“L’Atto di Pietro e le origini della comunità cristiana di Roma” di Francesco Berno

Dott. Francesco Berno, Lei è autore del libro L’Atto di Pietro e le origini della comunità cristiana di Roma, edito da Carocci: quale importanza riveste, per lo studio e la conoscenza della teologia protocristiana, in particolare della dottrina gnostica, l’Atto di Pietro?
L’Atto di Pietro e le origini della comunità cristiana di Roma, Francesco BernoL’Atto di Pietro è un breve testo in lingua copta, rinvenuto in Egitto sul finire dell’800. L’opera è trasmessa da un manoscritto ben noto tra gli studiosi di proto-cristianesimo, ovvero dal cosiddetto Berolinensis gnosticus 8502. Da tale denominazione “non ufficiale” possiamo trarre due importanti informazioni, vale a dire 1) che il manoscritto è attualmente collocato a Berlino e che il suo contenuto è stato tradizionalmente interpretato come “gnostico”, ossia come connesso a quella complessa galassia testuale che identifica lo “gnosticismo cristiano”. A motivo di tale posizione, si è fatta strada una lettura gnosticheggiante dello stesso Atto di Pietro, interpretato nel solco delle opere “maggiori” trasmesse dal codice di Berlino, quali l’Apocrifo di Giovanni (a cui ho avuto modo di dedicare uno studio monografico qualche anno fa) o il Vangelo di Maria.

Ebbene, la tesi fondamentale del mio contributo è che questa linea di interpretazione non sia soddisfacente, e che l’Atto di Pietro possa trovare migliore comprensione non già come opera gnostica, ma come tentativo “eresiologico” di risposta a tali posizioni dualiste. In altri termini, l’Atto di Pietro sarebbe sì fondamentale per la comprensione delle dottrine gnostiche (e, più in generale, di correnti eterodosse dei primi secoli), ma solo e contrario, come forma di falsificazione della loro pretesa di un rapporto intimo, privilegiato, esclusivo con il Padre. In tal senso, il testo copto ci permetterebbe di penetrare nel vivo di una aspra querelle, mostrandoci i dispositivi di formazione dell’identità proto-cristiana nel loro nascere.

Come si articola il contenuto delle diverse sezioni testuali dell’opera?
Il testo copto presenta una struttura alquanto coerente ed unitaria. Assai verosimilmente, ci troviamo di fronte all’esito di un processo di selezione di un excerptum formalmente indipendente da una più lunga a complessa collezione di Atti apocrifi relativi all’Apostolo. Vi si racconta la straordinaria vicenda occorsa all’apostolo Pietro e a sua figlia. Prima ancora che ella nascesse, una voce celeste informò Pietro di un fatto straniante: qualora il corpo della giovane fosse rimasto sano, avrebbe turbato l’animo di molti. Ed in effetti, dieci anni dopo, la profezia trovò pieno compimento. Mentre la vergine era intenta in un bagno presso un fiume o un lago, un ricco e dissoluto possidente di nome Tolomeo la notò e la concupì sfrenatamente. Al diniego da parte della madre di concedergliela in sposa, Tolomeo si risolvette a farla rapire dai propri uomini e a farla condurre presso la propria dimora. Immediatamente prima che la loro impura unione si potesse compire, all’improvviso la giovane divenne paralizzata per una intera metà del corpo, costringendo Tolomeo a riporre i propri istinti e a riconsegnarla alla casa di Pietro. Rimasto solo nella propria dimora, il ricco possidente cedette ad uno stato di profonda prostrazione, arrivando a meditare il suicidio. Nondimeno, appena prima che potesse impiccarsi, una luce abbagliante illuminò la sua stanza ed una voce gli comunicò di trattenere la propria disperazione, pentirsi, correre senza indugio alla casa dell’Apostolo e sottomettersi alla sua autorità. E così Tolomeo fece.

Il testo si chiude raccontando il destino di Tolomeo dopo la riconciliazione con Pietro: egli, oramai perfettamente integrato nella comunità dei credenti in Cristo e dedito a continui atti di carità, morì in comunione con Dio, lasciando in eredità alla giovane un terreno, che, una volta venduto, poté sfamare molti bisognosi.

Qual è la ricezione della figura dell’apostolo Pietro nei primi scritti cristiani, sia in quelli confluiti nel canone del Nuovo Testamento che in quelli cosiddetti “apocrifi”?
A quanto sembra, è assai verosimile che Pietro non abbia mai messo mano ad alcuno scritto, né abbia raccolto intorno a sé una “scuola petrina” che – similmente a quanto vediamo accadere, al contrario, per la produzione deutero-paolina – possa aver tentato di imitare stile e prospettive del proprio fondatore. Le fonti più informate, del resto, ci descrivono un Pietro pressoché analfabeta, limitato al solo aramaico per la comunicazione quotidiana.

A dispetto di un tale vuoto informativo – o forse proprio grazie ad esso –, nei primi secoli cristiani la figura dell’Apostolo fu al crocevia di una fittissima rete di appropriazioni e riscritture, che si declinarono sia come costruzioni teologico-letterarie focalizzate, in tutto o in parte, sull’attività, l’insegnamento, la memoria di Pietro, sia come narrazioni falsamente composte a suo nome. Si tratta, in quest’ultimo caso, di scritti pseudo-epigrafici, ovvero di opere attribuite in modo esplicito ad un “autore” non responsabile della loro stesura – fenomeno che, in ambito proto-cristiano, rappresenta la norma, non certo l’eccezione.

Se guardiamo al solo Nuovo Testamento, non tardiamo infatti ad accorgerci di come tali fenomeni siano in già atto nella Prima e nella Seconda Lettera di Pietro, complessi scritti pseudo-epigrafici impegnati nella rielaborazione della memoria dell’Apostolo e nella avocazione della sua autorità.

Più in generale, ciascuno scritto evangelico canonico rappresenta una fonte preziosa (e spesso discordante) per la nostra comprensione della figura di Pietro. Si parlerà dunque opportunamente di “attitudine lucana”, “attitudine matteana”, “attitudine marciana” (e via dicendo) verso Pietro, a sottolineare con la massima chiarezza le profonde aporie di metodo che risiedono nel tentativo di rintracciare, vagliando il dettato evangelico, una silhouette fededegna, organica, storicamente attendibile dell’apostolo: insomma, il “Pietro storico” rimane per noi difficilmente sondabile. Al contrario, Pietro appare come figura originariamente prismatica, soggetta ad una precocissima attività di rielaborazione letteraria dei flussi memoriali proto-cristiani. Rievocando una efficace espressione di Markus Bockmuehl, si darà che il Pietro a cui noi abbiamo accesso e con cui il mio volume cerca di venire in contatto è irrimediabilmente un Pietro ricordato, soggetto dunque al lavoro di appropriazione e restituzione ad opera di innumerevoli mediatori. E, in effetti, l’Apostolo pare aver giocato un ruolo di primissimo piano anche entro diverse cerchie gnostiche, come è testimoniato dalla sua presenza come figura centrale di numerosi testi rinvenuti presso Nag Hammadi (quali, a titolo d’esempio, l’Apocalisse di Pietro e gli Atti di Pietro e dei Dodici Apostoli).

Quale relazione mantiene l’Atto di Pietro con la galassia di atti apocrifi protocristiani, soprattutto gli Atti di Pietro latini, e a quale tradizione testuale è dunque possibile ricondurre l’Atto copto?
La domanda è molto complessa, ed è certo disagevole offrire una risposta soddisfacente. Si dirà, innanzitutto, che l’Atto di Pietro pare essere uno scritto “fuori posto” rispetto al proprio mezzo di trasmissione. Vergato al termine di un codex monograficamente dedicato ad opere dalle fortissime simpatie dualiste, il nostro testo pare invece dimostrare un’origine polarmente opposta, vale a dire intrinsecamente connessa all’esigenza dell’emergente ortodossia di contrastare derive carismatiche.

Rimane, in merito, l’interrogativo relativo alle motivazioni che hanno spinto il tardo redattore copto a copiare l’Atto al termine del Berolinensis gnosticus; interrogativo a cui ho tentato di rispondere, seppur con larghi margini di ipoteticità, nel volume. Ciò che invece credo sia possibile affermare al di là di ogni ragionevole dubbio è lo spaccato di profonde polemiche e di aspri conflitti che l’Atto di Pietro lascia intravedere, consentendo l’accesso ad un vero e proprio laboratorio teologico proto-cristiano. Attraverso il ricorso a specifici marcatori dottrinali (l’immorale ricchezza di Tolomeo, la sua disordinata gestione della sessualità, l’intento suicidario, ecc.) il testo plasma con coerenza una immagine nitida dell’avversario teologico – nel nostro caso, l’incauto pretendente al corpo della figlia di Pietro – che non può che sottomettersi all’unico “gestore” lecito e legittimo dell’autorità divina, l’Apostolo. In tal senso, l’Atto copto si dimostra testo fortemente, finanche ferocemente identitario, riducendo ogni possibile istanza teologica concorrente al proprio destino di subordinazione all’autorità petrina.

Da tale prospettiva, il rapporto tra Atto copto e Atti latini di Pietro (i cosiddetti Actus Vercellenses, dacché l’unico manoscritto “completo” è ospitato dalla Biblioteca capitolare di Vercelli) risulta decisivo nella comprensione di tali dinamiche di reiezione dell’avversario dottrinale. Nel volume ho tentato di mostrare come la tradizionale ipotesi di una scaturigine unitaria (verosimilmente romana) dell’intero materiale petrino non-canonico, oggi da più voci avversata, mantenga una forte pregnanza per l’indagine storica. In tale direzione, ho provato a sottolineare gli ubiqui rimandi testuali che connettono Atto copto ad Atti latini, lasciando aperta la possibilità che il primo appartenesse originariamente ad una collezione dei secondi.

Non quindi una generica aria di famiglia favorita dalla presenza del medesimo “eroe” eponimo, ma specifici riscontri testuali mi paiono legare in profondità le due opere, rilanciando con forza la distinta eventualità che una singola tradizione apocrifa relativa a Pietro, in origine coerente sia da un punto di vista formale che dottrinale, si sia precocemente ramificata in rivoli manoscritti e testuali per noi (dunque retrospettivamente) indipendente. Allo stato attuale delle nostre fonti, pare azzardato spingersi oltre nel terreno delle ipotesi. Impossibile, in particolare, è valutare conclusivamente le cause e le modalità d’un eventuale “distacco” dell’Atto dalla tradizione manoscritta degli Atti latini. Nondimeno, in attesa di più aggiornati sondaggi, la ricollocazione dell’Atto copto entro l’alveo della produzione eresiologica, e non già di quella “eretica”, rilancia con forza la più suggestiva delle opzioni in campo, vale a dire il riconoscimento di una tradizione unitaria di espansione del dettato canonico relativo alla fertilissima figura di Pietro, che affonda saldamente le proprie radici nella comunità cristiana della capitale dell’Impero. In tal senso, l’obiettivo primario (e, mi auspico, più fertile) del mio studio è stata l’identificazione, all’interno dell’Atto di Pietro, di un codice identitario proto- cattolico coerente e ben dispiegato, in grado non solamente di illuminare il testo copto, ma anche di suggerire una intellezione più sfumata e plurivoca delle “forze in campo”, mostrando l’osmosi, la continuità ed il dialogo critica la contiguità tra ambiente di elaborazione dottrinale apparentemente distanti ed inconciliabili.

Francesco Berno è assegnista di ricerca in Storia del cristianesimo alla Sapienza Università di Roma

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