“L’eccezione fa la regola. Sette storie di errori che raccontano l’italiano” di Matteo Motolese

Prof. Matteo Motolese, Lei è autore del libro L’eccezione fa la regola. Sette storie di errori che raccontano l’italiano, edito da Garzanti: come è cambiata l’idea di errore nella storia dell’italiano?
L'eccezione fa la regola. Sette storie di errori che raccontano l’italiano, Matteo MotoleseL’idea di errore è cambiata in modo significativo. Basti pensare che per quasi metà della storia della nostra lingua non esistevano grammatiche di riferimento né dizionari condivisi.

Il suo viaggio attraverso oltre dieci secoli di errori comincia con una lista di errori copiata su una pergamena più di mille e trecento anni fa: perché questa testimonianza è così preziosa?
È una testimonianza che ci mette in contatto con un mondo molto diverso dal nostro, in cui l’italiano al pari delle altre lingue romanze ancora non esisteva ma era, per così dire, il futuro. Il manoscritto che contiene la lista di errori è datato al VII-VIII secolo ma riflette un testo di due secoli prima. Doveva trattarsi di materiali per uso didattico, forse di un pedagogo attivo a Roma nel V secolo. Osservando gli errori – duecentoventisette, organizzati in colonne – possiamo notare che molte forme considerate sbagliate sono più vicine alla nostra lingua di quelle giuste. E questo perché molti degli errori segnalati hanno la loro causa nel latino parlato ed è dal latino parlato che derivano le lingue romanze, compreso l’italiano. Partire da questa testimonianza mi è sembrato un buon modo per mostrare l’importanza degli errori nella formazione delle lingue.

Qual l’idea di errore, e di lingua, che si aveva al tempo di Dante?
Bisogna distinguere tra latino e volgare. Per il latino, l’idea di errore era fondata sul rapporto con le regole, con la grammatica. La stessa parola grammatica era usata al tempo di Dante come sinonimo di latino. E questo proprio in opposizione al volgare, ossia la lingua parlata dal popolo. Che invece era percepita come una lingua spontanea, che si apprendeva senza bisogno di studio. Per questo, il suo uso variava sensibilmente. Esistevano delle pratiche di scrittura più o meno condivise in certi ambienti. Non esisteva però un sistema di regole codificato e percepito come tale. Per fare un esempio: una parola come casa poteva essere scritta anche chaza o caza senza che questo venisse percepito come un errore. L’idea di ortografia che abbiamo noi non esisteva.

Quando vengono codificate le prime regole della lingua italiana?
La prima descrizione grammaticale della lingua italiana che conosciamo si deve a Leon Battista Alberti, negli anni ’30 del Quattrocento, ma si tratta di un esperimento isolato, conosciuto solo in circoli ristretti e senza conseguenze vere. È dal Cinquecento che si cominciano ad avere delle grammatiche condivise per l’italiano.

Nel libro ho scelto di raccontare questo inizio partendo da una lettera che, nel 1501, il più grande tipografo del Rinascimento, Aldo Manuzio, aggiunge in coda a un’edizione di Petrarca per difendersi dall’accusa di stare stampando un libro pieno di errori. Naturalmente, non era così: quelli che sembravano errori erano scelte consapevoli. Dietro all’operazione c’era infatti colui che diventerà il massimo grammatico della nostra lingua: Pietro Bembo.

Cosa rivela l’esame delle carte preparatorie del Vocabolario degli Accademici della Crusca?
Mostrano in primo luogo il grande lavoro fatto dagli accademici per costruire il Vocabolario: le loro scelte, le difficoltà superate, i dubbi. Dobbiamo tenere conto che l’impresa era molto complessa: non esistevano precedenti significativi, non solo per la lingua italiana ma neanche per altre lingue europee. C’è anche altro, però. Le carte preparatorie mostrano bene quale fosse lo stato dell’italiano che usavano quotidianamente coloro che preparavano il Vocabolario: in uno dei quaderni compare ad esempio l’uso di quore con la q, allora ancora una forma possibile, anche se minoritaria. Proprio Vocabolario, uscito nel 1612, contribuirà a marginalizzarla e poi a farla uscire dall’uso. Il Vocabolario – che, lo ricordo, verrà pubblicato nel 1612 – conteneva molte indicazioni di tipo ortografico che poi entreranno nella nostra lingua, compresa la scelta di usare l’h solo su alcune forme del verbo avere.

Il suo viaggio si conclude con il correttore automatico di Microsoft Word installato sui nostri computer: in che modo l’idea di errore si misura con la dimensione digitale della lingua?
Mi è sembrato naturale chiudere il libro confrontandomi con l’idea di errore oggi. In particolare, guardando all’interazione che su questo si è creata tra noi e i dispositivi che ogni giorno usiamo per scrivere. Questi dispositivi influiscono sul nostro modo di scrivere: non solo perché hanno portato un cambiamento nelle occasioni di scrittura ma anche perché correggono spesso la lingua che usiamo, suggeriscono le forme da usare. Alla luce di questo mi sono posto una serie di domande: che impatto ha tutto questo sulla nostra lingua? Dobbiamo avere paura di questo tipo di strumenti? Qual è l’idea di errore che questi strumenti trasmettono? È sulle risposte a queste domande che si chiude il libro.

Matteo Motolese è Professore Ordinario di Linguistica italiana nella Sapienza – Università di Roma

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