
Carroll Quigley, nato a Boston nel 1910 e morto a Washington nel 1977, fu non solo un originale esponente della storiografia statunitense ma anche un eccezionale docente, ricordato da generazioni di studenti come il loro insegnante più carismatico. Non si può ignorare il suo ruolo come mentore di Bill Clinton, suo allievo verso la metà degli anni Sessanta, il quale, nel discorso di accettazione della nomination come candidato presidenziale nel 1992, indicò lo stesso Quigley accanto a John F. Kennedy come principale fonte di ispirazione per la sua vocazione alla vita politica.
Per molti versi, Quigley appare come una figura fin qui ampiamente sottovalutata. Tra le cause di questa situazione vi sono alcuni fattori oggettivi che hanno giocato a suo sfavore. Uno di questi è l’improvvisa e prematura scomparsa, che gli ha negato la possibilità di apparire sotto le luci della ribalta come personaggio pubblico in quanto mentore del presidente in carica – una chance che certamente non avrebbe rifiutato, considerata la sua forte personalità. Tra i suoi tratti caratterizzanti vi fu senz’altro la tendenza a non disdegnare atteggiamenti eccentrici e ad assumere posizioni controcorrente. Tra queste ultime vanno annoverate le sue posizioni critiche nei confronti del mondo finanziario. Si tratta di idee in sé legittime e argomentate in modo raffinato, a partire da un’analisi molto approfondita dei successi e dei fallimenti del primo capitalismo finanziario globale, sviluppatosi nella seconda metà dell’Ottocento fino a raggiungere il suo apice durante l’età del Gold Standard (1870-1914). Sfortunatamente, alcuni sostenitori di ipotesi complottistiche iniziarono a citare i lavori di Quigley a supporto delle tesi esposte nei loro pamphlets antiglobalisti. Questo rozzo tentativo di annessione, proveniente da aree della destra radicale americana del tutto estranee alla sua figura, ha finito per ledere ingiustamente la sua reputazione oscurando gli aspetti originali del suo contributo scientifico.
Quale prospettiva caratterizza la sua produzione scientifica?
Quigley sostiene che lo storico possa pervenire a una ricostruzione credibile dei fatti del passato, non viziata dal riduzionismo, soltanto cogliendo la “whole picture”, cioè ricostruendo il quadro complessivo entro cui i singoli avvenimenti si collocano. La base su cui egli fonda la propria metodologia è l’olismo, una corrente filosofica risalente agli anni Venti e che ha trovato applicazione negli ambiti più disparati. A tale tendenza si rifanno autori che, come egli stesso, tendono a privilegiare la dimensione interdisciplinare della ricerca scientifica.
Lo stesso Quigley collocò consapevolmente la propria opera nel solco di una tradizione che partiva da Giambattista Vico per arrivare fino ad Arnold J. Toynbee. Rispetto a quest’ultimo, egli si propose di superare la metafora darwiniana insita nel meccanismo di sfida e risposta – indicato dallo studioso britannico come fondamento della storia delle civiltà – riportando l’attenzione sui fattori culturali al fine di spiegare perché certe società rispondono alle sfide mentre altre falliscono. Su un altro piano, egli manifestò in più occasioni la sua distanza da Oswald Spengler e dalle idee esposte ne Il tramonto dell’Occidente: nella contrapposizione tra Kultur e Zivilisation che caratterizza il pensiero del filosofo tedesco, egli vedeva infatti un terreno culturalmente fertile per il successivo sviluppo dell’ideologia nazista.
La prima esposizione sistematica e relativamente compiuta del suo pensiero risale al 1961, con la pubblicazione di The Evolution of Civilizations. An Introduction to Historical Analysis. In questa opera lo storico americano descriveva la propria metodologia, fondata su un ampio ricorso alle scienze sociali. Pochi anni dopo, nel 1965, Quigley pubblicò un secondo libro: Tragedy and Hope. A History of the World in Our Time. Dedicato al periodo compreso tra il 1860 e il 1960, questo volume dall’approccio quasi enciclopedico, la cui mole inusitata raggiunge le 1348 pagine, tratta non solo gli aspetti politici ed economici delle vicende storiche ma anche quelli militari, tecnologici, sociali e intellettuali. Dopo aver esposto le basi del suo metodo in The Evolution of Civilizations, Quigley se ne serve in Tragedy and Hope come chiave di lettura da applicare alla storia globale. A queste due opere maggiori si aggiungono altre due monografie, pubblicate postume, e diversi articoli che affrontano svariati argomenti, spesso usando categorie sociologiche o antropologiche per supportare le tesi sostenute.
Quale innovativa metodologia di ricerca adotta Quigley?
Quigley definì Macrohistory il genere di storiografia da lui praticato. Con questo termine si riferiva alla creazione di paradigmi concettuali, da applicare allo studio di diversi periodi storici per facilitarne lo studio in chiave comparativa. Alla base di questo approccio vi è la convinzione che, in presenza di contesti paragonabili, gli eventi storici abbiano la tendenza a seguire determinati sviluppi – tendenza che si concretizza in misura più o meno approssimata a causa di molteplici fattori esterni. La sua metodologia prevedeva pertanto la ricerca di patterns, ovvero di paradigmi interpretativi che descrivono tendenze dotate di validità generale ma pur sempre passibili di eccezioni. Ciò è ben diverso dal postulare vere e proprie leggi storiche necessitanti: si tratta di semmai di modelli utili per formulare ipotesi esplicative, la cui tenuta è successivamente verificabile tramite lo studio di casi concreti. Creazione di modelli, formulazione di ipotesi, verifica “empirica”: per Quigley il metodo scientifico è fondamentalmente uno solo, e va applicato tanto alle scienze naturali quanto alle scienze sociali.
La ricerca di patterns regolari, rintracciabili in diverse epoche storiche, è finalizzata a spiegare i grandi momenti di svolta che caratterizzano il passaggio da un’epoca all’altra. La dinamica centro-periferia è senz’altro uno di questi patterns, che egli seppe tematizzare con risultati originali. È rilevante notare come Quigley abbia anticipato le tesi-cardine della World-Systems Theory di almeno una decina d’anni. In effetti, il tema del rapporto centro-periferia e della successiva dislocazione del centro a seguito dei mutati equilibri di potere – illustrato da Quigley all’inizio degli anni Sessanta – sarebbe diventato in seguito uno degli assi portanti del paradigma costruito dal sociologo canadese Immanuel Wallerstein e dagli altri studiosi che insieme a lui hanno sviluppato la dottrina dei “sistemi-mondo”.
Un aspetto ancora più tipico dell’elaborazione quigleyana è il concetto di “strumento di espansione”, un fattore specifico che caratterizza univocamente ciascuna civiltà e che ne orienta lo sviluppo, fungendo da struttura di coordinamento. Nel caso della civiltà occidentale, tale strumento è stato dapprima il feudalesimo, a cui ha fatto seguito il capitalismo. L’evoluzione storica di qualsiasi strumento di espansione, secondo Quigley, comporta una perdita di efficacia che si manifesta quando i gruppi sociali che lo controllano iniziano a servirsene unicamente a proprio vantaggio. Questa trasformazione, da lui definita “istituzionalizzazione”, non è altro che l’irrigidimento degli strumenti in istituzioni fini a se stesse, a protezione degli interessi acquisiti che detengono il potere nei vari livelli in cui la società si articola. Lo sbocco della crisi – che può essere di tipo riformista o reazionario a seconda dell’esisto dello scontro che ne consegue – determina la strada che la civiltà finirà per imboccare. L’istituzionalizzazione è un fenomeno inevitabile, ed è il principale agente di cambiamento storico. La sua inevitabilità le conferisce la regolarità tipica dei patterns. Attraverso la dialettica tra attività strumentali e attività istituzionalizzate, Quigley applica alla ricerca storica uno dei capisaldi della sociologia di Thorstein Veblen, ma introducendo l’elemento diacronico che le conferisce quella profondità necessaria per renderla un valido strumento interpretativo per lo studio del passato.
Quale rilettura del profilo culturale della civiltà occidentale propone lo storico americano e che ruolo vi svolge il concetto di «inclusive diversity»?
Per rispondere a questa domanda, bisogna partire dal riconoscimento della forte base filosofica a cui Quigley aggancia il suo pensiero. Egli sostiene che l’ideologia dell’Occidente, che nel corso del medioevo assumeva progressivamente una fisionomia autonoma rispetto alla cultura della civiltà classica da cui discende, si sia configurata come un’ideologia moderata. Con ciò, Quigley intende affermare che quella occidentale è una civiltà della sintesi, costantemente minacciata da estremismi di segno opposto, e tuttavia sempre capace di operare una sintesi che includa elementi inizialmente contrapposti, smussandone le asperità al fine di renderli compatibili.
La mente occidentale oscilla secondo Quigley tra due polarità, una più materialista, che filosoficamente risale agli insegnamenti della scuola ionica e di Democrito, e una più spiritualista che trae origine dal platonismo. Queste due polarità hanno continuato ad agire nella filosofia del medioevo cristiano e oltre, alimentando una serie di dicotomie: tra la carne e l’anima, l’individuo e lo stato, la logica induttiva e quella deduttiva, e così via. Tali contrapposizioni trovano il loro punto di equilibrio nel prevalere della tendenza conciliatrice. L’espressione usata da Quigley per illustrare questo concetto è “inclusive diversity” – un termine che, come egli stesso spiegò in seguito, va inteso come formula che riassume l’intero senso della sua opera.
Il tratto caratterizzante della civiltà occidentale è dunque la moderazione, che si manifesta nella sintesi di estremismi opposti, dai quali essa viene posta costantemente in discussione creando in tal modo le premesse per le sintesi successive, in un processo che – è bene sottolinearlo – rimane aperto. Il nucleo dell’ideologia occidentale può essere sintetizzato, secondo Quigley, in questa formula: “La verità si svela nel tempo mediante un processo comunitario”. Con ciò egli afferma che dare la verità come qualcosa che possa essere acquisito definitivamente significa porsi al di fuori della tradizione moderata e inclusiva, assecondando le tendenze estremistiche che mettono in discussione la sintesi. Sebbene non possa essere afferrata ora, la verità può essere approssimata sempre di più in futuro; e, inoltre, il suo disvelamento non può essere il frutto di un’iniziativa isolata ma solo il risultato di uno sforzo comune, il cui esito è lo sviluppo di un consenso capace di avvicinarsi alla verità più di quanto potrebbe fare ogni singolo individuo. Tramite la ricerca della verità – che si dispiega in un modo apparentemente competitivo ma fondamentalmente cooperativo – la cultura occidentale persegue in realtà un fine più alto, cioè la ricerca del consenso.
A partire da questa riflessione, Quigley giunge a formulare una visione critica sull’evoluzione della nostra società. L’eccessiva specializzazione del sapere e il riduzionismo tipici della cultura del liberalismo ottocentesco hanno a suo avviso messo in crisi la tradizione occidentale – una crisi che si è protratta anche nel Novecento, in cui la fine delle ideologie e l’avvento della tecnocrazia hanno messo in un angolo la tradizione conciliatrice. Di qui la necessità, postulata da Quigley, di una profonda riforma educativa, basata su un approccio olistico ai problemi sociali, come chiave per garantire che la “inclusive diversity” rimanga un pilastro della civiltà occidentale.
Quale centralità possiedono, nella riflessione di Quigley, il problema dell’equilibrio tra stato, comunità e individui e l’intreccio, a livello globale, tra politica, economia e finanza?
La padronanza degli strumenti concettuali forniti dalle scienze sociali, in particolare da sociologia e antropologia culturale, consente a Quigley di dare un’interpretazione originale degli elementi fondativi del potere politico ed economico. Egli associa il profilo culturale dell’Occidente all’autonomia della società dallo stato. La storia della civiltà occidentale può dunque essere racchiusa in un processo, di durata millenaria, caratterizzato dalla spinta contrastante tra accentramento e decentramento del potere. Quando all’interno di questa dinamica lo stato assume una dimensione totalizzante, assorbendo in sé ogni aspetto dell’esistenza individuale, la società perde qualsiasi autonomia. Il pericolo da cui Quigley metteva in guardia i suoi contemporanei era che la distinzione tra società e stato, da lui considerata la grande conquista che costituisce l’essenza della civiltà occidentale, venisse sacrificata. I fenomeni di irrigidimento e centralizzazione in atto gli apparivano chiari sintomi del cronicizzarsi di una crisi che rischiava di comportare il declino, avviando la civiltà occidentale verso un modello di gestione del potere che per certi versi rispecchiava quello attuato nella civiltà classica durante i secoli della tarda antichità. A quel punto la distruzione dei corpi intermedi, sui quali la società fonda la propria autonomia rispetto allo stato, avrebbe lasciato gli individui soli e privi di potere di fronte allo stato e alle grandi corporations. Secondo il nostro storico, la tendenza in atto nella civiltà occidentale potrebbe sfociare nella trasformazione della società in una massa di individui atomizzati, sottoposti a un potere che non è più solo sovrano ma anche totalitario.
In questo approccio è agevole leggere una presa di posizione a difesa del modello liberale statunitense dalla minaccia del totalitarismo; tuttavia la figura di Quigley non è assimilabile a quella di intellettuali, come per esempio Arthur Koestler, ai quali si addice la definizione di cold warriors. Egli fu anzi un critico severo, da posizioni liberal, del modello economico e sociale americano. La sua accusa nei confronti del complesso militar-industriale e delle élites tecnocratiche richiama quella di Charles Wright Mills (The Power Elite, 1956), e si aggiunge alla sua già citata critica del sistema finanziario.
Per comprendere meglio tale prospettiva bisogna partire da un dato biografico. Quigley si formò come uomo e come studioso negli anni Trenta, segnati dalla Grande Depressione seguita al crollo di Wall Street del 1929. Quell’esperienza fece di lui un convinto sostenitore degli approcci espansivi alle politiche monetarie nei periodi di crisi. I suoi studi di storia delle politiche monetarie, difficilmente riassumibili in poche righe, e anche ardui da estrarre dalla sua prosa talvolta un po’ involuta, convergono su un punto: chi produce, essendo in posizione di debitore, preferisce scenari caratterizzati da una moderata inflazione, mentre chi gestisce il sistema finanziario, in qualità di creditore, si avvantaggia in casi di inflazione nulla o addirittura di deflazione. La sua convinzione di fondo, alimentata dal suo vissuto ed espressa con una robusta vis polemica, postula quindi che tra economia e finanza, cioè tra il mondo produttivo e il mondo del credito, esista un rapporto diseguale fondato su un intrinseco conflitto di interessi, non su un disallineamento momentaneo risolvibile agevolmente mediante uno sforzo reciproco di collaborazione. Le pagine che Quigley dedica al periodo 1870-1933 disegnano un grande affresco in cui la storia economica si intreccia con le vicende politico-diplomatiche. Da esse emerge un ritratto del capitalismo in cui l’ipertrofia del settore finanziario produce conseguenze sociali e politiche che vanno ben al di là del puro impatto economico. Nel contesto odierno, Quigley avrebbe con tutta probabilità appoggiato gli interventi di quantitative easing, avviati dalle banche centrali su entrambe le sponde dell’Atlantico a partire dalla Grande Recessione del 2008. Queste misure, introdotte tra mille resistenze e oggi diventate pressoché strutturali, hanno evitato che la recessione si trasformasse in una depressione dai contorni simili a quelli conosciuti dalla generazione del nostro storico.
Quali scenari interpretativi aprono, sulla nostra contemporaneità, le categorie della storia globale di Quigley?
Ciò che va riconosciuto è in primo luogo la vastità dei suoi interessi, che spaziavano dai problemi pedagogici – a proposito dei quali egli sosteneva l’esigenza di una riforma profonda del sistema educativo nel senso di un nuovo umanesimo anti-tecnocratico – a quelli geopolitici. Ricordiamo che Quigley fu per quasi quarant’anni anni un docente della School of Foreign Service presso la Georgetown University – una istituzione di Washington, DC nella quale veniva formata una parte del personale politico e diplomatico che avrebbe occupato posizioni di rilievo nell’amministrazione statunitense. A partire da questa esperienza, che egli visse cercando tenere i due piani professionali, di studioso e di didatta, non separati ma quanto più possibile interconnessi, egli ebbe il coraggio di porsi il problema dell’applicazione dei suoi modelli interpretativi non solo per spiegare i fatti del passato, ma anche come chiavi di lettura per porsi domande su scenari futuri.
Negli anni Sessanta, all’apice della Guerra Fredda, in un mondo segnato dalla contrapposizione tra due grandi superpotenze, Quigley seppe prevedere l’ascesa di un mondo multipolare. Il nuovo assetto, frutto delle dinamiche innescate dai mutati rapporti tra centro e periferia, sarebbe stato caratterizzato dalla presenza di potenze regionali emerse dalla disgregazione dei due blocchi ideologici. In questo nuovo spazio delle relazioni internazionali, egli sostenne che le maggiori potenze avrebbero evitato di misurarsi in conflitti diretti dalle conseguenze irreparabili, e una miriade di conflitti a bassa intensità sarebbe diventata la norma. Da attento studioso delle tecnologie militari, egli prevedeva che l’importanza strategica degli arsenali nucleari sarebbe diminuita. Al contempo egli auspicava un’ulteriore innovazione tecnologica che accrescesse il potenziale difensivo degli armamenti rispetto a quello offensivo, riportando così la scala dei conflitti a una dimensione ridotta e controllabile rispetto agli effetti devastanti delle due guerre mondiali.
Le sue idee sull’autonomia delle singole culture, la cui diversità era vista come un bene da valorizzare, lo portavano del resto a condannare le ingerenze “imperiali” delle superpotenze. Secondo Quigley, la decentralizzazione del potere è la chiave tanto per evitare guerre globali quanto per mantenere la possibilità di coltivare spazi di libertà individuali. Tale critica non era rivolta soltanto all’URSS, ma anche agli USA di cui criticava la tendenza a perseguire la modernizzazione dei paesi in via di sviluppo che rientravano nella propria sfera di influenza tramite processi di occidentalizzazione, destinati a fallire perché inapplicabili presso realtà dotate di proprie specificità culturali, differenti da quelle che hanno permesso alla società occidentale di diventare ciò che è. Anche nel nostro tempo la complicata evoluzione del processo di globalizzazione, che sembra arretrare di fronte a difficoltà di ordine economico, politico e recentemente anche epidemiologico, è un sintomo dell’inefficacia di un unico paradigma di sviluppo applicato all’intero pianeta senza considerare le esigenze dei popoli e la specificità delle loro culture.
Filippo Chiocchetti è dottore di ricerca in storia presso l’Università del Piemonte Orientale; è stato borsista post-doc e assegnista di ricerca a Vercelli e a Trieste. I suoi interessi scientifici sono focalizzati sulla storia della storiografia e sulle digital humanities. È autore di due monografie: la prima ricostruisce l’evoluzione dei libri scolastici che hanno plasmato la cultura storica dei ceti dirigenti nell’Italia del XIX secolo. La seconda è una biografia intellettuale di Carroll Quigley, originale figura di storico, educatore e intellettuale critico.