consultato, che si conserva più facilmente fino a noi… Un filologo deve spesso agire da paleografo o da storico del libro, ma solitamente è più interessato al viaggio “interno” all’opera letteraria, il cui testo viene spesso travisato o accidentalmente variato da coloro che ne garantiscono la sopravvivenza: copisti, tipografi, editori. Fino a tempi relativamente recenti (l’Illuminismo che ha codificato la moderna proprietà intellettuale), a nessuno interessava che l’opera rispecchiasse esattamente il dettato d’autore: l’importante era che soddisfacesse il gusto, le aspettative, l’orizzonte culturale dei lettori. In nome di questi ultimi, non si esitava a tagliare, aggiungere, sostituire, e nella forma in cui i testi ci sono conservati nei documenti d’epoca non è sempre facile riconoscere le varie tipologie d’intervento. Quel che certo è che l’autore non è il solo protagonista nella produzione e diffusione di un’opera letteraria, e chi di quest’ultima deve offrire un’edizione scientificamente attendibile deve tenere in grande considerazione anche il percorso attraverso il quale essa ci è pervenuta. Ad esempio, per opere che l’autore non intendeva pubblicare (o che non sono giunte a uno stadio finale di elaborazione), a una ricostruzione meramente ipotetica può essere preferibile un’edizione fondata sulla versione del testo che ha riscosso maggiore successo e ha dunque influenzato il gusto letterario dell’epoca (tale è ad esempio la vulgata quattrocentesca a stampa dei Sonetti del Burchiello).
Come avviene la trasmissione del testo manoscritto?
Nella trascrizione di un’opera avvengono molti diversi fenomeni, in parte ricorrenti e dunque in certa misura prevedibili per i filologi moderni. Stanchezza o distrazione portavano i copisti a omettere sillabe o intere parole, specie quando esse ricorrevano più volte nel brano; certe tipologie grafiche si prestavano a equivoci, con lettere che si assomigliavano fra loro, mentre gli antichi manoscritti esibivano abbreviazioni poco chiare per i lettori di epoche successive. Ma gli accidenti di copia più interessanti – e di più difficile interpretazione – sono quelli che risalgono alla sovrapposizione di due sistemi di conoscenze, quello dell’autore e quello del copista: quando quest’ultimo non capiva (o riteneva che i lettori per i quali lavorava non avrebbero capito) non esitava a sostituire parole o nomi del testo originale, solitamente banalizzandone i riferimenti, o ad adattarne i connotati linguistici assimilandoli ai propri. Come sosteneva il grande Cesare Segre, ogni documento antico rappresenta così un sistema dialettico, che dev’essere interpretato a partire da una conoscenza approfondita non solo dell’autore e della sua cultura, ma anche degli ambienti in cui l’opera è stata letta e diffusa. Fare l’edizione di un testo è dunque anche e soprattutto un’indagine storica attraverso le varie epoche. Un esempio istruttivo in tal senso è un codice veneziano della metà del Trecento, oggi conservato a Budapest perché entrato nel bottino di guerra dei famosi mercenari ungheresi: trascritto per la famiglia patrizia degli Emo, esso omette deliberatamente vaste porzioni del testo (quasi il 20% dei quasi quindicimila versi del poema) che si riferiscono a fatti e personaggi della Toscana del tempo di Dante; il copista – o chi ne sorvegliava il lavoro – riteneva tali passi poco comprensibili a un lettore veneto, abituato per giunta a una lettura ricreativa, in cui il fluire narrativo del viaggio dantesco non doveva essere interrotto da simili digressioni.
Quali problemi filologici pone l’introduzione del libro a stampa?
Nell’epoca del manoscritto, un autore poteva non solo costruire la sua opera in senso intellettuale, ma controllarne tutte le fasi di pubblicazione: la scelta del formato e del supporto, la tipologia grafica, l’eventuale decorazione o illustrazione erano elementi che interagivano profondamente con i contenuti del libro, indirizzandone la lettura all’interno di circoli ben determinati sul piano sociale e culturale. Ad esempio, un libro in volgare di ampio formato, redatto in scrittura gotica e impaginato su due colonne ci rimanda a un ambiente universitario, dove è forte l’influsso del latino. Con l’avvento della stampa, tutti gli aspetti materiali della produzione libraria vengono delegati ad artigiani, spesso di modesta cultura, che del testo avevano una comprensione assai limitata (nei primi decenni della tipografia in Italia, cioè fino al 1535 circa, gli stampatori venivano dal mondo germanico e conoscevano molto male l’italiano!). Anche quando, a metà Cinquecento, il libro a stampa in volgare diventa un autentico business, le maggiori risorse investite non servono a tutelare il testo da indebite modifiche, ma ad impiegare personale specializzato che potesse adattare e uniformare la lingua dei testi – specie se di autori non toscani – per renderla più accessibile ai lettori di tutta Italia. Tali importanti figure, i revisori tipografici, conoscevano il gusto del pubblico e non esitavano a intervenire pesantemente sull’opera per renderla più appetibile ai compratori, magari aggiungendo corredi esplicativi (indici, repertori, commenti). Con un mercato – e una concorrenza – potenzialmente europei, il libro a stampa serviva insomma fini commerciali più che culturali: se voleva sorvegliare il lavoro e controllarne le varie fasi, l’autore doveva farsi lui stesso imprenditore e investire di tasca sua nella pubblicazione, come avviene con Ludovico Ariosto che fa stampare a Ferrara – e a spese proprie – tutte e tre le edizioni autorizzate del suo Orlando Furioso (1516, 1521 e 1532).
Cos’è e come si ricostruisce la volontà d’autore?
Tutti sanno che la composizione di un testo non avviene mai, o quasi, di getto: per le opere letterarie i processi creativi possono durare molti anni, approdare a soluzioni diverse o contrastanti, o addirittura restare irrisolti, confinati nel laboratorio dell’autore senza che questi licenzi il testo per il pubblico. Specie per la letteratura moderna e contemporanea, gli archivi degli scrittori ci offrono molto materiale su cui lavorare, per stabilire il testo critico di un’opera ma anche per spiegare il modo in cui quest’ultima è stata concepita ed elaborata, le caratteristiche dello stile e del linguaggio autoriali. Quando parliamo di alcune opere famose della nostra letteratura, non siamo sempre consapevoli che esse sono state oggetto di ampie riscritture da parte dei rispettivi autori: si sa che questi ultimi tendono a correggere e modificare in modo sostanziale anche testi che hanno riscosso un grande successo di lettori. Nel celebre caso dei Promessi Sposi, divenuto un caso letterario nel 1827 in una versione che oggi non leggiamo più, la prassi editoriale ci ha orientato verso l’ultima volontà dell’autore, la versione linguisticamente rinnovata e ampliata (la Storia della colonna infame è aggiunta di sana pianta) che Manzoni affidò all’edizione definitiva del 1840, la cosiddetta “Quarantana”. Ma per altri Classici della letteratura italiana, è tutt’altro che facile definire un “testo di lettura” univoco, a causa dei ripensamenti d’autore e dei diversi e contrastanti tentativi di ricostruzione da parte dei moderni studiosi. Nel caso di Vita dei Campi di Giovanni Verga (da cui provengono celebri letture liceali come Jeli il pastore e Rosso Malpelo), il testo critico è basato per i Novellieri italiani della Salerno (a cura di G. Tellini) sull’ultima volontà espressa dall’autore nell’edizione milanese (Treves, 1897), mentre per l’Edizione nazionale (a cura di C. Riccardi, Le Monnier 1987) sulla editio princeps del 1880, che ebbe una ben maggiore risonanza nella cultura dell’epoca. Si tratta di testi molto diversi, nella lingua come nel contenuto: eppure esse convivono sugli scaffali di librerie e biblioteche, e solo molto raramente i lettori li scelgono in modo consapevole.
Quali esigenze pone l’edizione critica di un testo?
Secondo le definizioni classiche, l’edizione critica deve offrire un testo quanto più possibile vicino alla volontà dell’autore: quando questa non è documentata, si sceglie l’ipotesi ricostruttiva più economica a partire dalle copie sopravvissute. In tal modo, l’edizione critica offre il testo più autorevole allo stato attuale delle conoscenze, ma anche una rassegna della documentazione impiegata per realizzarla e una puntuale motivazione delle scelte operate nelle varie fasi del restauro. È così che – in una disciplina priva di teorie generali e fondamentalmente basata sull’esperienza – ogni edizione critica ben fatta costituisce un paradigma metodologico da imitare e applicare ad altri profili testuali: il cosiddetto “metodo di Lachmann” non è stato illustrato dal filologo berlinese in un manuale ma nell’edizione critica del De Rerum Natura di Lucrezio (1850); nella letteratura italiana, altrettanto si potrebbe dire della famosa edizione critica della Vita Nuova dantesca offerta da Michele Barbi (1907 e 1932). Quel che è certo è che una buona edizione critica dovrebbe offrire a lettori e recensori tutti gli elementi per ripercorrere le fasi della ricostruzione del testo, ed eventualmente dissentire su alcuni passaggi; la scoperta di nuove testimonianze o l’obsolescenza metodologica di un’edizione può rendere opportuno rifare da capo il lavoro, ma anche in questo caso la vecchia edizione dovrebbe offrire – se ben impostata – una serie preziosa di materiali di partenza (descrizioni e trascrizioni di manoscritti, elenchi di varianti ecc.), naturalmente sempre da riscontrare con gli originali. È in questa funzione di base – l’archiviazione ordinata dei materiali di partenza – che i nuovi ambienti digitali hanno compiuto un deciso salto di qualità, ad esempio attraverso la disponibilità online di fotografie ad alta risoluzione di manoscritti ed edizioni; anche in questo caso, tuttavia, nulla può sostituire il contatto con gli originali:
Quali sfide pongono le nuove tecnologie digitali in relazione al testo?
Nelle specifiche applicazioni della critica del testo, le tecnologie digitali sono ormai in uso da un quarto di secolo: per opere in lingua inglese si potrebbero citare il progetto di Peter Robinson sui Canterbury Tales di Geoffrey Chaucer, o l’archivio sulle opere dell’artista e scrittore Dante Gabriel Rossetti coordinato da Jerome McGann, ambedue del 1993. Nuove esse appaiono forse all’occhio un po’ conservatore degli studiosi italiani, che faticano ad accogliere una piena applicazione di tali tecnologie al ristretto canone dei nostri Classici: non è un caso che l’unico esperimento di edizione della Commedia dantesca con strumenti informatici si debba a due studiosi stranieri, il citato Robinson e Prue Shaw. Grazie a un crescente livello di standardizzazione, i moderni linguaggi di codifica consentono di rappresentare una straordinaria varietà di documenti, dal codice medievale all’abbozzo di un’opera contemporanea, associando ad esempio le immagini ad alta risoluzione ai vari livelli di trascrizione, più o meno fedeli a quanto compare sulla pagina, o offrendo una sintesi grafica delle parti del testo più soggette a variazione fra le differenti versioni. D’altra parte, la moltiplicazione delle possibilità di visualizzazione e interrogazione per l’utente si presta a straordinarie applicazioni didattiche e apre nuove prospettive di ricerca, ma ha l’effetto di disorientare il lettore nei confronti dell’opera, che è identificata con i manufatti che ne hanno tramandato il testo. Senza la guida di un editore critico in senso tradizionale, il lettore rischia di cedere al relativismo (tutte le versioni del testo sono uguali) o all’agnosticismo (è impossibile ricostruire quel che l’autore intendeva dire), e lo scenario che ne deriva è preoccupante… Se la filologia non stabilisse un testo di riferimento (il reading text della tradizione anglo-americana), sarebbe persino impossibile fare riferimento a un’opera in senso unitario: se dico che ho letto i Canti leopardiani, a cosa mi riferisco? Persino l’ultima edizione licenziata dell’autore (1835) mancava di alcune poesie, e il celebre incipit di A Silvia vi compariva ancora come «Silvia, rammenti ancora»: è solo il lavoro dei moderni filologi che ha integrato la raccolta e ha introdotto alcuni ulteriori ripensamenti di Leopardi, registrati in annotazioni autografe in una copia dell’edizione conservata oggi alla Nazionale di Napoli.