“L’attività edilizia a Roma e nelle città dell’Impero romano” a cura di Federico Russo

Prof. Federico Russo, Lei ha curato l’edizione del libro L’attività edilizia a Roma e nelle città dell’Impero romano pubblicato da Quasar: che relazione esisteva tra edilizia pubblica, competizione politica e consenso popolare a Roma?
L'attività edilizia a Roma e nelle città dell'Impero romano, Federico RussoCome nel mondo odierno, o ancora in altri periodi del passato, anche in Roma antica l’attività edilizia rappresentava non solo uno straordinario strumento di propaganda ma anche un mezzo tramite cui era possibile veicolare, in modo immediato, icastico ed efficace, determinati messaggi politici ed ideologici. La costruzione di un edificio, e più in particolare il finanziamento ad esso legato, generosamente offerto dall’evergeta di turno, permetteva a quest’ultimo di affermare la propria posizione entro il contesto politico e sociale di appartenenza, di fare sfoggio della sua generosità (debitamente richiamata, anche in dettagli molto specifici, nelle epigrafi di dedica che accompagnavano l’erezione di un nuovo fabbricato) e pertanto di accaparrarsi la stima, la gratitudine e l’ammirazione dei suoi concittadini. Naturalmente, tale operazione non era fine a se stessa né si esauriva nel rientro di immagine che certo interessava l’evergeta; egli era spesso un politico o un rappresentante dell’élite sociale della sua città (Roma inclusa) che poteva scegliere di intraprendere la carriera politica o rafforzarla ulteriormente, battendosi nel locale agone politico. Vi erano vari mezzi a Roma come nelle città dell’impero per procacciarsi il sostegno del popolo, che si sarebbe poi tradotto in suffragi al momento del voto. Molti di questi mezzi potrebbero apparire ad una sensibilità moderna come la nostra particolarmente inappropriati se non illegali tout court: si pensi, ad esempio, alla diffusissima e non perseguibile (ma moralmente stigmatizzabile) pratica della compravendita di voti, fenomeno ben attestato e autorizzato in Roma antica (sebbene in determinate forme e con dei limiti). D’altra parte, vi erano anche altre strade tramite cui un personaggio di spicco poteva scegliere di trarre dalla sua parte il favore popolare: il finanziamento di opere edilizie pubbliche era appunto uno di questi, e tra i più diffusi. La documentazione epigrafica ci restituisce una grandissima quantità di esempi riconducibili a questo uso: politici di Roma e di città dell’impero, grandi e piccole, che non esitano a spendere grandi somme, tutte debitamente indicate, solo per mostrare la propria magnanimità e dunque assumere una posizione di spicco rispetto ai propri concorrenti nella competizione politica. Non solo il finanziamento, anche l’oggetto, vale a dire l’edificio, poteva assumere un significato particolare: più grandioso esso era e maggiore era la platea che poteva usufruirne (si pensi ad un teatro o ad un edificio termale, punti nevralgici dell’urbanistica romana e pilastri della cultura stessa), maggiore era il ritorno di immagine di cui l’evergeta poteva godere, che si sarebbe tradotto in consenso e sostegno politico. D’altra parte, tali azioni avevano anche un significato prettamente pratico, venendo incontro a precise esigenze delle città, le cui casse, disastrate più spesso di quanto si potrebbe pensare, non avrebbero permesso la costruzione di tali manufatti. A questo proposito, si ricorderà anche l’esistenza di un evergetismo per così dire “minore”, che aveva come oggetto non la costruzione ma la ristrutturazione o manutenzione di un edificio pubblico, rispondendo, anche in questo modo, a bisogni che spesso la cassa pubblica non poteva affrontare. Il consenso popolare rappresentava anche in questo caso il fine ultimo perseguito dall’evergeta, per il quale la costruzione o ristrutturazione di un bene di pubblica utilità non era altro che una forma di investimento dai risvolti ideologici e politici.

Cosa rivela l’analisi dell’attività edilizia nelle città dell’Italia romana e in quelle delle province dell’impero?
Nell’analisi della documentazione epigrafica, letteraria e giuridica relativa alle molteplici forme che l’attività edilizia pubblica poteva assumere a Roma, nelle comunità dell’Italia antica ed infine in quelle delle province dell’Impero, emerge con straordinaria chiarezza la ripetizione, con variazioni non significative, di schemi concettuali e comportamenti comuni a città geograficamente e culturalmente molto distanti. In questo senso, si rivela la capacità, unica nel suo genere ed irripetibile nell’evo antico, che ebbe Roma di avvicinare e armonizzare realtà molto lontane, comprese in tutto il bacino del Mediterraneo fino alle regioni nord europee, che nel corso del tempo entrarono a far parte dell’Impero romano. Progressivamente, anche nel campo dell’edilizia, si diffusero comportamenti sempre più simili, testimoniati in maniera quanto mai icastica dal ripetersi, quasi verbatim, delle formule incise nelle iscrizioni che accompagnavano la costruzione e la dedica di un edificio pubblico da parte di un evergeta privato. Non stupisce, allora, che un cittadino di una comunità della Baetica, una delle tre province in cui era suddivisa la penisola iberica in età imperiale, nel segnalare quanto speso e quanto da lui stesso intrapreso per costruire un edificio per i suoi concittadini si esprima nello stesso modo di un cittadino, ad esempio, di una comunità dell’Asia Minore, o della Grecia o ancora dell’Italia (Roma inclusa): medesimo è il linguaggio, medesimo è il modello culturale di riferimento così come il lessico di valori ed idee. La generosità è, tra le varie virtù, il principale e dominante leit motiv che emerge dalle iscrizioni di dedica di ambito edilizio, così come il rispetto per l’imperatore regnante o per gli dei. La documentazione disponibile mostra bene il diffondersi, a tutti i livelli della società (o perlomeno di quelli che si potevano sobbarcare spese di tale importanza), di valori condivisi, i cui principi fondamentali sono naturalmente da cercare nel bagaglio culturale romano che, di pari passo alle conquiste militari, accompagnò l’estendersi dell’impero di Roma. L’attività edilizia, dunque, può essere giustamente considerata come un efficace indicatore della penetrazione della cultura romana (intesa naturalmente anche nella sua dimensione giuridica, ché il comparto edilizio fu da sempre, a Roma e nelle città dell’impero, regolamentato in maniera estremamente dettagliata) nelle aree interessate dal potere di Roma in tutte le sue fasi, a conferma della straordinaria efficacia di quest’ultimo nel propagare lo stile di vita dei Romani in tutti i suoi aspetti.

Quali aspetti di rilievo presenta la politica edilizia di Antonino Pio?
I principati che si susseguirono nel corso del II secolo d.C. furono accomunati, tra le altre cose, anche dalla volontà di rendere quanto mai stabile ed efficace il funzionamento delle amministrazioni locali delle città dell’impero. A fronte di un’autonomia molto spiccata per quanto riguardava gli affari interni, sappiamo dalle fonti antiche che molte città non erano in realtà in grado di gestirsi in maniera appropriata, soprattutto dal punto di vista finanziario. Coloro che erano infatti preposti alla cassa pubblica e alla programmazione della politica edilizia locale molto spesso venivano trovati colpevoli di comportamenti perlomeno disinvolti nel ruolo di amministratori: ruberie a danno della cassa pubblica erano estremamente diffuse, così come l’usanza di iniziare opere edilizie, con soldi pubblici e privati, che venivano di frequente lasciate incompiute, a causa della cattiva gestione dei finanziamenti. Plinio il Giovane, nel suo carteggio con l’imperatore Traiano, ci restituisce uno spaccato icastico della situazione della città della provincia di cui era governatore, la Bitinia: le città erano letteralmente “infestate” da ruderi di edifici non compiuti, poiché i finanziamenti ad essi preposti si erano esauriti prima del tempo (a causa del dilagare della corruzione) o poiché la progettazione si era rivelata sbagliata. Così, afferma Plinio, le città appaiono deturpate da veri e propri scempi edilizi, oltre a non poter contare su quelle opere di utilità pubblica per le quali erano stati stanziati fondi pubblici o si erano attivati evergeti privati. A partire da Traiano in poi, osserviamo come i principes del II secolo d.C. cercarono, in modo diversi, di porre un freno a questi (purtroppo) frequenti esempi di cattiva gestione finanziaria e scellerata politica edilizia. In particolare, prima Adriano e poi Antonino Pio legiferarono per fare in modo che, nella programmazione di spesa delle città, si desse la priorità alla conclusione di opere già iniziate e lasciate incompiute, in ossequio a quel principio secondo cui anche l’ornatum, vale a dire il decoro estetico, rappresentava un aspetto imprescindibile del benessere di una città. Nel contempo, dirottando i fondi disponibili (privati e pubblici) sui fabbricati da completare, si cercava di limitare la cattiva abitudine di iniziare un’opera per poi abbandonarla. Peraltro, risulta trasparente la motivazione politica di questa usanza: si prometteva e si iniziava un’opera di utilità pubblica principalmente per accaparrarsi il consenso popolare in previsione, ad esempio, di una competizione elettorale. Una volta esauritasi l’occasione “politica”, l’evergeta poteva perdere interesse per l’opera stessa, che restava abbandonata, a deturpare ulteriormente il decoro della città. Ancora Antonino Pio, sempre nell’ottica di preservare l’aspetto estetico delle città, promulgò una serie di misure che incentivavano le operazioni di restauro di edifici esistenti in cattivo stato a detrimento di quelle che prevedessero l’erezione di un nuovo edificio tout court. Si permise, ad esempio, a colui che si facesse carico del restauro di un edificio, di apporre il suo nome sull’edificio stesso, con l’indicazione di quanto era stato speso per i lavori di ristrutturazione. Come si vede, anche in questo caso il ritorno di immagine rappresentava il motore principale per l’attività edilizia, e su questo Antonino Pio, in maniera molto efficace e previdente, fece leva per incentivare le opere di restauro e manutenzione, considerate altrimenti di minore impatto perché più economiche rispetto a quelle che implicavano la costruzione di un nuovo fabbricato.

Quali forme assunse il reimpiego epigrafico nel Foro romano?
Nel mondo romano, la pratica del reimpiego di materiali edilizi come anche di epigrafi fu pratica particolarmente diffusa. La prima, in particolare, fu oggetto di una minuziosa attività legislativa che si dipanò per buona parte dell’età repubblicana e tutto il periodo imperiale. In particolare, nel corso dei secoli si cercò di limitare, in maniera sempre più stringente e prevedendo pene sempre più severe, la cattiva abitudine, pure molto diffusa, di depredare gli edifici abbandonati e pericolanti (di cui Roma e le città dell’impero erano purtroppo ricche, come si è visto sopra) di materiale edilizio di vario genere e tipo. Esisteva, a questo proposito, un vero e proprio commercio, che, naturalmente, tra le varie conseguenze aveva anche quello di rendere ancora più disastrosa la situazione di molti edifici abbandonati. Addirittura, si arrivò a proibire la pratica, anch’essa purtroppo molto diffusa, di spogliare edifici ancora in uso, solo per poterne trarre materiale edilizio vario, che sarebbe stato poi diversamente impiegato. È a questo proposito interessante notare come ad un certo punto si previde, da parte del legislatore, l’obbligo, per coloro che fossero stati trovati colpevoli di spoliazione non autorizzata, di ricostruire l’edificio stesso oggetto della spoliazione. In questo modo, va da sé, si sarebbe trovata una soluzione anche al problema del moltiplicarsi degli edifici diruti. Naturalmente, anche il materiale epigrafico poteva essere oggetto di pratiche di reimpiego, essendo le iscrizioni parte integranti degli edifici pubblici. E tuttavia, nel caso specifico, potevano emergere motivazioni di carattere ideologico, che andavano oltre ai meri criteri di economicità che sovraintendevano alla pratica del reimpiego: il reimpiego di un’iscrizione su un edificio a cui essa non era pertinente originariamente poteva rispondere a precise esigenze ideologiche e propagandistiche, che trovavano appiglio nel contenuto stesso dell’iscrizione, che per svariati motivi, poteva risultare di particolare interesse per chi volesse reimpiegare quel determinato testo.

Federico Russo, già wissenschaftlicher Mitarbeiter e Projektleiter presso le Università di Costanza (Germania) e Vienna (Austria), è attualmente Ricercatore in Storia romana presso l’Università degli Studi di Milano. I suoi interessi di ricerca riguardano diversi aspetti dell’attività diplomatica romana in età repubblicana, i rapporti tra Roma e il mondo italico, la lotta politica a Roma nell’età medio repubblicana, il tema dell’odium regni a Roma, il crimen ambitus e la sua repressione nella tarda repubblica, lo studio delle leggi epigrafiche della Baetica romana, la gestione finanziaria e la politica edilizia nelle città dell’impero. Tra le sue pubblicazioni si ricordano le monografie: Pitagorismo e Spartanità. Elementi politico-culturali tra Roma, Taranto e i Sanniti alla fine del IV secolo a.C. (2007); L’odium regni a Roma tra realtà politica e finzione storiografica (2015); Suffragium. Magistrati, popolo e decurioni nei meccanismi elettorali della Baetica romana (2019).

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER
Non perderti le novità!
Mi iscrivo
Niente spam, promesso! Potrai comunque cancellarti in qualsiasi momento.
close-link