
Qualche anno fa un noto sociologo americano, Richard Sennett, ha pubblicato un volume dal titolo evocativo: Insieme. Rituali, piaceri e politiche della collaborazione. L’argomento avanzato nel libro è che la capacità di collaborare è una dote sociale preziosa poiché consente di sopperire alle carenze individuali e di portare a compimento opere altrimenti difficili da realizzare. La collaborazione, tuttavia, è un’arte sociale difficile, carica di ambiguità e di conflitti, specie quando implica l’interazione con persone molto diverse (estranei, stranieri ecc.). Con riferimento al mondo contemporaneo, la tesi di Sennet diventa piuttosto pessimistica: la modernità e le trasformazioni nel capitalismo stanno erodendo alle basi le capacità sociali di collaborazione.
L’ipotesi sviluppata nel nostro libro è invece diversa e si basa su quattro assunti. 1) Nelle società avanzate sono in corso processi contraddittori, sia dissipativi che accumulativi delle capacità sociali di collaborazione. 2) I processi accumulativi tendono ad espandere gli ambiti cooperativi nell’economia, che possono però essere regolati secondo principi diversi (nelle transazioni tra pari si va dallo scambio di mercato fino alla reciprocità generalizzata, cioè agli scambi gratuiti basati sulla logica del dono). 3) La coesistenza di questi diversi principi di regolazione tende a generare forme miste di regolazione (mercati ibridi; reciprocità bilanciata). 4) L’espansione dell’economia digitale amplia in misura esponenziale le opportunità di collaborazione.
Il trend “dissipativo” sottolineato da Sennett è senz’altro all’opera nelle economie occidentali, ma sono presenti anche tendenze di segno opposto, connesse all’espansione dell’economia digitale. Le nuove tecnologie, infatti, agevolano la moltiplicazione delle reti decentrate di produzione, dei fenomeni di open-innovation (innovazione aperta) e degli scambi tra pari, ampliando così l’ambito delle transazioni economiche basate sulla collaborazione. Queste attività possono essere regolate dal mercato e da una logica acquisitiva o, al contrario, da norme di reciprocità generalizzata che non contemplano ricompense monetarie. Oppure, ancora, possono assumere una forma “ibrida”, in cui mercato e reciprocità si mescolano, e motivazioni acquisitive e pro-sociali si confondono. Queste forme intermedie di regolazione sono in espansione nelle economie avanzate e rappresentano un aspetto di grande interesse delle trasformazioni in corso, che richiedono di essere studiate mediante ricerche empiriche comparate. Senza darne fin dall’inizio interpretazioni troppo onnicomprensive e omologanti, riproponendo chiavi di lettura che non consentono di vedere gli elementi di novità. E’ per questo che l’approccio analitico proposto nel nostro libro mira ad evitare due derive speculari: da un lato una lettura troppo “economicistica” di questi fenomeni, che li interpreta quasi esclusivamente come dei nuovi modelli di business; dall’altro una lettura troppo “normativa” di essi, che vi legge invece delle pratiche sociali e dei modelli organizzativi radicalmente alternativi a quelli del mercato capitalistico.
Cos’è la sharing economy?
L’economia della condivisione fa riferimento alla sfera della circolazione e distribuzione di beni e servizi, più precisamente a forme di scambio basate su piattaforme tecnologiche che mettono in contatto diretto le persone che hanno beni o servizi da offrire, con coloro che possono essere interessati ad usarli e/o acquisirli perlopiù in via temporanea (alloggi, auto, cibo, vestiti, utensili, interventi di manutenzione, aiuti domestici, ecc.). Per fare solo qualche esempio, tra i più noti, nel settore degli alloggi privati possiamo richiamare le piattaforme che consentono di affittare a pagamento, per brevi periodi, una stanza o un appartamento in quasi tutte le città del mondo, o anche di ricevere ospitalità gratuita in una casa. Nel settore della mobilità basti pensare alla condivisione di viaggi in macchina di medio-lunga distanza mediante il carsharing e nel settore dell’alimentazione al social-eating praticato da cuochi amatoriali che ospitano a casa propria persone che hanno deciso di partecipare ad una “cena-tra-estranei” proposta su una piattaforma Internet. Se da bambini ci hanno detto di non accettare caramelle dagli sconosciuti oggi, per contro, con gli sconosciuti ci andiamo in macchina (usando BlaBlaCar), a cena insieme (tramite Gnammo), e possiamo anche dormire a casa loro (con Airbnb). In passato, la condivisione di beni privati, tempo, competenze era limitata a una cerchia ristretta di familiari, amici e vicini. Attualmente, invece, le piattaforme digitali per gli scambi tra pari facilitano la condivisione tra persone che non si conoscono. Capire come ciò sia possibile è essenziale: le valutazioni e le recensioni degli utenti precedenti, che vengono utilizzate in molte di queste “piattaforme collaborative”, consentono di creare un sistema di monitoraggio che rende ragionevole fidarsi di persone mai viste prima.
Cosa comporta la produzione intelligente?
Questo termine –a cui in Italia spesso si fa riferimento utilizzando l’etichetta Industria 4.0 – allude all’avvento di una quarta rivoluzione industriale, basata su processi produttivi altamente interconnessi e automatizzati. Le nuove tecnologie digitali, infatti, consentono di potenziare le capacità di calcolo e connettività nei processi produttivi, rendendo possibili nuove forme di comunicazione e interazione tra uomini e macchine, tra macchine e macchine, tra informazioni digitali e cose materiali. Questa quarta rivoluzione industriale – che in realtà è difficile distinguere dalla quella precedente, di tipo informatico, e ne rappresenta una sua radicalizzazione – è quella dei sistemi intelligenti e della connettività su ampia scala, il cui nucleo di fondo è lo sfruttamento di ingenti quantità di informazioni e dati interconnessi e l’uso pervasivo del digitale nell’economia.
Si basa: a) sull’ubiquità dell’accesso a Internet, grazie alle nuove possibilità di connessione degli oggetti (macchinari, prodotti ecc.) e alla proliferazione dei dispositivi mobili (cellulari, smartphone, tablet ecc.); b) sull’aumento esponenziale della capacità computazionale e di immagazzinamento dei dati; c) sullo sviluppo di sensori sempre più piccoli, potenti ed economici; d) sugli avanzamenti dell’intelligenza artificiale. La cosiddetta “produzione intelligente” fa perciò riferimento a un insieme di innovazioni tecnologiche riconducibili fondamentalmente a due macroambiti: a) il primo è quello relativo all’informazione e riguarda tecnologie e conoscenze impiegate per generare, condividere, analizzare, archiviare e proteggere l’informazione nelle sue diverse forme (dai dati, alle immagini, alle presentazioni multimediali e così via); b) il secondo è più legato ai processi produttivi e comprende la robotica collaborativa, l’automazione avanzata e la manifattura additiva. Il dibattito che si è sviluppato intorno alla quarta rivoluzione industriale tende però ad oscurare che i cambiamenti nella sfera della produzione sono strettamente interconnessi con quelli nella distribuzione e nel consumo, e che le nuove tecnologie consentono di sperimentare modelli innovativi a «geometrie variabili», in cui il mix tra competizione/collaborazione e profit/no-profit assume configurazioni diverse. In questo senso, la smart manufacturing non può essere compresa appieno senza fare riferimento all’economia della collaborazione.
Quali sono i drivers dell’economia della collaborazione?
Sia l’economia della condivisione che la produzione intelligente mettono in luce il potenziale trasformativo del digitale. Il cambiamento di paradigma tecnologico è uno dei fattori abilitanti dell’economia della collaborazione, poiché il combinato di digitalizzazione e interconnessione crescente rimuove molti dei limiti fisici alla condivisone di beni, servizi, informazioni e agevola la formazione di reti decentrate di cooperazione. E tuttavia questa spiegazione non è sufficiente. Isolare unicamente l’aspetto scientifico-tecnologico, rischierebbe di dare una lettura deformata e unidimensionale di un processo che è invece più articolato. Se è vero che la digitalizzazione dell’informazione sta cambiando la società, questo processo è a sua volta sostenuto da mutamenti nello scenario economico e istituzionale altrettanto profondi.
Un primo elemento da considerare è la crisi economica internazionale, che ha creato un contesto favorevole alla diffusione di transazioni collaborative tra pari, sia sul lato dell’offerta, per soggetti in cerca di opportunità di lavoro o integrazioni di reddito, sia sul lato della domanda, per consumatori alla ricerca di prezzi più convenienti. Su questo sfondo, va poi considerata la proliferazione di nuovi modelli di “impresa-piattaforma” che hanno moltiplicato i cosiddetti “mercati a due versanti”. Questo tipo di imprese – che intermediano le transazioni tra due o più gruppi di utenti (quelli che offrono qualcosa e quelli che l’acquistano) – oltre ad alterare le tradizionali dinamiche competitive, alimentano anche una domanda di regolazione. Non casualmente, molti dei paesi maggiormente industrializzati hanno avviato strategie non solo per promuovere ma anche per regolare l’economia digitale. Uno studio condotto pochi anni fa dall’OECD registrava che ben 27 dei 34 casi analizzati possedevano una strategia nazionale, e che nella maggioranza dei paesi del vecchio continente quest’ultima rifletteva gli obiettivi posti dall’Agenda Digitale per l’Europa.
Infine, vanno menzionati almeno altri tre fattori che hanno favorito la diffusione dell’economia collaborazione: a) i mutamenti dei paradigmi produttivi seguiti alla crisi del fordismo, che hanno visto la diffusione di modelli organizzativi più aperti e flessibili; b) il cambiamento degli orientamenti di consumo in direzione di stili maggiormente basati sull’accesso ai beni e servizi, piuttosto che sull’acquisto in proprietà ; c) la globalizzazione che spinge verso l’ampliamento delle partnership collaborative, non soltanto attraverso le catene globali del valore, ma anche mediante le nuove politiche di sviluppo messe in atto per fronteggiare l’intensificazione della concorrenza internazionale.
Quali novità introduce il paradigma collaborativo relativamente a innovazione, consumo e produzione e finanziamenti?
L’economia della collaborazione mette in luce l’efficacia e le potenzialità generative connesse all’utilizzo di reti decentrate di finanziamento, innovazione, produzione e scambio. Le piattaforme digitali peer to peer, ad esempio, producono benefici economici e sociali innescando un effetto network sia sul lato della domanda sia sul lato dell’offerta. Su quello dell’offerta riducono le barriere di accesso ai mercati da parte di nuovi fornitori di beni e servizi; su quello della domanda avvantaggiano i consumatori riducendo i prezzi e le asimmetrie informative attraverso specifici e innovativi meccanismi di valutazione e monitoraggio delle prestazioni. Ex ante, questi meccanismi migliorano l’informazione: a) sui beni e i servizi offerti, tramite descrizioni, foto ecc. (effetto vetrina digitale) e b) su chi li offre, tramite profili, recensioni, condivisione delle reti sociali ecc. (effetto reputazione digitale). Ex post, consentono di pubblicizzare e stigmatizzare le prestazioni che deludono le attese, influenzando il rating complessivo del fornitore (effetto sanzione digitale). Questi meccanismi di «monitoraggio reputazionale» sono essenziali per agevolare la diffusione dell’economia collaborativa, specialmente per attività che richiedono un elevato grado di fiducia a priori, come negli esempi che ho già menzionato in precedenza: alloggiare a casa propria uno sconosciuto o accettare da quest’ultimo un passaggio in macchina per un lungo viaggio; invitare a cena degli estranei o, viceversa, mangiare cibo cucinato da una persona mai vista prima.
Dobbiamo però ricordare ancora una volta che l’economia della collaborazione può assumere una pluralità di sembianze, che si muovono a cavallo tra i due poli opposti del mercato e della reciprocità generalizzata, spesso dando vita a forme miste. Un esempio tratto dal campo dell’innovazione è sufficiente per chiarire questo punto. Nella comunità internazionale vi è un diffuso riconoscimento del fatto che, nel corso degli ultimi decenni, si siano sviluppate modalità più “aperte” di innovazione, che implicano la collaborazione tra imprese, istituzioni e altri attori. Nella fase fordista di sviluppo del capitalismo, le grandi imprese tendevano ad internalizzare la maggior parte delle operazioni di ricerca e sviluppo concernenti i nuovi prodotti e servizi. Nella fase post-fordista, invece, si osserva una proliferazione di partnership con attori esterni, per condividere costi, conoscenze e competenze. Le tecnologie digitali agevolano queste nuove modalità di cooperazione, fino a quelle più estreme di crowd-innovation (innovazione diffusa, generata dalla “folla”) che usano le piattaforme collaborative per sfruttare l’intelligenza collettiva presente nella rete. Esistono però diverse forme di innovazione-collaborativa. Quando si parla di “open innovation” (innovazione aperta) si fa riferimento ad una nuova strategia aziendale orientata al mercato, con finalità di profitto. Quando invece si parla di “free innovation” (innovazione libera) si fa riferimento a modalità di innovazione messe in atto dai consumatori, nel loro tempo libero, seguendo motivazioni non-di-mercato, spesso di tipo collaborativo, che non implicano alcun tipo di retribuzione o ricerca di guadagno. Esistono poi delle varianti intermedie che vanno dalle invenzioni collettive, all’innovazione sociale, alla “commons-based peer production” e alle comunità di open innovation a cui dobbiamo lo sviluppo di molti software gratuiti come Linus.
Tutto ciò detto, insieme agli effetti benefici, non vanno però neppure trascurati i dark-sides dell’economia della collaborazione: cioè gli aspetti che mettono a dura prova la tenuta delle regole che disciplinano il mondo del lavoro e le modalità di concorrenza, ponendo questioni che sono oggi al centro del dibattito sindacale, accademico e politico. Per questo motivo, nelle conclusioni del libro, richiamiamo con forza l’esigenza di efficaci interventi normativi. Per governare questi processi, infatti, c’è bisogno di nuove regole, affinché le opportunità create dalle nuove tecnologie si trasformino in uno stimolo positivo per tutta l’economia, anziché in una corsa al ribasso che minaccia le tutele dei lavoratori autonomi e dei dipendenti di vari settori, in un crescendo di precarizzazione e di riduzione dei livelli salariali e delle garanzie normative. In questa prospettiva, sia gli interventi legislativi sia l’autoregolamentazione degli attori, possono svolgere un ruolo importante non solo per promuovere l’economia della collaborazione, ma anche per rendere compatibili le varianti di mercato con quelle basate sulla reciprocità. Regolare significa tutelare gli operatori tradizionali da forme di concorrenza sleale, senza però sposare un orientamento difensivo e corporativo. Solo così una domanda – pur legittima – di protezione può avere conseguenze positive, in parte inattese. Le norme infatti devono servire per tre finalità: 1. regolare il mercato da forme di concorrenza sleale, tutelando non solo gli operatori tradizionali, ma anche gli utenti/consumatori e i lavoratori che vi operano; 2. promuovere l’economia della collaborazione generando sia benefici privati per le aziende coinvolte, sia benefici collettivi per i consumatori e le comunità locali; 3. creare sinergie positive tra le forme di mercato e quelle basate sulla reciprocità.
Qual è il panorama delle piattaforme collaborative in Italia?
La sharing economy in Italia, così come nel resto d’Europa, è in rapida ascesa. In Europa, è stato stimato che nel 2015 le piattaforme attive in cinque settori chiave dell’economia collaborativa (alloggio; trasporto di persone; servizi alle famiglie; servizi tecnici e professionali; finanza collaborativa) abbiano intermediato un complesso di transazioni pari a 28,1 miliardi di euro, generando 3,6 miliardi di ricavi diretti. Il loro potenziale di crescita, inoltre, viene valutato di circa 20 volte superiore a quello attuale: raggiungerà i 570 miliardi di euro entro il 2025. Per quanto riguarda il nostro Paese, sempre nel 2015, una ricerca condotta dall’Università degli Studi di Pavia valutava che il mercato della sharing economy avesse generato circa 3,5 miliardi di euro e ne stimava una crescita nell’arco di un decennio fino a 25 miliardi. Negli ultimi anni, inoltre, si è assistito ad una proliferazione di piattaforme che offrono servizi collaborativi. La mappatura fatta da TRAILab-Collaboriamo stima che in Italia vi siano 125 piattaforme che operano in 10 diversi settori: servizi alla persona; trasporto; scambio/affitto/vendita di oggetti; turismo; cultura; servizi alle imprese; cibo; formazione; sport; abbigliamento. A queste ne vanno poi aggiunte altre 98 attive sul fronte della finanza collaborativa (crowdfunding). Per lo più si tratta di realtà piccole e piuttosto fragili: microimprese a carattere locale, autofinanziate, con problemi di scalabilità in termini di utenza e numero di transazioni generate (solo il 31% raggiunge almeno 30.000 utenti e il 6% supera le 5.000 transazioni mensili). Su questo scenario pesa poi la presenza delle grandi piattaforme internazionali che operano e si affermano sempre di più nel nostro paese, conquistando grosse fette di mercato.
Nonostante la presenza di segnali incoraggianti e di una certa “effervescenza sociale”, nel complesso l’Italia sembra fare fatica a trarre completo beneficio dalla sharing economy. Basti pensare che un recente sondaggio Eurobarometro attesta che solamente il 18% degli italiani utilizza le piattaforme collaborative contro una media europea del 24%. Siamo al quart’ultimo posto nella graduatoria dei paesi dell’Unione. Questa è solamente una delle manifestazioni di un più generale ritardo nella dotazione di competenze e infrastrutture digitali, che interessa sia la popolazione che il mondo delle imprese. Per rendersene conto basta dare uno sguardo alle informazioni sintetizzate nel Digital Economy and Society Index, messo a punto dalla Commissione Europea per valutare la qualità delle infrastrutture ICT e la diffusione della digitalizzazione nell’economia e nelle società degli stati membri. Ebbene, l’Italia si colloca solamente al 20° posto nella graduatoria generale dei 28 stati europei e siamo in ultima posizione per quanto riguarda l’uso di Internet da parte dei cittadini e in penultima posizione per la connettività.
Francesco Ramella è professore ordinario di Sociologia economica nell’Università di Torino. È presidente della Società Italiana di Sociologia Economica (SISEC). Tra i suoi libri: Fondazioni e sviluppo locale (con L. Burroni e C. Trigilia, Donzelli, 2017) e, per il Mulino, Sociologia dell’innovazione economica (2013) e La terza missione degli accademici italiani (curato con A. Perulli, M. Rostan e R. Semenza, 2018).