
In altri termini, ciascuno di noi è sovrano con la stessa “pari dignità sociale” (art. 3 Cost.) di tutti gli altri. Certamente, però, siamo tutti sovrani limitati perché possiamo esercitare la nostra sovranità soltanto “nelle forme e nei limiti della Costituzione” (art. 1). Intendiamoci, la dimensione del limite reciproco quale garanzia (costituzionale) del pari rispetto non è “buonismo”, ma il precipitato storico di secolari lotte portate avanti dai vari soggetti subalterni per il loro pieno riconoscimento come parte integrante e degna del popolo.
Ecco che così emerge quanto la convivenza fondata sulla nostra Costituzione si imperni sulla consapevolezza dei limiti da osservare per poter davvero consentire a tutti di essere pienamente degni nella vita consociata: l’accettazione dei limiti costituzionali discende dalla consapevolezza di essere gli uni dipendenti dalle altre/i e che solo l’esercizio responsabile dell’interdipendenza consente di rimuovere le diseguaglianze tra le persone.
Ciò chiarisce quanto sia infondata ogni pretesa di assolutezza e illimitatezza del nostro potere, personale o sociale o nazionale. La rivendicazione di sconfinata sovranità del popolo (sovranismo e/o populismo) cela malamente la pretesa di non avere limiti da rispettare (a cominciare dai diritti altrui e dai doveri cui non si intende adempiere) e forme cui attenersi, finendo inevitabilmente per negare la pari dignità sociale di gruppi sociali, confessioni religiose, opinione politiche e così via. Si tratta di una visione della società, dunque, che contrasta con il principio di uguaglianza e, quindi, con il principio democratico.
Eppure questa visione è riuscita a conquistarsi spazi importanti a livello mondiale e anche nel nostro Paese. Un po’ ovunque, ma anche in Italia, ciò ha significato un aumento incontrollabile delle diseguaglianze e la verticalizzazione del potere politico sia a livello statale che regionale. La frammentazione dei gruppi sociali resi ancor più subalterni si è accompagnata alla crisi e al discredito delle più classiche delle forme di intermediazione tra governati e governanti, come sindacati e partiti politici.
La situazione critica (talvolta agonizzante) in cui versano i soggetti collettivi individuati dalla Costituzione come gli intermediari, anche se non esclusivi, comunque essenziali della partecipazione facilita il depauperamento del ruolo della rappresentanza, politica e sindacale, sminuendo enormemente il Parlamento.
A ciò devono aggiungersi le significative limitazioni di sovranità verso le sedi sovranazionali, che non sono fondate né davvero sul principio democratico (rendendo sempre attuale il lamentato deficit democratico dell’UE) né sul principio di eguaglianza sostanziale che cozza con il prevalere della libera concorrenza su ogni altro principio.
La pandemia ha accelerato le tendenze, da tempo già atto, verso un’ulteriore verticalizzazione del potere che, sempre meno gestito dai Parlamenti, passa dall’organo collegiale del Governo nelle mani di una sola persona, il suo Presidente, svincolato dalle garanzie costituzionali ordinarie.
La marginalizzazione del Parlamento rappresenta la grave crisi del principio democratico, che potrà rivitalizzarsi soltanto con un rinnovato perseguimento del principio di eguaglianza sostanziale. Ciò richiede, però, la partecipazione attiva dei soggetti che vedono limitate “di fatto la libertà e l’uguaglianza” delle persone (art. 3).
Quale importanza assume il principio personalista nell’era dei populismi?
Nel porre al centro la persona, nella sua concretezza, nella sua dimensione esistenziale, esplicitamente riconosciuta dall’art. 3, secondo comma, e, in forma ancor più esplicita, dall’art. 36 Cost., il Costituente ha compiuto un fondamentale rovesciamento di paradigma rispetto alla concezione liberale astratta ed elitaria dell’individuo. E, proprio nel nuovo riconoscimento del valore della persona, insegna autorevole dottrina, che può cogliersi la “considerazione della dignità di ciascuno, in posizione di eguaglianza con pari dignità sociale rispetto a tutti gli altri membri della collettività, ai quali è legata da rapporti di solidarietà politica, economica e sociale che comportano corrispondenti doveri . Le decisioni del Costituente italiano, riflesse dai principi consacrati nella Carta non hanno, dunque, alcunché di obiettivo. La scelta di assumere posizioni significanti e coraggiose, imperniate su di una visione unitaria e articolata della dignità umana, in un contesto caratterizzato da autonomia territoriale e funzionale, non può essere considerata come atto scontato, per certi versi presupposto, conservando, al contrario, il suo valore sino a che è difesa e interpretata come decisione pregna di valore profondo. Regge, in altre parole, sino a che se ne assume il senso democratico. In tal senso, come i diversi contributi presentati dagli Autori hanno cercato di evidenziare, continuare a garantire i principi fondamentali della Costituzione italiana significa perseverare nel difendere la scelta costituente imperniata sulla centralità della persona, della persona posta al centro del sistema nella prospettiva della dignità.
Non può, infatti, in alcun modo dimenticarsi che proprio la centralità della persona trasforma profondamente il sistema sia per il rilievo dei principi a essa legati, sia per le connessioni che inevitabilmente si creano tra i principi stessi, con ricadute forti sul modo d’intenderne la portata e la complessità. Sulla base di tali premesse, come ricorda Alessandro Morelli nel volume da noi curato, risulta necessario riaffermare la centralità del principio personalista come criterio di preferenza dell’individuo rispetto alla collettività, non già nel senso che gli interessi del primo debbano sempre e comunque prevalere su quelli della seconda, ma che esiste una presunzione relativa di precedenza dei diritti inviolabili e dei doveri inderogabili della persona, superabile solo al ricorrere di circostanze straordinarie. Tale assunto implica che non tutti gli interessi sociali (anche indirettamente connessi a principi costituzionali) siano da porre sullo stesso piano e che possano essere bilanciati in condizioni di parità con le declinazioni primarie, costituzionalmente riconosciute e garantite, della persona umana. Il principio personalista si oppone, peraltro, al populismo, che, infatti, tenta di stravolgere il senso della centralità dell’individuo a vantaggio di leader che pretendono di parlare in nome del popolo. Centralità della persona, insomma, non vuol dire affatto centralità del soggetto né è condizione che si presta a strumentalizzazioni politiche fondate sulla paura dell’altro, dirette, come evidente, solo a rincorrere il consenso.
Come si estrinseca il principio autonomistico tra i poli opposti dell’interdipendenza e della disgregazione nazionale e sociale?
Il principio autonomistico nel nostro ordinamento ha sempre conosciuto un andamento altalenante, conoscendo lunghe fasi di estremo svilimento in nome di un interesse nazionale confuso con un centralismo cieco e sordo alle diverse esigenze territoriali.
Basti pensare che le Regioni ordinarie compiono nel 2020 il loro primi cinquant’anni, mentre la Costituzione ne ha già settanta.
Anche dopo la loro tardiva istituzione nel 1970, lo Stato ha per decenni arginato l’ambito di intervento regionale al punto da offrire il fianco a pretese localistiche incentrate sulla rivendicazione di differenti “identità” dei vari “popoli” regionali. Quando, quindi, si è voluta affrontare la riforma del regionalismo italiano si sono inseriti elementi tipicamente federali (come la presunzione di una competenza residuale delle Regioni con uno Stato dalle competenze espressamente elencate) nonché dinamiche intrinsecamente concorrenziali tra le varie parti d’Italia.
Nel 2001 ne fece le spese soprattutto la politica di intervento attivo della Repubblica per tentare di colmare di divario socio-economico storicamente esistente tra il Nord e il Sud del Paese. La riforma costituzionale che tra il 1999 e il 2001 ha modificato il Titolo V della nostra Costituzione, infatti, ha eliminato sia il concetto di interesse nazionale che ogni riferimento alla condizione del Mezzogiorno e delle Isole, portando all’attuale aumento delle diseguaglianze socio-economiche tra i vari territori della Repubblica.
I cittadini oramai conoscono inaccettabili disparità di trattamento in molti diritti fondamentali secondo la regione di residenza. Sono le Regioni, infatti, a essere responsabili di molti servizi pubblici essenziali, con particolare riferimento alla sanità, ma anche alla istruzione e alla formazione professionale.
In tutte le Regioni questi servizi hanno conosciuto, a partire dal 2008, tagli significativi dovuti alle politiche di contenimento della spesa decise a livello statale. La forte contrazione dei trasferimenti erariali dallo Stato alle Regioni, però, ha innescato alcune dinamiche particolarmente esecrabili di “sovranismo regionale”: a fronte della esiguità delle risorse a disposizione, molte Regioni nell’erogazione di servizi e di prestazioni hanno cominciato a “privilegiare” i “corregionali” che risiedono nel loro territorio da più tempo.
Queste politiche, ripetutamente ritenute illegittime dalla Corte costituzionale, conducono verso una disgregazione del popolo italiano mettendo in dubbio che ogni persona abbia diritto a non subire contraccolpi per aver esercitato il diritto costituzionale alla libera circolazione sul territorio nazionale.
Deve considerarsi, inoltre, che sono soprattutto i cittadini del Mezzogiorno a esercitare tale diritto, spostandosi nelle aree più ricche e dinamiche del Paese per ragioni di lavoro, di studio e in genere di opportunità esistenziali. Come già accennato, infatti, è oramai dimostrato che nella redistribuzione della ricchezza tramite la spesa pubblica allargata per la garanzia dei diritti il Sud d’Italia abbia subìto una iniqua sottrazione di risorse a favore del Nord.
Ciò nonostante il malessere percepito anche al Nord, soprattutto laddove si viva in un territorio confinante con una regione a Statuto speciale e con i suoi indubbi vantaggi economici, ha dato linfa a quanti propongono una qualche forma di secessione dal resto della nazione.
Una volta che nel 2015 la Corte costituzionale ha ritenuto illegittima qualunque richiesta di secessione territoriale, ha preso velocemente piede l’idea di dare concreta esecuzione a quel “regionalismo asimmetrico” che nel 2001 è stato inserito al terzo comma dell’art. 116 Cost. Si tratta di un procedimento che al momento è stato interrotto dall’avvento della pandemia da Covid 19, la cui esperienza segnerà inevitabilmente anche gli sviluppi futuri delle trattative finora condotte tra lo Stato e le regioni interessate.
Riaffiora sempre, infatti, la ambiguità che accompagna il principio autonomistico tra deragliamenti secessionisti e indipendentisti e ipercentralizzazioni, mentre il concetto stesso di autonomia si nutre della consapevolezza dell’interdipendenza. La constatazione di dipendere gli uni dagli altri colloca, correttamente, le esigenze dell’autonomia nell’alveo del perseguimento del principio di uguaglianza.
Quale funzione svolge il principio di laicità nella democrazia costituzionale?
Un indirizzo consolidato ed indiscusso del giudice delle leggi ha riconosciuto al principio di laicità (specificandone i molti riflessi negli sviluppi e negli approfondimenti di una giurisprudenza quasi trentennale) il rango di principio supremo del nostro ordinamento costituzionale. La laicità, per la Corte, individua «(…) uno dei profili della forma di Stato delineata nella Carta costituzionale della Repubblica», e costituisce, pertanto, un principio che, al pari di quello democratico e congiuntamente ad esso, è coessenziale alla forma repubblicana, indissociabile da questa, ed intangibile, ponendosi entrambi come limiti assoluti alla revisione costituzionale (sentenza n. 203 del 1989).
In sostanza, il nostro sistema democratico (e pluralistico) è necessariamente laico, al punto da poter elencare le principali correlazioni tra il principio di laicità ed gli altri principi posti a base della struttura democratica del nostro ordinamento: la connotazione in senso pluralistico ed egualitario della vigente forma di Stato; l’irrilevanza giuridica tanto del dato numerico degli appartenenti ad una organizzazione confessionale quanto di quello sociologico dell’appartenenza di una qualsivoglia esperienza spirituale alla tradizione storica e culturale della nazione; il rafforzamento del dovere dei pubblici poteri di essere equidistanti ed imparziali; la tutela delle minoranze; la promozione delle libertà di religione nel quadro della indivisibilità delle libertà civili.
La prima delle due più rilevanti specificità che, in particolare, connotano la laicità italiana è quella che ha fatto qualificarla, non senza profili di ambiguità, come ‘positiva’. In coerenza con il carattere interventista della Repubblica, essa non implica «(…) indifferenza e astensione dello Stato dinanzi alle religioni» (sentenza n. 203 del 1989), ma legittima «(…) interventi legislativi a protezione della libertà di religione» poiché allo Stato «(…) spetta soltanto il compito di garantire le condizioni che favoriscono l’espansione delle libertà di tutti e, in questo ambito, della libertà di religione» (sentenza n. 508 del 2000).
In virtù di questo progetto democratico molto ambizioso, che coniuga la libertà religiosa con le libertà di tutti, e, dunque, con l’uguaglianza, non possono ritenersi legittimi interventi promozionali speciali a sostegno sia dei profili organizzativi che della libertà religiosa dei credenti di una determinata confessione, quale che essa sia, ma solo interventi direttamente mirati a promuovere (non a favorire) la libertà religiosa (di credenti e non credenti) nell’ambito di un impegno che rispetti e attui il «regime di pluralismo confessionale e culturale» auspicato negli orientamenti giurisprudenziali della Consulta.
L’obiettivo perseguito è la creazione di un pluralismo religiose ‘aperto’, che si alimenta della convivenza e del confronto tra diverse concezioni ideali ed alimenta, a sua volta, il carattere democratico dello Stato repubblicano. Un pluralismo che rifiuta una laicità improntata al sistematico ricorso allo strumento giuridico del divieto e ne favorisce una concezione che promuove l’esercizio delle libertà e dei diritti umani in condizioni di uguaglianza.
Un’altra specificità della laicità italiana è rappresentata dalla regola della distinzione dell’ordine proprio dello Stato dall’ordine proprio della Chiesa cattolica, affermata dal primo comma dell’art. 7 Cost., ma riferibile a tutte le confessioni religiose. Si è di fronte ad un tema, tuttora, controverso, che presenta aspetti peculiari in un ordinamento come il nostro nel quale, accanto alla regola in questione, operano anche il principio costituzionale della regolamentazione pattizia dei rapporti tra lo Stato e le organizzazioni confessionali ed il principio (non costituzionale) della loro collaborazione. Principio rispetto al quale Parlamento e Governo si misurano sempre più di frequente con una presenza sul territorio delle gerarchie e delle istituzioni della Chiesa non comparabile con quella esistente in nessun altro Paese di tradizione cattolica.
Il principio della distinzione dell’ordine delle questioni civili da quello dell’esperienza religiosa, come si diceva, deve essere riferito a tutti i gruppi confessionali, in quanto esso «(…) caratterizza nell’essenziale il fondamentale o ‘supremo’ principio costituzionale di laicità o non confessionalità dello Stato» (sentenza n. 334 del 1996). Il principio opera in una duplice direzione: quale divieto di reciproche ingerenze negli affari interni, e quale divieto di commistione – anche parziale – dei rispettivi apparati di governo (legislativi, giurisdizionali e amministrativi).
La distinzione tra ‘ordini distinti’ altro non è che un aspetto della separazione tra diritto e morale, tra politica e religione, tra foro interno e foro esterno che costituiscono aspetti della eredità della cultura laica moderna. Tuttavia, ritornando sull’accenno al suo carattere controverso, il primo comma dell’art. 7 Cost., a dispetto della sua formulazione, è una norma programmatica, un obiettivo che deve essere quotidianamente realizzato, nella costante concretizzazione dell’aconfessionalità della società civile e nel deciso rifiuto dell’imposizione di regole fideistiche come «(…) mezzo a fine dello Stato» (sentenza n. 334 del 1996).
Come può intuirsi, la vicenda del principio di laicità è emblematica della resistenza delle istituzioni e della dottrina (e in parte anche della società civile) a distaccarsi da una cultura in senso lato confessionista cattolica, ad abbandonare il correlato modello privilegiario ed a produrre regole certe, trasparenti e conformi a Costituzione. Una vicenda comune ad altri principi costituzionali, che si presta a confermare quanto sia articolato in un sistema democratico il compito di dare attuazione alla Carta fondamentale.
La questione problematica è data dal fatto che, a fronte di una precisa definizione per via giurisprudenziale, nel nostro ordinamento si è di fronte al paradosso di una laicità dichiarata ma non praticata. Innanzitutto, si è di fronte alla realtà di una svalutazione del principio di laicità ad opera di una parte consistente della dottrina, che pare incline ad interpretarlo come un mero criterio orientativo di limitata capacità prescrittiva, nonché privo di incidenza immediata e diretta negli assetti normativi vigenti. La laicità, poi, rimane inattuata dal legislatore (nazionale e regionale) che, incurante della funzione di monito della Corte costituzionale e delle esigenze di normazione da essa segnalate, persevera nell’omettere una compiuta e sistematica disciplina di attuazione delle disposizioni costituzionali che danno forma a questo principio. Infine, la laicità risulta non praticata dal Governo e dalla pubblica amministrazione, incuranti di osservare l’obbligo della neutralità ed imparzialità che ne dovrebbero caratterizzare l’operato, al fine di assicurare un regime di libera concorrenza fra tutte le confessioni religiose e tutti gli orientamenti spirituali, egualmente meritevoli di protezione dalle autorità civili, tenute a non parteggiare per nessuna delle proposte ideali in campo.
Per favorire una concreta realizzazione del principio di laicità, non andrebbe mai dimenticato che esso vincola l’ordinamento pluralista al dovuto rispetto delle differenze, nel più gravoso e nobile compito della valorizzazione delle stesse attraverso la tutela – adeguata e integrale – della libertà religiosa di tutti. Ciò in quanto il prodotto della giurisprudenza costituzionale è un concetto ampio di laicità, che si caratterizza, come si è detto, per l’essere pluralista e non monista, naturalmente capace di ‘estroversione’, ovvero di essere aperta nei confronti delle alterità ed attenta alle differenze, delle quali nega decisamente qualsivoglia loro marginalizzazione pubblica. L’inveramento della laicità, nella forme in cui essa è stata immaginata e proposta dalla Corte costituzionale, oltre a rispondere all’esigenza di dare attuazione al disegno ordinamentale proposto dai Padri costituenti, si presterebbe a fornire un contributo decisivo alla realizzazione della coesione nazionale e al rispetto della dignità umana di tutti i consociati, in una struttura sociale nella quale, inevitabilmente, sono destinate a convivere fedi, culture e tradizioni diverse (sentenza n. 440 del 1995).
Come si traducono, settant’anni dopo, nella normativa vigente, i principi costituzionali in materia di rapporti economici?
La Costituzione ha assegnato alla Repubblica il compito di realizzare l’eguaglianza in senso non solo formale, ma anche sostanziale e, per tale ragione, ha posto i principi della sovranità popolare e del lavoro come assi di un processo di trasformazione della società e dello Stato (art. 3, co. 2, Cost.), il quale per inverarsi deve necessariamente incidere – per utilizzare le parole di Norberto Bobbio -sui «due grandi blocchi di potere discendente e gerarchico […], che sono la grande impresa e l’amministrazione pubblica».
Dopo l’enunciazione dei Principi fondamentali e il riconoscimento dei «diritti inviolabili dell’uomo»(art. 2 Cost.) comprensivi dei diritti sociali (artt. 4, 32, 33, 40 Cost.), la Costituzione ha individuato nel Titolo III della Parte prima dedicato alla disciplina dei Rapporti economici, una serie di poteri pubblico-sociali necessari per garantire l’effettiva realizzazione di tali diritti.
Al legislatore è stato riconosciuto infatti il potere di «determinare i limiti alla proprietà privata allo scopo di assicurarne la funzione sociale» (art. 42, 2° co., C.), nonché quello di «riservare originariamente o trasferire» – «a fini di utilità generale» – «allo Stato, ad enti pubblici a comunità di lavoratori o di utenti, determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazione di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale»(art. 43 Cost.).
Tali poteri predisposti dalla Costituzione per rendere possibile la realizzazione del programma di emancipazione sociale recepito dall’art. 3, 2° co., Cost., devono essere esercitati dai pubblici poteri in modo da garantire «l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori» alle decisioni concernenti l’«organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3, co. 2°, Cost.) e infatti la Costituzione conferisce ai lavoratori medesimi strumenti idonei ad immettere, nel circuito istituzionale, indirizzi volti a garantire il primato delle utilità sociali sugli interessi ristretti della grande proprietà e dell’impresa (artt. 39, 49, 40, 75 Cost.), ovvero strumenti adeguati a consentirgli di «concorrere» alle determinazioni concernenti l’«organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (artt. 3, co. 2°; 39; 49; 40; 75 Cost.).
Nella prospettiva delineata dalla Costituzione, l’esercizio di questo insieme di poteri pubblici e sociali deve svolgersi nell’ambito di una programmazione volta a indirizzare «l’attività economica pubblica e privata […] a fini sociali» (art. 41, 3° co., Cost.), ovvero nel contesto di un “piano globale” considerato come lo strumento istituzionale appropriato per affrontare e risolvere organicamente le questioni molteplici relative alla qualità della vita e del lavoro dei cittadini.
Alla «programmazione dall’alto governata dagli organi dirigenti del Mercato comune, nell’interesse dei grandi monopoli», i Costituenti vollero contrapporre infatti «un piano generale di sviluppo economico» elaborato con «metodo democratico», volto a coordinare «le rivendicazioni immediate della classe lavoratrice con le riforme della struttura economica».
Per tale ragione fu attribuito al Parlamento un ruolo preminente non solo nelle decisioni legislative volte a tutelare i diritti civili e politici, ma anche in quelle finalizzate a supportare i compiti di direzione sociale dei meccanismi produttivi, le quali avrebbero dovuto essere appunto adottate mediante una programmazione elaborata con il concorso delle assemblee elettive locali in quanto organi ricettivi delle istanze espresse nel “territorio” considerato come cardine della democrazia di massa e quindi della partecipazione delle forze sociali organizzate.
La prima esperienza di programmazione economica venne posta in essere nella fase del primo centrosinistra mediante l’adozione del cd. Piano Giolitti, il quale pose le premesse per una crescente presenza dello Stato nell’economia prevedendo, tra l’altro, l’obbligo per le grandi aziende di comunicare i progetti d’investimento agli organi della programmazione in modo da verificarne la conformità agli obiettivi del programma.
L’intervento pubblico nell’economia seppe convertire peraltro gli strumenti già utilizzati dall’ordinamento corporativo per sostenere il meccanismo privato di accumulazione della ricchezza in dispositivi idonei al perseguimento delle finalità sociali prescritte dalla Costituzione, come dimostra l’esperienza delle partecipazioni statali, le quali operarono nel quadro di una programmazione volta a orientare le scelte di investimento delle imprese pubbliche e private in direzione degli indirizzi elaborati dal Parlamento, rivelando la capacità del nuovo sistema di “economia mista” di operare innovative simbiosi tra processi di innovazione tecnologica e processi di trasformazione democratica.
Nella fase successiva degli anni Settanta contrassegnata dalle grandi lotte operaie e studentesche, le forze rappresentative del movimento dei lavoratori riuscirono ad imporre in alcuni ambiti (industriale; sanitario), la sperimentazione di un tipo di “programmazione democratica dell’economia” impostata sul collegamento tra le forme della “democrazia di base” (consigli di fabbrica; consigli di zona), la rete delle assemblee elettive locali e il Parlamento, la quale riuscì a conseguire non solo obiettivi di welfare state, ma anche di controllo sociale sugli investimenti produttivi che furono orientati verso la realizzazione dei fini indicati dalla Costituzione, specificati dalla contrattazione collettiva e trasfusi nelle leggi regionali e statali.
In tale stagione – in cui coerentemente con la concezione della “Repubblica delle autonomie” ispirata a una prospettiva di sovranità popolare diffusa nel territorio considerato come luogo di articolazione del potere sociale – furono adottatele riforme della Rai, della scuola, del diritto di famiglia; fu attuato l’ordinamento delle Regioni; fu varata la nuova legislazione previdenziale e assistenziale; istituito il Servizio sanitario universale e adottato lo Statuto dei lavoratori.
L’opera di costruzione di una programmazione democratica dell’economia di tipo globale e vincolante cominciò tuttavia ad essere arrestata a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, perché i gruppi oligopolistici privati rifiutando i cd. “lacci e lacciuoli” che ostacolavano la realizzazione dei pieni profitti, si attrezzarono per edificare “una nuova costituzione” imperniata sui principi della “governabilità” e della “stabilità economica”, sicché si è assistito ad un progressivo passaggio ad una programmazione «indicativa» e in seguito ad una programmazione «settoriale» e «per obiettivi» e infine ad una programmazione «finanziaria» volta a subordinare l’esercizio dei diritti sociali ai vincoli di una politica di bilancio preordinata per sostenere le scelte produttive delle imprese.
Nel 1978 venne approvata infatti la Legge finanziaria» con cui furono poste le premesse per l’avvio del processo di recepimento degli obiettivi della europeizzazione neoliberista e quindi per la conversione della programmazione economica imperniata sul ruolo centrale del Parlamento e sul primato del sociale nella programmazione finanziaria incentrata sul ruolo dell’esecutivo e volta a subordinare la spesa sociale alle esigenze dell’economicità priva
Tale processo di uniformazione agli obiettivi di finanza pubblica stabiliti al livello europeo proseguì con la decisione adottata nel 1981, dal Ministro del Tesoro e dal Governatore della Banca d’Italia, di liberare quest’ultima dall’impegno di acquistare i titoli di debito pubblico che il Tesoro non riusciva a collocare sul mercato e dunque dall’onere di finanziare i disavanzi pubblici mediante l’emissione di moneta (cd. divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro).
Con tale decisione dettata dalla volontà di rispettare i vincoli antinflazionistici derivanti dall’adesione allo SME, la Banca d’Italia venne collocata in una sorta di extraterritorialità rispetto ai principi della rappresentanza democratica e di conseguenza il Parlamento e il Governo furono costretti a ridurre la spesa pubblica orientata a fini sociali.
Un’analoga decisione venne in seguito ribadita dal Trattato di Maastricht, il quale stabilì il divieto per la BCE – in cui la Banca d’Italia venne inglobata unitamente alle Banche di Stato degli altri Paesi europei – di intervenire in modo diretto e illimitato a supporto dei debiti sovrani (art. 123 TFUE).
Due decisioni che, in diverse fasi storiche e in differenti livelli istituzionali, perseguirono il medesimo fine di demolire le conquiste conseguite nel corso degli anni ’60 e ’70 e, in primo luogo, la “scala mobile” che venne infatti abolita in nome del primato della finanza pubblica sui diritti sociali dei lavoratori.
Nel corso degli anni Novanta, i Governi – ponendosi come fautori e nel contempo come esecutori degli indirizzi neoliberisti del FMI, della BM e dell’UE – provvidero inoltre a liquidare i pacchetti azionari dell’Eni, dell’Iri, dell’Ina, della Telecom, dell’Enel, delle F.S., degli enti creditizi pubblici e delle Casse di risparmio, collocando così l’Italia al primo posto per la cessione ai privati delle imprese pubbliche di rilevanza strategica.
La Legge costituzionale n. 3/2001inferse un vulnus ulteriore al modello di governo democratico dell’economia delineato dalla Costituzione, perché recepì le nozioni cardine del sistema neoliberista europeo, ovvero «il mercato» e la «concorrenza» e perché in coerenza con esse introdusse quel principio di sussidiarietà orizzontale già incorporato nella Carta del lavoro fascista, la quale, nel paragrafo IX, prescrisse che «l’intervento dello Stato nella produzione economica» avrebbe dovuto svolgersi «soltanto quando manchi o sia insufficiente l’iniziativa privata».
Il percorso intrapreso dal movimento dei lavoratori per attuare la Costituzione è stato interrotto quindi da una serie di cause interne (compresa la cd. “strategia della tensione”) ed esterne tra cui occorre richiamare, in particolare, il nesso intessuto dalle classi dirigenti tra la dimensione nazionale e la dimensione sovranazionale col fine di ripristinare in un più vasto ambito, quella forma di stato autoritaria e liberista ripudiata dai Costituenti.
Nell’ambito di tale prospettiva è stato conferito infatti un ruolo preminente ad inedite istituzioni tecnocratiche predisposte per regolare i rapporti finanziari in funzione della realizzazione di un sistema produttivo incentrato sulla piena autonomia delle imprese.
Il mercato concorrenziale non esiste del resto in natura e si è provveduto pertanto a costruirlo mediante una governance economica sovranazionale, ovvero mediante una programmazione tecnocratica opposta a quella democratica prescritta dall’art. 41, 3° co. Cost.
Il “governo democratico dell’economia” (art. 41, 3° co., Cost.) è stato pertanto sostituito con un tipo di governo verticistico orientato a rimuovere gli ostacoli al funzionamento del mercato concorrenziale, considerato come lo strumento più idoneo per allocare le risorse e per conseguire l’inclusione sociale.
Il nostro Paese si trova oggi in una fase estremamente critica che pone a rischio la coesione sociale e tale situazione è stata provocata appunto dalle normative neoliberiste dell’UE che ha elevato a suo principio supremo l’«economia di mercato aperta e in libera concorrenza» e che, in coerenza con esso, ha sottoposto i diritti sociali ad una pesante compressione e amputazione motivata con l’obbligo di rispettare l’equilibrio di bilancio stabilito dal cd. Fiscal compact e passivamente inserito dalla maggioranza governativa nell’art. 81 della Costituzione (Legge costituzionale n. 1 del 2012).
Ci troviamo insomma dinanzi ad un processo di restaurazione alimentato dalla crescita delle diseguaglianze e dal conseguente distacco dei cittadini dalla democrazia e dai partiti, i quali sentendosi vittime di una “macelleria sociale” hanno maturato un lacerante rancore che viene incanalato verso la ricerca di capri espiatori (gli immigrati) e verso il consenso a nuovi leader rivelatisi capaci di rapportarsi al popolo mediante modalità di tipo plebiscitario. L’ordine neoliberale non esclude del resto la possibilità del ricorso a soluzioni autoritarie quando ciò sia richiesto dalla necessità della sua perpetuazione.
Le richieste dei lavoratori di frenare l’invadenza pervasiva dei poteri economici e di riaprire il corso della storia oltre l’eterno presente corrispondono tuttavia alle aspirazioni poste a fondamento delle Costituzioni democratico-sociali del secondo dopoguerra, le quali hanno affidato alla sovranità popolare (art. 1 Cost.) il compito di rigenerare la democrazia mediante la socializzazione dell’economia.
Tale esigenza è divenuta nella fase attuale vieppiù pressante a fronte dell’inasprimento delle diseguaglianze sociali provocato dalla crisi pandemica espressiva anch’essa delle distorsioni degli equilibri ambientali generate dal modello neoliberista dominante negli ultimi decenni, sicché appare assolutamente irragionevole ostinarsi a ritenere che tale modello sia l’unico possibile e dunque “privo di alternative”, secondo lo slogan utilizzato dal leader del partito conservatore inglese Margaret Thatcher.
Il rilancio dell’intervento pubblico nell’economia orientato a fini sociali risulta quindi essenziale per contrastare la profonda recessione in corso fomite di ulteriore disoccupazione e precarietà, cui il padronato organizzato nella Confindustria risponde invece con rinnovato spirito predatorio proteso a salvaguardare solo il proprio interesse alla massimizzazione dei profitti anche a costo di sacrificare la vita e la salute dei lavoratori, i quali hanno pagato un tributo altissimo in termini di salute e di fatica negli ospedali e nelle filiere della produzione e della logistica, permettendo al Paese di continuare a funzionare e garantendo condizioni accettabili di esistenza per tutti. Le forze politiche e i movimenti sociali dovrebbero essere quindi consapevoli del fatto che – nell’attuale fase caratterizzata dalla “crisi organica” del capitalismo “globale” – risulta necessario riprendere la lotta per la difesa e l’attuazione della Costituzione e specie dei Principi fondamentali in materia di Rapporti economici perché essi costituiscono gli assi su cui impostare un processo di democratizzazione e socializzazione dell’organizzazione pubblica e privata del potere, ovvero lo spazio politico entro cui risulta possibile esprimere l’opposizione dei lavoratori al «colpo di stato» ordito dalle banche e dai governi» nelle sedi delle istituzioni tecnocratiche sovranazionali e internazionali e a partire dal quale risulta altresì possibile puntare a ricostruire un’Europa fondata non più sui dogmi ordoliberali e neoliberisti, ma sui valori di pace e di giustizia sociale tra le Nazioni ed entro le Nazioni.
Nel panorama mondiale attuale, quale attualità mantengono il principio internazionalista e il principio pacifista?
Come chiarisce De Fiores nel capitolo del libro dedicato all’internazionalismo, la scelta dell’internazionalismo fu immediatamente chiara al Costituente. Inteso come istanza di raccordo e collegamento con una più vasta costruzione internazionale il principio fu promosso sia dalla componente comunista, ostile al fascismo e ad al suo volgare nazionalismo, sia ai cattolici, per i quali proprio il nazionalismo era stata la causa scatenante del totalitarismo nazifascista, della negazione dei diritti, della purezza della razza e della fortificazione nazionale. Da ciò si intende che le norme ispirate al principio internazionalista furono frutto di una convergenza molto ampia che determinò, inoltre, una loro rapida approvazione. La sintesi di vedute, realizzatasi in Costituente, traeva la sua compiutezza, sul piano ideale, da quella che era la cultura di riferimento delle singole organizzazioni di massa che avevano preso parte alla guerra di liberazione. Una cultura che affondava le sue radici nei valori dell’universalismo cristiano (per la DC) e nei principi dell’internazionalismo marxista (per le sinistre). L’intesa fu naturalmente ispirata dall’internazionalismo pacifista, ispirato al principio della convivenza pacifica tra tutti i popoli della terra. Non a caso il Costituente volle proclamare il principio pacifista (che trova il proprio cardine nel principio supremo del ripudio della guerra di cui all’art. 11 Cost.) ispirandosi alla Costituzione spagnola del 1931, impiegando termini quanto più possibile incisivi.
Può dirsi peraltro che oggi come allora il ripudio della guerra permea l’intero art. 11 Cost. e, potrebbe dirsi, l’intera Costituzione. Oggi il principio pacifista, ci ricorda Andrea Pertici, va analizzato soprattutto tenendo conto delle limitazioni di sovranità, di cui alla seconda parte dell’art. 11 Cost. Ciò si spiega in quanto proprio tale tema è divenuto centrale nel dibattito politico-istituzionale. Eppure, la struttura unitaria dell’art. 11 Cost. è da difendere senza alcun indugio. La preminenza assiologica del tema pacifista condizione e spiega le eventuali limitazioni di sovranità dello Stato italiano.
Quale ruolo sono chiamati a svolgere i costituzionalisti per vivificare i principi fondamentali della Costituzione?
La funzione dei costituzionalisti è quella di dire la verità. Di esprimersi liberamente sulle forme della democrazia, di pensare e ripensare il modello costituzionale e di ipotizzare riforme progressiste, qualora ritenute necessarie, rivolte a rinvigorire il senso dei principi fondamentali adottati dal Costituente. Nelle conclusioni del volume Gaetano Azzariti richiama la necessità per il costituzionalista di riportare alla forza della Costituzione le sue conclusioni e il suo impegno. Un invito, insomma, a tornare alla Costituzione motivato dalla percezione di un progressivo abbandono del campo da parte di molti studiosi che preferiscono confidare sulla forza della politica ovvero su quella della giurisprudenza per garantire i diritti delle persone e assicurare la limitazione dei poteri. Addivenire ad un’opera di ricostruzione sistematica è compito tanto arduo quanto essenziale. La salvaguardia dei principi fondanti della nostra Carta lo esige e lo pretende.
Oltre la cronaca, oltre la contingenza.
Michele Della Morte è professore ordinario di Diritto costituzionale nell’Università degli Studi del Molise