
Quali simbologie sono associate a tale forma di saluto?
In una pittura funeraria rinvenuta all’interno dell’area archeologica di Ostia Antica (I-IV sec. a. C.), e in quel che resta di un bassorilievo di età imperiale conservato a Napoli (Museo nazionale di Capodimonte), due personaggi si tengono pudicamente per mano. È la dextrarum iunctio inter coniuges, il simbolico epilogo di una cerimonia nuziale in età romana. Sono tante le “strette di destra fra coniugi” rinvenute in monumenti funebri dell’iconografia classica e cristiana, dal periodo terminale dell’età repubblicana al VII sec. d. C., ad attestazione di una reciproca fedeltà da proiettare oltre la morte. Nel frammento napoletano lui indossa la toga e impugna nella mano sinistra il libellus (o tabulae nuctiales), un rotolo con la trascrizione dell’atto matrimoniale; lei, con la sinistra, trattiene invece un lembo inferiore del suo lungo abito. In analoghe scene nuziali la donna, in segno di compostezza, afferra un lembo superiore del velo o del mantello che le copre il capo.
La dextrarum iunctio, oltreché simboleggiare una promessa di fedeltà in un rito matrimoniale – e in altre situazioni – ed equivalere a un gesto di conciliazione (concordia) o a un’attestazione di lealtà o di fede, poteva dare espressione a un sentimento di pietà verso i defunti, venire associata alla stessa pietas in un contesto diverso da quello funerario, rappresentare un atto di benevolenza o di magnanimità (clementia), sancire – o ribadire, rinnovare, ecc. – un’alleanza politica o militare, un legame di amicizia o un patto di ospitalità. L’applicazione all’ambito nuziale o funerario di diverse virtù fra quelle indicate non è da intendersi in modo esclusivo: in un monumento funebre, abbinata alla pietas, alla clementia o alla concordia, o alle immagini di altre qualità positive, la stretta fra destre aveva spesso lo scopo propagandistico di esaltare personaggi defunti di spicco (viri docti) dell’amministrazione statale.
Come si è evoluta nei secoli la pratica della stretta di mano?
Nell’antica Roma, oltreché su monete e sarcofagi, la “stretta di destra”, già familiare alla civiltà etrusca, proliferò in mosaici e lampade, anelli e pietre preziose: agate, opali, ametiste, zaffiri e altre. Un anello con la dextrarum iunctio, qualora fosse deputato a suggellare le nozze (nuptiae) o una promessa di matrimonio (sponsalia), prendeva i nomi rispettivi di vinculum (o cingulum) e anulus pronubus (la donna che riceveva l’uno o l’altro in dono, dal marito o dal fidanzato, metteva l’anello all’anulare sinistro, ritenuto connesso al cuore tramite un nervo – o una vena – molto sottile); gli sponsi erano soliti donare un anulus pronubus alle loro sponsae, insieme ad altri regali, omaggiati o ricevuti – gioielli, abiti e oggetti vari – almeno dal III sec. a.C. (Lex Cincia de donis et muneribus, 204 a.C.). Il Medioevo non avrebbe spedito in soffitta né gli anelli pronubi, consegnati o mandati, né altre matrimoniali (spesso prenuziali) promesse d’amore materiate nell’unione di due mani. Ottone I avrebbe fatto recapitare l’anulus pronubus alla sua sposa, Adelaide di Borgogna, sposata nel 951 d.C., tramite un ambasciatore, e fra le pratiche manifatturiere di riproduzione della stretta di mano sopravvissute al tramonto dell’Impero si sarebbe fatta notare, nell’arte glittica medievale, la chiusura del cerchio d’anello con le destre congiunte stilizzata nelle “mani in fede”. Ma è solo il primo dei due grandi filoni della storia.
In greco il termine per indicare una stretta di mano era δεξίωσις, un derivato di δεξιόομαι (‘dare la destra’). Il gesto, in quanto atto scambievole tra i fedeli del dio Mitra, i syndexioi (letteralmente “uniti per la mano destra”), è testimoniato fra l’altro nelle immagini dipinte sotto la basilica romana di San Lorenzo in Damaso e sui muri interni di un mitreo (240-256 d.C. ca.) della siriana Dura-Europos, città ellenistica poi assoggettata dai Parti e dai Romani. I misteri mitriani contemplavano la δεξίωσις nei loro elaborati rituali d’iniziazione, scanditi da sette diversi passaggi. Durante la cerimonia d’accoglienza, il cui momento terminale era l’ammissione dei nuovi adepti a partecipare alla cena comune, il neofita stringeva con fare solenne la destra del pontefice massimo dei misteri e degli altri sacerdoti, un po’ come sarebbe poi avvenuto con la “stretta segreta” dei riti massonici. Assimilata dal movimento operaio italiano fin dai suoi albori, con l’effetto di caricare di forza espressiva – per l’antichità dell’atto, e la nobiltà di alcuni suoi precedenti semantici – la traduzione («Libertà, uguaglianza, solidarietà») del celebre motto della Rivoluzione francese del 1789 («Liberté, egalité, fraternité»), la stretta di mano sarebbe stata fatta in questo caso propria dalla massoneria e da molte altre associazioni segrete o società di muto soccorso. Alla base della sua adozione, da parte di partiti, movimenti, consorterie, comunità religiose o altro, l’idea di stabilire, con una stretta di mano, un legame fra pari.
I quaccheri decisero di cominciare a salutarsi con una stretta di mano, poco dopo la metà del XVII secolo, proprio per un’urgenza di parificazione, sancendo, con l’adozione di quel gesto amichevole, il diritto di opporsi, in nome del rifiuto di gradazioni e diseguaglianze sociali, a inchini, riverenze e salamelecchi vari. Eredi dei levellers di John Lilburne, sconfitto da Oliver Cromwell nella prima fase (1642-1649) della Rivoluzione Inglese, nemici della vacua retorica e degli eccessi inautentici di forbitezza formale, grandi estimatori del parlar chiaro e diretto (plain speaking), si comportavano allo stesso modo nell’uso di appellativi, vocativi e titoli onorifici; niente sir o madam, lord o mister, master o Your Grace: solo friend. Fra ’700 e ’800, anche grazie all’egalitarismo quacchero e alla sua vocazione all’informalità dei rapporti e alla confidenzialità dei toni, la stretta di mano come forma di saluto, pur continuando a codificare i precedenti valori (lealtà, amicizia, magnanimità, ecc.), avrebbe finito per imporsi.
Momentaneamente ricacciata indietro, fra il XVI e il XVII secolo, dalle convenzioni formali, dalla rigida etichetta e dalle cerimoniose gerarchie rinascimentali e barocche, la stretta di mano come atto di saluto – ad avvio, conferma o riconferma di un rapporto fra pari – aveva avuto la sua incubazione in area anglosassone almeno a partire dal Cinquecento. Sarebbero stati i tedeschi, nell’arricchire i significati tradizionali della stretta con quello odierno, a mettersi sul solco dei britannici. Sarebbero poi venuti gli olandesi, nel Settecento, e, nel tardo Ottocento, i francesi. Ancora all’altezza di Madame Bovary (1856), quando Léon Dupuis la saluta prima di lasciare Yonville per andare a studiare a Parigi, Emma esita nel prendere la mano che il giovane le ha teso ma poi, cedendo al suo gesto, esclama: «À l’anglaise donc» (“All’inglese, dunque”). Nel Novecento la stretta di mano, compromessa dalla percezione che fosse ormai il portato di un certo conformismo borghese, avrebbe ceduto, durante il Novecento, alla micidiale concorrenza del saluto romano, adottato da Mussolini – che continuerà però a stringer mani ancora negli anni Venti avanzati – ben prima della Marcia su Roma (28 ottobre 1922). Alla fine degli anni Trenta il Duce, in una frase riportata sul frontespizio di un “Foglio di disposizioni” (n. 1128, 5 agosto 1938) del Partito Nazionale Fascista, lo consacrerà così: «Anche le strette di mano sono finite presso di noi: il saluto romano è più igienico, più estetico e più breve».
Quali diverse forme di stretta di mano sono diffuse nel mondo?
Sono tanti i modi di stringere una mano. L ’effetto “pesce morto”, riuscita di una presa flaccida, ancor più se l’arto è freddo e sudaticcio, comunicherebbe l’ansia, l’insicurezza, l’irresolutezza della persona che ci saluta così. Chi porge la mano col palmo all’insù (“stretta del mendicante”) manifesterebbe a sua volta debolezza di carattere, o sarebbe incline all’obbedienza o alla sottomissione. Trasmetterebbe lo stato d’ansia del salutatore – o il suo agire frettoloso – anche una presa a pinza: l’autore del gesto, anziché afferrare tutta la mano, ne stringe le sole dita; se ti saluto invece “a pompa”, con movimenti verticali del braccio in rapida successione, mi rivelerei una persona cordiale, espansiva, estroversa. Chi sceglie la modalità avvolgente, tra le prese più empatiche, stringendoci la mano con la destra e, con la sinistra, “abbracciando” la stretta, intenderebbe perlopiù trasmetterci l’amichevole o affettuoso messaggio che ci dobbiamo fidare di lui, che dobbiamo dargli credito, che non possiamo dubitare della sua sincerità. Nella Corea del Sud, in una presa fra destre, perlopiù morbida o leggera, al pari di molti altri paesi (dalla Francia alle Filippine), è normale appoggiare la sinistra sul braccio o l’avambraccio destro altrui, come fece Donald Trump in uno storico vertice (Singapore, isola di Sentosa, 12 giugno 2018) col leader nord-coreano Kim Jong-un, e bisogna fare anzi molta attenzione se la si porta altrove: il 22 aprile 2013 suscitò scalpore la mano tenuta in tasca da Bill Gates, e giudicata offensiva in quel paese, nel suo incontro con la presidente sud-coreana Park Geun-hye alla Blu House di Seul. In Kenya, nel salutare una persona anziana o un personaggio di rango, anziché poggiarla sul braccio (o sull’avambraccio), si allaccia la sinistra al polso dell’interlocutore.
Chi opta per una presa dominante, per una stretta in cui la sua mano – il dorso volto all’insù, il palmo volto all’ingiù – sovrasta la nostra, vorrebbe attestarci la sua autorità, comunicarci il suo potere, dimostrarci la superiorità del suo status (o del suo ruolo). Un indiscusso campione di questo schema è stato proprio Trump, pronto nel rovesciarlo se la sua mano gli è utile a trattenere il recalcitrante malcapitato. Il 10 febbraio 2017 la sua destra strinse in una morsa quella del primo ministro giapponese Shinzo Abe, ospite alla Casa Bianca. Il premier nipponico provò a liberarsi senza riuscirci, subendo la presa di Trump per quasi 19 secondi, col presidente americano che gli tirò più volte il braccio e un attimo prima di mollarlo, per rassicurarlo sull’approssimarsi del “fine tortura”, chiamò in azione la mano sinistra per piazzargli paterno tre pacche sulla mano predata e fagocitata.
In Donald Trump ogni azione, anche apparentemente innocua, gratuita o involontaria, si carica di una logica bellica, di sopraffazione dell’altro. La comunicazione gestuale non costituisce eccezione. Il 3 giugno 2019 Trump, atterrato in elicottero nei giardini di Buckingham Palace con la moglie Melania, viene accolto da Carlo d’Inghilterra e dalla sua consorte (Camilla); stringe a lungo ed energicamente la mano del principe, e con altrettanta energia (un po’ meno a lungo, perché lei a un certo punto sembra volerla chiudere lì) stringe subito dopo la mano della duchessa di Cornovaglia. Accolto dalla regina all’ingresso della dimora reale, anziché sfiorargliela, Trump stringe anche la mano di Elisabetta II, in barba all’etichetta, e, mentre la scuote, la avviluppa nel suo pugno; la sovrana si è forse limitata a porgergli “clericalmente” le estremità delle dita, per mantenere altezzosa le distanze, e il rude tycoon, avvezzo alle strette di mano protratte e vigorose, prova ad afferrarle la mano riuscendo maldestro. Non pago della gaffe, infrangendo di nuovo il protocollo, Trump si ripete durante la cena a palazzo, quando la sua mano sinistra, per un attimo, raggiunge la regal schiena poco al di sotto delle spalle
L’emergenza sanitaria legata al Covid-19 ha reso la stretta di mano: ritiene che in futuro tale costume verrà abbandonato?
No. Torneremo a stringere mani. E ad abbracciarci. E a baciarci.
Massimo Arcangeli insegna Linguistica italiana presso l’Università di Cagliari. Già responsabile scientifico mondiale del Progetto Lingua Italiana Dante Alighieri (PLIDA), dirige numerosi festival culturali, collabora con la radio e la tv pubblica, con l’Istituto della Enciclopedia Italiana (Treccani) e con alcuni dei più importanti quotidiani nazionali. Fra i suoi ultimi libri: Una pernacchia vi seppellirà. Contro il politicamente corretto (Castelvecchi, 2019); Sardine in piazza. Una rivoluzione in scatola? (Castelvecchi, 2020); Senza parole. Piccolo dizionario per salvare la nostra lingua (il Saggiatore, 2020).