
In che modo l’arrivo delle tecnologie digitali sta trasformando i processi produttivi e organizzativi?
Il processo di trasformazione del lavoro in relazione alla diffusione delle tecnologie digitali è in realtà una dinamic di lungo periodo, che inizia ormai alcuni decenni fa con le prime sperimentazioni di telelavoro e poi prosegue con l’avvento delle email. Questo processo di digitalizzazione dei luoghi e dei processi di lavoro è andato poi a combinarsi con i processi di outsourcing e flessibilizzazione dei mercati del lavoro che hanno caratterizzato la gran parte delle economie occidentali nello stesso arco temporale, che hanno portato alla nascita di forme di lavoro cosiddetto ‘nonstandard’ o atipico. Infine, questo processo ha avuto ulteriore slancio negli anni recenti, in seguito alla diffusione delle più comuni tecnologie digitali contemporanee. Ormai quasi non esiste settore o contesto lavorativo che, in parte più o meno ampia, non sia ‘digitalizzato’. Naturalmente, il lavoro della conoscenza è quello cui si pensa in prima istanza, in quanto la diffusione di tecnologie di trasmissione dell’informazione ad alta velocità ha compresso spazi e tempi di lavoro, facilitando l’emergere di flussi globali di condivisione. Ma non è solamente il lavoro cosiddetto white collar ad essere stato digitalizzato in larga misura. Si pensi, ed è solo il caso più eclatante, alla logistica, al settore delle consegne o ancora all’industria dei trasporti e dell’ospitalità, settori ormai trasformati radicalmente dall’avvento di attori importanti come Airbnb e Uber, e dalla diffusione di forme algoritmiche di gestione del personale e di accesso al lavoro – quello che oggi identifichiamo come la gig economy.
Con quali modalità il lavoro della conoscenza è stato integrato nel processo di organizzazione e produzione del valore tipiche dell’economia digitale?
Per lavoro della conoscenza, intanto, si intendono qui primariamente le professioni del contesto della comunicazione e dei servizi, del marketing, dei media, della cultura e della creatività. In questo settore, le tecnologie digitali ed i social media in particolare si sono posti come elementi di novità significativa, in primis per quanto riguarda la ricerca di lavoro: la reputazione è centrale perché, come raccontano bene alcuni dei partecipanti al mio studio, questi lavoratori più di altri sono a una ricerca Google di distanza da chiunque, usano social media in maniera intensiva, ed abitano contesti professionali dove “fare networking” ed avere un “capitale reputazionale” sono aspetti essenziali. Dall’altro lato, però, questa rilevanza della reputazione come concezione culturale del valore vale anche per chi offre lavoro: le aziende ed i recruiter utilizzano ormai regolarmente strumenti digitali nei processi di assunzione del personale, e valutano sempre più – fra le altre cose – la reputazione digitale del candidato che ambisce ad un posto di lavoro. Da qui emerge la visione della reputazione come concezione culturale del valore e comune denominatore all’interno dei mercati del lavoro dell’economia digitale.
Quali nuove forme di lavoro e di nuove professioni, pratiche e concezioni culturali ha generato tale processo?
A livello di forme di lavoro, l’aspetto più significativo è dato dalla crescita del lavoro freelance. La crescita del lavoro freelance è sia numerica sia qualitativa: molte delle cosiddette “nuove professioni” digitali sono freelance. In relazione a quest’ultime, si va dai lavori ormai comuni come social media manager, digital strategist, community manager e simili, dove il freelance è più vicino ad un lavoratore atipico o a un collaboratore a progetto, sino ai contesti dell’innovazione e le economie startup, dove il freelance ha una spiccata dimensione imprenditoriale. Ciò che accomuna questi contesti da un punto di vista socio-culturale è la rilevanza delle pratiche di self branding, principalmente (ma non esclusivamente) attraverso social media, che diventano la modalità attraverso cui “fare networking” ed ambire ad un lavoro. Questo però rappresenta anche un aspetto molto controverso: il self branding infatti è a un tempo pratica essenziale di lavoro da parte dei freelance ma è anche lavoro non pagato, che il freelance svolge per sé stesso. La ricerca mostra chiaramente come per molti freelance mettere in atto pratiche di self branding rappresenti una sorta di investimento con aspettativa di ritorno economico, sia esso in forma direttamente monetaria oppure in termini di quantità di lavoro, numero di clienti e commesse.
Quale funzione svolge in tale contesto il lavoro freelance?
Il lavoro freelance è ormai passato dall’essere una delle forme nonstandard e atipiche di lavoro – là dove il lavoro standard è, storicamente, il lavoro dipendente e a tempo indeterminato – a diventare una sorta di nuovo standard nei contesti professionali appena descritti. La crescita del lavoro freelance è nei numeri ma allo stesso tempo è una crescita un po’ monca, per così dire: lo status di nuovo standard del lavoro non è stato infatti accompagnato, a mio modo di vedere, da un adeguato inquadramento normativo, soprattutto in termini di tutele, per quei lavoratori che sono più esposti ai rischi di un modo di lavorare che rimane, almeno a livello legislativo, un lavoro autonomo e flessibile – e che per molti, però, completamente autonomo non è. Se da un lato l’evoluzione del lavoro in senso imprenditoriale è stata sin dagli anni ’90 un’utopia del mondo economico (neo)liberale, che vedeva con favore una società dove siamo “tutti imprenditori”, dall’altra parte questa spinta ha generato un mercato del lavoro estremamente duale, nel quale il lavoro freelance rimane percepito – anche qui uso un’espressione di uno dei miei intervistati – come “figlio di un dio minore”.
Quale futuro per il lavoro?
Nel mio prossimo libro, che si intitola Zeitgeist Nostalgia: On populism, work and the ‘good life’, in uscita (in inglese) con Zero Books ad autunno 2020, proseguo queste riflessioni su lavoro e società digitale indagando il significato del lavoro nel contesto post-crisi del 2007, e proponendo un’interpretazione che vede nel lavoro il luogo dove cercare la spiegazione ad alcuni avvenimenti percepiti come epocali, come la Brexit o l’elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti nel 2016. Nell’ultimo capitolo del libro sostengo che stiamo vivendo una faticosa transizione verso una ‘post-employment’ society, vale a dire il passaggio da una società – quella del ‘900 – fondata su lavoro dipendente, full time e a tempo indeterminato come baricentro esistenziale per i sogni e le aspirazioni di larga parte della popolazione, ad una società nella quale l’impiego non rappresenta più l’elemento in grado di garantire la legittima aspirazione di una ‘buon vita’. Dentro al grande tema dell’automazione del lavoro e della paura che le tecnologie digitali sottraggano numerosi posti di lavoro negli anni a venire – una paura peraltro storicamente non nuova, e per molto versi esagerata – credo quindi vi sia la necessità primaria di assicurarsi che questa transizione verso una società “oltre il lavoro” porti a ridurre le forme di diseguaglianza che attualmente caratterizzano il presente, del lavoro e non solo. Questa è una sfida estremamente difficile, della cui portata però al momento i governi delle democrazie occidentali non sembrano avere contezza.
Alessandro Gandini è un sociologo che lavora come ricercatore presso il dipartimento di Scienze Sociali e Politiche dell’Università di Milano